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3 maggio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 237. Heidegger, leggendo Aristotele, ci ha detto quanto sono importanti e fondamentali le emozioni, quasi a dirci che gli umani pensano attraverso le emozioni. Lui ha insistito moltissimo su questo: è arrivato a dire a un certo punto che il πάθος è l’essere stesso: l’esserci è il πάθος, è fatto di πάθος e non di pensiero. Il pensiero, quello teoretico, è qualche cosa che può certo intervenire ma interviene dopo il πάθος; esattamente come prima c’è la chiacchiera, poi c’è il pensiero. Ma, ponendo l’accento su questo, Aristotele nota una cosa fondamentale, e cioè, come dicevo prima, che gli umani non vivono di pensiero ma di emozioni e in base alle emozioni che provano prendono le decisioni che prendono, qualunque siano, è irrilevante. Tant’è che la nozione di ψυχή – ovviamente, lontanissima dalla nozione di psiche di Freud – non è altro che l’umano preso nelle sue passioni, travolto da tutto ciò che desidera, teme, vuole, non vuole, ecc. Come la ψυχή venga generalmente presa in considerazione appare evidente nel libro I, capitolo 1, dell’indagine Περί ζῶον μορίων (intorno a un aspetto del vivente), che costituisce nel contempo un esempio concreto del modo peculiare in cui Aristotele sviluppa il λόγος teoretico. Il trattato si intitola Sulle parti degli animali. A prima vista non sembra che se ne possa ricavare molto. C’è però da osservare che qui lo ζῶον viene inteso nel senso più ampio di “essere vivente”. Μόριον e μέρος hanno un significato più ampio di “parte” nell’unico senso di pezzo quantitativo: μορίων è da intendersi infatti anche come “funzione”, “prestazione”, “elemento strutturale”. I μέρη sono tutto ciò che costituisce l’articolazione coerente, l’“essere coerentemente articolato” di un determinato ente. Περί ζῶον μορίων significa: “Sul nesso di articolazione e prestazione del vivente in quanto ente determinato”. Aristotele inizia la sua analisi con una riflessione di principio sulle condizioni dell’indagine scientifica. Ciò che incontreremo qui corrisponde a ciò che abbiamo conosciuto nella discussione dell’άρετή. Άρετή, virtù, nel senso di capacità, di essere pronti a fare qualche cosa. Infatti, lui la accosta alla ἓξις, all’essere pronti a fare qualcosa. Lì avevamo la definizione di άρετή in quanto ἓξις προαιρετκή μετά λόγου (l’essere pronti nel linguaggio), così come la realizza il φρόνιμος (sapiente, saggio). Qui invece Aristotele fa riferimento alla ἓξις θεωρίας, cioè al “poter disporre dell’indagare scientifico”. Egli definisce tale ἓξις da due lati: 1. έπιστήμη, 2. παιδεία τις (insegnamento di qualcosa). Ad1.Il primo elemento (la έπιστήμη) è la competenza: la giusta possibilità di uno scienziato implica la competenza nel suo ambito di studio. Ad2. Assai più decisiva ed essenziale per Aristotele è la παιδεία, la sicurezza della trattazione. Uno conosce ciò di cui si tratta, è sicuro nel suo esporre. A pag. 238. Viceversa, l’approccio teoretico che dispone della παιδεία è in grado di procedere, in tutte o in determinate possibilità dell’indagine, con il giusto istinto metodico. Con ciò non si intende l’essere esperti di un dato metodo già disponibile come tecnica, bensì la ἓξις, l’essere liberi, il peculiare ponderato essere aperti nei confronti di un determinato contenuto oggettivo e di un determinato ambito oggettivo. Chi possiede il giusto istinto, la giusta παιδεία, sarà subito in grado di decidere se ha un senso che uno tratti la logica matematicamente, o la storia del cristianesimo con le categorie della storia dell’arte, stabilendo in tal modo le tipologie della devozione. Questa ἓξις è oggi del tutto trascurata: difficile è acquisirla e ancora più difficile trasmetterla. Ed è esattamente questa determinazione della ἓξις della παιδεία che si coglie nell’assoluta sicurezza con cui Aristotele espone le sue indagini e si schiera contro la tradizione. Ci sta dicendo che nell’indagine scientifica, così come la intende Aristotele ovviamente, ciò di cui si deve tenere conto sempre è il tutto, la disposizione, l’apertura verso il tutto; quindi, non verso la parte, il μέρος, ma il tutto, tenere sempre conto del tutto. È questo che intende dire quando dice che il φυσικός deve tenere conto della ψυχή, deve cioè tenere conto del vivente: è il vivente che sta parlando, che sta teorizzando, che sta pensando, quindi, con tutte le sue emozioni, le sue paure, i suoi desideri, tutti gli accidenti che gli sono capitati il giorno prima, che sono presenti mentre elabora le sue cose. Di tutto questo è necessario tenere conto. Qui Severino avrebbe potuto intuire che, forse, questo tutto è la condizione perché ci siano gli astratti. Non è che il tutto sia in attesa degli astratti, il tutto è la condizione perché esistano gli astratti. A pag. 239. Qual è la παιδεία decisiva nell’indagine sulla φύσις? Volevo leggervi, visto che lo cita, l’inizio de Sulla parte degli animali di Aristotele. Intorno a ogni conoscenza e indagine, la più umile come la più nobile, si manifestano due tipi di atteggiamento, uno dei quali può essere propriamente chiamato scienza dell’oggetto, l’altro una sorta di cultura. È tipico, in effetti, dell’uomo colto di poter distinguere con precisione ciò che è stato detto propriamente o meno da chi svolge un’esposizione. Tale appunto è anche la persona che noi giudichiamo dotata di cultura generale e l’esser colti è la capacità di fare quanto si è detto. D’altra parte, mentre una tal persona noi la consideriamo individualmente dotata di un’attitudine critica nei riguardi, per così dire, di tutto, altri invece sarà limitato a un tale particolare, che può infatti essere qualcuno dotato di cultura ma con estensione solo parziale. Sicché è chiaro che anche nella ricerca naturale vi devono essere criteri tali che, riferendosi a essi, si possa valutare la forma delle esposizioni a prescindere dalla questione se la verità stia in quel modo o in un altro. È da qui che Heidegger ha preso le mosse, da queste cose che sta dicendo Aristotele, per mostrare come la conoscenza del tutto sia necessaria, non di tutto ma del tutto, cioè del fatto che ciascun elemento, ciascun astratto necessita del tutto per potere esistere. Una qualunque cosa uno scienziato pensi, elabori e produca, tutto ciò è il prodotto di lui in quanto vivente, e quando diciamo vivente diciamo tutta la sua storia, tutto il suo vissuto, tutta la sua formazione, tutti i suoi dubbi, le perplessità, le certezze, tutto quanto ciò di cui lui è fatto. La prima questione: nell’indagine relativa a un ambito specifico bisogna, anzitutto, per così dire registrare, dedicarsi in primo luogo ai φαινόμενα (fenomeni), badare a che aspetto hanno le cose di cui si parla, a come esse ci si offrono primariamente quanto al loro contenuto, e solo in un secondo momento chiedersi perché esse siano proprio così e così, si comportino in questo o quel modo, oppure l’ordine delle domande dev’essere diverso? Si parte dal fenomeno oppure dalla domanda “che cos’è questa cosa?”? Bisogna procedere come gli antichi, che speculavano sulle άρχαί del mondo senza sapere che cosa intendevano per “mondo” – si deve cioè iniziare con la teoria, con ciò che ci è passato per a mente così, di sfuggita, riguardo a una faccenda, oppure è meglio concentrarsi dapprima sulla cosa stessa? Questa era la prima questione. La seconda questione da decidersi: nella misura in cui ogni indagine implica la messa in luce del διά τί (decisione, scelta), non bisogna dimenticare che riguardo all’ente che chiamiamo “natura” si danno due possibilità del διά τί: 1, il “per che cosa e il “da che cosa” è il movimento. Sono queste le due cause, cioè le due prospettive in cui può essere inteso un ente chiarito anzitutto nel suo esserci. Il “per che cosa”, il suo fine, il suo τέλος; il “da che cosa”, la sua origine, il da dove viene o, come direbbe Aristotele, le άρχαί, le origini. Per dirla in modo rozzo: il da dove viene e il dove va. Due domande quindi: 1. Bisogna in genere studiare in primo luogo il fenomeno, e poi chiedersi il perché? 2. Quale delle cause è primaria nel perché? Concentrando la mia attenzione sulla cosa stessa posso decidere in che modo, e da quale angolatura problematica, avvicinarmi a essa. A partire dalla cosa stessa devo decidere anche la seconda questione, cioè quale sia la prospettiva prioritaria, in base al suo senso per l’ente di cui qui si parla, il φύσει ὅν (ente di natura). Sta approcciando a dirci che il “per che cosa” e il “da che cosa” sono due momenti dello stesso, non c’è l’uno senza l’altro. Aristotele illustra la sua decisione considerando i φύσει ὅντα (enti di natura) in quanto ζῷα (viventi). Si occupa, per tutti gli enti, di quelli che vivono. A partire dalla cosa stessa emerge che il primo διά τί è il per che cosa, dunque che, sul terreno della essa in luce dell’aspetto dell’essere del vivente, la prima domanda che devo pormi riguarda il per che cosa. Dove va, il τέλος. “Infatti il λόγος è l’άρχή nel campo dell’ente che sussiste, che “ci” è, e lo è nello stesso modo nell’ambito sia dell’ente prodotto sia dell’ente che “ci” è in quanto φύσει ὅν”. L’ente prodotto è quello prodotto dalla τέχνη. Il φύσει ὅν è l’ente di natura che invece si produce da sé. Aristotele ci ha detto qui una cosa interessante, dicendo che il λόγος è l’άρχή nel campo dell’ente che sussiste. Cosa vuol dire questo? Cos’è l’άρχή? È il da dove, è l’origine. Sta dicendo, dunque, che ciascun ente viene dal λόγος. La questione “in base a che cosa” l’ente si determini, nonché “da quale prospettiva” esso vada anzitutto inteso, viene decisa ricorrendo al λόγος. Dunque, la questione “in base a che cosa” l’ente si determini viene decisa dal λόγος. Λόγος significa sia il “parlare” sia “ciò che parlando è espresso”… Sì, certo. Questo, però, ci riporta immediatamente a una questione che è centrale, fondamentale, peculiare dell’umano, e anche a un inganno tremendo, in cui l’umano cade sin dai primi vagiti: ciò con cui ha a che fare sono sempre e soltanto parole, è sempre e soltanto λόγος. Perché inganno? Questo “inganno” è tra virgolette perché è in qualche modo necessario, perché soltanto così è possibile parlare. Questo lo aveva chiarito molto bene quando diceva che noi parliamo soltanto nella δόξα. La δόξα è l’opinione che noi abbiamo di qualcosa e credere che qualcosa sia qualcosa di per sé. Questo inganno non può essere eliminato, ma può essere inteso e colto per ciò che è, appunto un inganno. Un ingannarsi continuo del linguaggio, che per potere proseguire deve fermare qualche cosa, affermare; affermando qualche cosa, pone questo qualche cosa come se fosse fuori del linguaggio, perché se lo considerasse nel linguaggio non potrebbe fermarlo. Quindi, è quel fermarlo l’“inganno”, che è tra virgolette perché è un inganno necessario, perché per parlare devo fermare le cose. Λόγος significa sia il “parlare” sia “ciò che parlando è espresso” – definizione fondamentale dell’άποφαίνεσθαι (mostrare, esibire): ciò che è espresso è ciò che è mostrato a partire da ciò a cui, parlando, ci si rivolge, il che significa che nel λόγος ciò a cui ci si rivolge, questo specifico ente che è lì davanti, viene mostrato nel suo essere-scoperto. È solo grazie al λόγος che possiamo pensare che davanti a noi ci sia qualcosa. È vero, davanti a noi c’è qualcosa. Ma al punto in cui siamo possiamo porre la questione in termini più precisi. Questa questione la riprenderà dopo, quando parlerà della logica, parlando in particolare del sillogismo, dell’inferenza. Questa questione è interessante perché ciò che sta per dire potrà chiarire il perché gli umani parlano logicamente, senza che nessuno abbia mai fatto corsi o studi particolarmente approfonditi, né sulla logica formale, né sulla logica modale, né sulle logiche paraconsistenti. Come accade questo fenomeno? Se… allora: questa è l’inferenza. Pensate a questo: se dico allora dico qualcosa. Questa è la prima forma dell’inferenza: se dico, dico qualcosa. Possiamo anche formularla così: dicendo dico qualcosa. Ecco la magia, per dirla folkloristicamente, del linguaggio: il mio dire fa apparire, φαίνεσθαι, ciò che io dico, il ciò che il mio dire dice, cioè, l’antecedente fa apparire il conseguente. Apparendo il conseguente, succede una cosa straordinaria: in quel preciso istante esiste anche l’antecedente, in quell’istante e non prima, perché non può esistere da solo, non può esistere il mio dire senza ciò che il mio dire dice. Dicevamo tempo fa, sulla scorta di Platone, λέγειν τί, il dire è il dire qualcosa, se dico, dico necessariamente qualcosa, sennò non dico. Ecco la logica: l’antecedente fa apparire il conseguente, ma il conseguente fa esistere l’antecedente. Questo è molto hegeliano, Hegel aveva intuito questo movimento, lui la chiama dialettica, lo aveva intuito molto bene. È questo che appare: il ciò che il mio dire dice. Ecco che da quel momento appaiono le cose. Senza l’apparire di ciò che il mio dire dice non appare niente, per un animale non appare nulla, non c’è neppure il concetto di apparire. Questa è una questione che Heidegger riprenderà nelle prossime pagine ma, come spesso accade, lui semplicemente le accenna e poi va oltre. E, invece, lì occorrerebbe fermarsi parecchio, perché questo è proprio il fondamento della logica, cioè, è il motivo per cui noi parliamo logicamente e parliamo logicamente perché dicendo diciamo qualcosa. Ecco, questa è la base della logica, logica intesa naturalmente nell’accezione aristotelica, anche heideggeriana, non in quella della logica formale, la quale è solo una sovracostruzione della logica così intesa. La logica è questo: dicendo dico qualcosa, cioè, a un antecedente, che è il dire, segue necessariamente il conseguente, il detto. Protasi e apodosi, dice la retorica, antecedente e conseguente non possono non esserci parlando. Ecco perché noi non possiamo parlare se non logicamente, perché parliamo così, perché dicendo diciamo qualcosa, questo dire ha il suo conseguente. Qui c’è già tutto il sistema inferenziale. Poi, di quello che ne fa la logica formale, questo è un altro discorso, la logica formale costruisce giochetti per bambini ma non pensa, ha cessato di pensare perché ormai ha raggiunto l’idea che il conseguente è necessario se c’è quell’antecedente. Certo che è necessario, ma è necessario che ci sia il conseguente, non che sia quello. Come in de Saussure, il quale diceva che il significato è necessario che ci sia, altrimenti il significante non significa niente, ma non è necessario che sia quello o quell’altro, questo è totalmente arbitrario. È per questo che parlava di arbitrarietà del segno: è arbitrario che albero si dica albero, anziché arbre, ecc., ma che ci sia il significato questo non è affatto arbitrario, perché, come sappiamo, se tolgo uno tolgo anche l’altro, scompare anche il significante.

Intervento: È il significante a non essere arbitrario.

Certo. Il significante non è arbitrario perché è ciò che accade, è ciò che si dà. Per ragioni precise l’espressione λόγος è intesa nella sua duplicità: 1. λόγος, λέγειν nel senso del “dirigersi verso qualcosa” e mostrarlo, λόγος nel senso dell’accesso;… Vedete quante accezioni esistono. Quando il greco parlava, è difficile per noi seguirlo perché dicendo una cosa può voler dire infinite cose. Anche la lingua greca degli antichi – forse è un po’ azzardata, in fondo tiene conto di ciò che dice Aristotele, tiene conto del tutto, e cioè il greco parla del λόγος, ma questo λόγος è detto da un vivente, non ha un significato suo, codificato. Sì, dopo ce l’avrà, ma è detto dal vivente, è il vivente che lo sta dicendo: questo è ciò che Aristotele dice di non dimenticare mai, e non ha torto. È per questo che il φυσικός deve occuparsi ella ψυχή. 2. λόγος nel senso di ciò che è espresso in quanto tale, che implica di per sé l’ente a cui ci si rivolge. In queste poche parole implica di per sé c’è tutto quello che vi dicevo prima rispetto alla logica: implica di per sé l’ente, il mio dire implica di per sé che ci sia il detto – il detto è anch’esso un ente. Questa è la logica, questo è sfuggito anche a Hegel, nonostante fosse una mente acuta. Dicendo che implica di per sé l’ente a cui ci si rivolge, sta dicendo che il λόγος lo implica di per sé, il mio dire implica di per sé che se dico, dico qualcosa. Non è un’aggiunta, qualche cosa che viene a integrare, no, se c’è uno c’è l’altro necessariamente. Ci sta dicendo che il linguaggio è relazione, che il λόγος implica necessariamente l’ente a cui si rivolge, cioè, un’altra parola. Tra un po’ dirà che il linguaggio non è relazione, contraddicendosi, dicendo subito che invece è relazione. In questo secondo senso che noi tedeschi traduciamo λόγος con Anspruch, la “chiamata”, il “rivolgersi a”. Anche in tedesco l’espressione ansprechen, “chiamare”, “rivolgersi a”, viene utilizzata con un significato particolare: di un telefono diciamo che “chiama”, “risponde”, così come diciamo “rispondi” nel senso di replicare qualcosa a una chiamata telefonica. Λόγος nel senso dell’accesso: mostrare una cosa così e così, rivolgersi a una cosa in questo o quel modo. Vedete qui come il λόγος abbia a che fare con il vivente, è il vivente che fa queste cose, è lo ζῶον λόγον ἔχον, il vivente provvisto di linguaggio. Nel rivolgersi a una cosa, la cosa che, così, è stata interpellata si rivolge – nel mostrare, essa si mostra così com’è. Ciò che importa è come una cosa viene interpellata… Cosa vuol dire questo? Sono io che la interpello, sono io in quanto vivente. Quindi, la interpello a partire da tutto ciò che sono, che penso, che dico, che faccio, ecc. Ancora non siamo al punto di dire – Aristotele non poteva arrivarci – che senza di me la cosa non c’è. Sono io che la interpello e interpellandola la pongo, proprio nel modo in cui diceva qui, cioè implica di per sé l’ente a cui ci si rivolge. È per questo che il λόγος si presenta molto spesso come identico all’εἶδοςΛόγος, εἶδος, εἶναι, l’essere, è come se fossero tutti aspetti di una stessa cosa, una stessa cosa che poi è il tutto, è il linguaggio stesso. λόγος significa chiamata, ciò che la cosa offre, e nella giusta chiamata essa offre il “come” del suo aspetto e il “che cosa” del suo essere. La giusta chiamata, ci dice. Certo, qui Heidegger, e ancor più in Aristotele, c’era comunque l’idea che qualcosa fosse di per sé. Poi, Heidegger si rende, sì, conto che c’è il linguaggio, si rende conto che il linguaggio e non l’essere è il problema; e se l’essere si pone come un problema è perché lo sovrappone al linguaggio, e questo problema di sicuro non si risolve né barrando l’essere o facendo altre diavolerie del genere. Rimane comunque un sottofondo metafisico, nel senso di presupporre l’esistenza dell’ente in quanto tale, che esista di per sé, fuori del linguaggio. Heidegger delle volte oscilla, non è chiarissimo; per Aristotele la cosa è più complicata. Come definisce Aristotele l’essere? Attraverso le dieci categorie. E le categorie cosa sono? Sono predicati, ciò che si dice di un qualche cosa, i praedicamenta, dicevano i medioevali, ciò che se ne dice. Quindi, che cos’è l’essere? Ciò che se ne dice. Ma a questo punto, come proseguiamo? Con l’idea dell’essere come sostanza, così come poi è stata intesa nel Medioevo, come substantia, che dovrebbe tradurre il greco ποκείμενον. Invece, Heidegger traduce ποκείμενον con “ciò di cui si parla”, la materia del dire, ciò di cui stiamo parlando. Il “per che cosa” è il λόγος Questo è interessante. Di nuovo Heidegger non si rende conto di ciò che ha sottomano, perché ha detto prima che il λόγος è l’άρχή e adesso dice che è il τέλος. Quindi, il λόγος è il “per che cosa” ma anche il “da che cosa”, cioè le cose vengono e vanno nel linguaggio. Sta dicendo questo ma non lo coglie appieno. Perché gli sfuggono queste cose? Eppure, le dice lui stesso. Il “per che cosa” è il λόγος, e poiché è così, e il λόγος è l’άρχή, il “per che cosa” è il primo perché. Il λόγος è l’άρχή e il τέλος, è l’alpha e l’omega, avrebbero detto altri, cioè, il tutto, il da dove viene e dove va. Che altro c’è? Niente. Dice che è il primo perché, è la prima cosa che si domanda: perché qualcosa esiste? La risposta a questa domanda è: partiamo dal linguaggio e torniamo al linguaggio, nel senso che da lì non usciamo. Dicendo che il “per che cosa” è il λόγος di una cosa, lo si intende in base a una specifica prospettiva: il τέλος. Quindi, il λόγος lo si può intendere in base al “da dove viene” e al “dove va”. Ci sarebbe da dire un’altra cosa a questo punto: “per che cosa” parlo? Per parlare, perché il τέλος è λόγος, il fine per cui parlo, per cui c’è il dire, il λέγειν, è sempre il dire. Il τέλος è l’autentico λόγος. Questo fine, questo “per che cosa”, è l’autentico λόγος. Τέλος non significa “scopo”, ma “essere finito”, “fine”. Il συνεστηκός, ciò che “sta lì” in quanto è finito, costituisce il senso autentico dell’esserci di un ente. Qui introduce una cosa di cui aveva parlato prima, e cioè della finitezza e di quanto sia importante la finitezza, perché questo ci mostra un altro aspetto importante: il λόγος, come τέλος, è il finito. Sappiamo bene che è fondamentale per il λόγος il finito, perché in caso contrario non potremmo parlare. Se qualche cosa non si offre come finita, cioè come affermazione, non potremmo proseguire. Deve porsi come affermazione, il λόγος si pone sempre come affermazione, è un’affermazione ininterrotta, senza tregua. Quando ci si rivolge a qualcosa nel suo essere-finito si ha la giusta chiamata. Sì, certo, si ha la giusta chiamata, ma è qualcosa di più, nel senso che posso rivolgermi a qualcosa solo se lo pongo come finito, sennò non so a che cosa rivolgermi. Il τέλος in quanto essere-finito è ciò presso cui la produzione ha la sua fine. L’essere-finito in quanto tale è ciò presso cui la produzione, l’approntamento, perviene alla fine. In quanto “finito” della produzione, il τέλος è il “per che cosa”, ciò per la produzione, appunto, è così e così. Visto dalla prospettiva del “pervenire nel suo essere” di un ente, il τέλος è il “per che cosa”. Cosa ci sta dicendo? In quanto “finito” della produzione… Che cos’è la produzione? È il mio dire. È il mio dire che produce continuamente cose. Ma questa produzione continua deve essere finita, deve cioè giungere ad un’affermazione: questo è il τέλος. Potremmo a questo punto dire in modo più appropriato che il τέλος del λόγος è l’affermazione. Questo è il suo “per che cosa”: potere affermare qualcosa, ma per poterlo fermare deve essere finito. Aristotele compie questi passaggi in modo concreto. Seguiamolo nel suo operato, procurandoci nel contempo la base per capire come, in questa analisi ontologica, si renda comprensibile in che senso il τέλος è il λόγος di un ente, quindi in che senso l’indagine degli antichi fisiologi fosse fuorviante. Da ciò prende il suo indirizzo l’intera trattazione dei φύσει ὅντα (enti di natura). Al tempo stesso vediamo in che senso proprio il τέλος inteso come λόγος autentico dei φύσει ὅνταÈ come dire che gli enti di natura sono autenticamente in quanto finiti, se ce ne occupiamo. …e precisamente degli ζῷα (viventi) – altro non sia che ψυχή, sicché il fisico deve trattare πρῶτον il τέλος. Questo è interessante, anche in ambito scientifico – scientifico nell’accezione più aristotelica – e cioè il farsi delle domande relativamente a un ente. La domanda tipica è “che cos’è?”, mentre Aristotele suggerisce che la prima domanda (πρῶτον) è chiedersi “per che cosa è”. E qui Heidegger, di nuovo, risolve la questione, ma se ne accorge solo fino a un certo punto. “Per che cosa” è questa cosa? È per il “ci” dell’esser-ci, e cioè per me. Questa cosa è quella che è per me, non nel senso che a me pare così, ma in quanto è rivolta a me. Ecco la questione della chiamata: in che modo l’ente mi chiama? L’ente è il mio discorso e il mio discorso mi chiama continuamente. Mi rendo conto di dire cose dove ciascuna meriterebbe ben più ampia trattazione, ma ci sarà man mano che proseguiremo l’occasione per articolarle di più. Ecco, ora parla del “ci”. A pag. 242. Ούσία: all’inizio siamo partiti dal significato corrente e abbiamo inteso l’ούσία come l’“ente che è attualmente presente nel suo “Ci”, “ciò che è disponibile”, gli “averi” – l’ούσία come sta alla base delle localizzazioni fondamentali. Significato di essere come essere attualmente presente. Essere: esser-ci nel presente. È questo il modo in cui si danno le cose. Questo “ci” è l’essere del vivente nel suo essere quello che è. Io sono presente in ciò che sono come io in quanto mondo, ma questo mondo in cui sono non è qualcosa che mi è esterno, non è mai stato esterno, se fosse davvero esterno non lo avrei mai percepito in nessun modo. Percepisco il mondo, dicevamo forse l’altra volta, perché io sono il mondo, ed è così che lo percepisco: lo percepisco essendo-ci nel mondo. Questo mondo è per me, ma nel senso che io sono il mondo. …il significato di essere in quanto essere attualmente presente ottiene una spiegazione più precisa se riusciamo a mostrare che cosa significa il “Ci” per i greci: l’essere pervenuto nel “Ci”, precisamente tramite la pro-duzione; “pro”: “Ci”; il “pro” è un determinato “Ci”; pro-durre: portare nel “Ci”, nel presente. È il senso proprio della ποιησις. Qui fa tutta una costruzione, che sembra complicata ma non lo è. Dice che per i greci l’essere è l’essere pervenuto nel “Ci”, precisamente tramite la pro-duzione, ma questa pro-duzione, ciò che si pro-duce, non è altro che il mio dire, è questo che pro-duce continuamente. Dice del “pro”, che è un determinato “Ci”, cioè, questa pro-duzione è sempre per me, come il mondo, che è per me, sono io che produco. Questo produrre sono io, non è un qualche cosa che mi si aggiunge; naturalmente, se si intende ποιησις in questa accezione, mentre è chiaro che se intendo la produzione come il produrre un paio di scarpe, allora sì, il calzolaio, per esempio, la domenica non produce scarpe. Ma, se intendiamo la produzione nell’accezione più ampia, cioè tenendo conto del tutto, così come lo stesso Aristotele ci suggerisce, allora produzione significa si produce sempre. È strano che non accosti la produzione alla ποιησις, al λόγος. Dice pro-durre: portare nel “Ci”, nel presente. Ma nel presente che cos’è il presente? È l’ente, è lui che è presente. È il senso proprio della ποιησις. Esser-ci è in senso proprio essere pro-dotto, vale a dire, esser-ci pronto, essere pervenuto alla fine. Τέλος = πέρας (limite). Essere pervenuto alla fine. Ma alla fine di che? È giunto alla fine nel senso che qualcosa si è compiuto, l’affermazione si è compiuta, è finita, è quella. Sono questi i fili conduttori per il senso fondamentale dell’ontologia greca, coì come esso agì poi più tardi nei successori dei greci, in modo tale che il senso originario dell’essere ne fu nascosto trasformandosi in un mero significato verbale. Il significato originario dell’esserci per i greci era questo senso di appartenenza al tutto. Non era una cosa suddivisa in particolari, in specificità, anche il loro stesso dire teneva sempre conto del tutto, teneva conto che ciascuna cosa rinvia a un’altra, e che tutto ciò che io dico sono io che lo dico in quanto vivente, con tutto ciò che questo comporta. Il significato primario di ούσία, essere, da cui siamo partiti, è “averi”: ciò che viene prodotto in legno, pietra, e posto sul terreno è τέχνη ὅν (ente tecnico): 1. quindi πράγματα e χρήματα: ciò con cui ho a che fare, che è a mia disposizione, che uso correntemente nella vita pratica; 2. I φύσει ὅντα in quanto γινόμενα; 3. I φύσει ὅντα in quanto άει (sempre). I caratteri ontologici possono essere resi comprensibili solo in base al senso dell’esserci in quanto essere-prodotto. Per il greco tutto ciò che è è prodotto. I πράγματα (le cose) “ci” sono nella misura in cui sono prodotti della τέχνη. Invece i φύσει ὅντα sono qualcosa che “ci” è nel “prodursi da sé”, qualcosa che non ha bisogno di essere prodotto da altri. Essi “ci” sono esattamente come i πράγματα; però la loro γένεσις ha a sua volta nuovamente il carattere del “Ci”: una pianta cresce e ne produce altre. Da ultimo si dà l’ente che “ci” è, il φύσει ὅν è in quanto άει (sempre), ciò che non necessita di produzione, ciò che “ci” è in modo tale da non avere bisogno di essere prodotto. Esso “ci” in senso autentico, però è comprensibile solo a partire dalla produzione. Il terreno dell’ente è il produrre. Si può notare in che modo il λόγος sia la possibilità di conquistare l’accesso all’essere inteso nel senso specifico dell’“esserci pronto”, dell’“essere pervenuto alla fine”. Il λόγος è ciò che ci consente di produrre l’essere.