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3 aprile 2024

 

Aristotele Fisica

 

Siamo al Libro quarto, dove Aristotele affronta tre problemi: il luogo, il vuoto e il tempo. Quelli più interessanti sono i capitoli relativi al tempo; anzi, è probabilmente quanto di meglio io abbia mai letto intorno al tempo. 209a, 2. …se esso (il luogo) esiste, è difficile determinare che cosa esso sia, se una massa corporea o qualche altra natura. Bisogna, infatti, ricercare anzitutto il suo genere. Comunque, esso ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità, le stesse da cui ogni corpo è determinato. Ma è impossibile che il luogo sia un corpo, perché allora in esso stesso ci sarebbero due corpi. Inoltre, se esistono un luogo e uno spazio per il corpo, è chiaro che essi esistono anche per la superficie e per gli altri limiti, giacché, anche in questo caso, sarà ben valido il medesimo discorso: infatti, là dove era prima il piano occupato dall’acqua, vi sarà, un’altra volta, quello occupato dall’aria. Aveva fatto prima l’esempio dell’otre: tolgo l’acqua e entra dentro l’aria. D’altra parte, non possiamo, però, porre neppure alcuna differenza tra il punto e il luogo del punto; sicché, se il luogo non è diverso da esso, non è neppure diverso da nessuna delle altre cose, né il luogo è una cosa che sia al di fuori di ciascuna di quelle. Che cosa mai, dunque, potremmo noi stabilire che sia il luogo? Per la sua particolare natura esso non è un elemento né può derivare da elementi, siano essi corporei o incorporei. Esso, infatti, ha una grandezza, ma non è affatto un corpo, mentre gli elementi dei corpi sensibili sono corpi, e dagli elementi intelligibili non deriva alcuna grandezza. 209a, 23. E poi, se proprio esso è un qualche ente, dovrebbe essere in un qualche luogo. In verità, l’aporia di Zenone merita pur qualche considerazione: se, difatti, tutto l’essere è in un luogo, anche del luogo ci sarà un luogo, e così via all’infinito. 209a, 31. Poiché in un senso si parla di ciò che è per sé, in un altro di ciò che è per altro, anche il luogo, da una parte, è quello comune nel quale sono tutti i corpi, dall’altra è quello particolare in cui immediatamente un corpo è (ad esempio, io dico: tu ora sei nel cielo, in quanto che sei nell’aria – quest’aria, infatti, è nel cielo – , e sei nell’aria in quanto che sei sulla terra, e allo stesso modo sei su quest’ultima, perché sei in questo luogo, il quale contiene null’altro che te); e se il luogo è ciò che immediatamente contiene ciascun corpo, esso sarà, allora, un certo limite, sicché il luogo sembrerà essere la configurazione e la forma di ciascuna cosa, mediante cui sono limitate la grandezza e la materia della grandezza: giacché questo, appunto, è il limite di ciascuna cosa. 209b, 10. …e tali appunto sono la materia e l’indeterminato; quando, difatti, si tolgano via da una sfera il limite e le affezioni, non rimarrà nulla tranne la materia. Perciò anche Platone dice nel Timeo che la materia e lo spazio sono la medesima cosa, giacché il ricettacolo e lo spazio sono una sola e medesima cosa. Ma egli, pur definendo in quel passo il ricettacolo diversamente da come lo definisce nelle cosiddette Dottrine non scritte, ha, comunque, identificato il luogo e lo spazio. E se tutti, invero, dicono che il luogo è un qualcosa, egli solo, però, ha tentato di dirne l’essenza. 209b, 21. Ma l’impossibilità che il luogo sia solo una di queste due cose, non è difficile a scorgersi. La forma e la materia, infatti, non sono separabili dalla cosa, il luogo, invece, si ammette come separabile: difatti, proprio là dove era l’aria, ivi un’altra volta, come noi dicevamo, sarà l’acqua, qualora l’acqua e l’aria mutino reciprocamente il loro posto… 209b, 32. A questo punto, se ci è concessa una digressione, si dovrebbe chiedere a Platone per quale motivo non siano in un luogo le idee e i numeri, se proprio il luogo è ciò che rende possibile la partecipazione, tanto nel caso che questo agente sia il grande ed il piccolo, quanto nel caso che esso sia la materia, come egli ha scritto nel Timeo. 210b, 22. L’aporia, poi, di Zenone, secondo la quale, se il luogo è qualche cosa, esso sarà in qualche cosa, non è difficile a risolversi. Nulla, infatti, impedisce che il primo luogo sia in un altro, ma non in quanto quest’altro sia un luogo, bensì come la salute è nelle cose calde, cioè come stato, o come il caldo è in un corpo, cioè come passione. Qui la cosa è buffa, vuole obiettare la tesi di Zenone, che dice se il luogo è qualche cosa, esso sarà in qualche cosa. Aristotele, però, dice: Nulla, infatti, impedisce che il primo luogo sia in un altro, ma non in quanto quest’altro sia un luogo, cioè, è in altro ma non in un luogo. Ma se non è in un luogo, allora l’obiezione a Zenone si dissolve, perché Zenone sottolineava che, se il luogo è in luogo, questo è in un altro luogo, ecc. Quindi, secondo Aristotele, non è in un luogo ma in un’altra cosa. Cosa? 211a. Anzitutto noi affermiamo che il luogo è ciò che contiene quell’oggetto di cui è luogo, e non che è nulla della cosa medesima che esso contiene; inoltre, che esso è privo di ciascuna cosa ed è separabile; e, ancora, che ogni luogo ha l’alto e il basso, e che per natura ciascun corpo è portato e permane nel proprio luogo, e che ciò si verifica sia in alto sia in basso. Definisce il luogo, abbastanza banalmente, come quel contenitore in cui c’è qualche cosa, ma questo qualche cosa non appartiene al contenitore, è un’altra cosa; difatti, può essere scambiato: la bottiglia può contenere vino, quando tolgo il vino entra l’aria. 211a, 30. …quando il contenente non è discreto, ma continuo, allora si dice che il corpo è in esso non come in un luogo, ma come parte nel tutto; quando, invece, il contenente è discreto e contiguo, il corpo, allora, è immediatamente nell’estremità del contenete, e questa non è né parte del proprio contenuto né più grande dell’intervallo, ma uguale, per il fatto che le estremità delle cose contigue sono nel medesimo luogo. Questo, dunque, è ciò che Aristotele pensa del luogo. Passiamo al vuoto. 213a, 13. Allo stesso modo bisogna pretendere che il fisico mediti intorno al vuoto, se esso sia o no, e in che modo e che cosa esso sia, proprio come si è fatto a proposito del luogo: infatti, secondo i vari punti di partenza, il vuoto offre quasi gli stessi spunti tanto perché se ne affermi quanto se ne neghi l’esistenza. E, infatti, quelli che ne ammettono l’esistenza, pongono il vuoto come una sorta di luogo o di vaso; esso sembra essere pieno, quando contiene la massa di cui è capace, e sembra vuoto, quando né privato, quasi che un identico oggetto sia vuoto e pieno e luogo, ma non sia identica l’essenza di queste tre cose. Bisogna, comunque, iniziare la ricerca prendendo in esame le teorie di quelli che ne sostengono l’esistenza e di quelli che, al contrario, la negano, e in terzo luogo le opinioni comuni su tali argomenti. Quei filosofi che, come Anassagora e gli altri che adducono le medesime argomentazioni, cercano di negare l’esistenza del vuoto, non confutano affatto ciò che generalmente gli uomini intendono per vuoto, ma soltanto gli errori in cui si suol cadere affermandone l’esistenza. Essi, per dimostrare che l’aria è qualcosa, si servono della contorsione degli otri, indicando, così, quanto sia la forza dell’aria, e la intercettano nelle clessidre. Gli uomini comuni, invece, affermano che il vuoto è un intervallo in cui non c’è alcun corpo sensibile; e poiché credono che ogni ente sia un corpo, essi affermano che il vuoto è ciò in cui non c’è nulla affatto; e perciò, secondo loro, quello che è pieno d’aria, è il vuoto. Pertanto, si dovrebbe dimostrare non già che l’aria è qualcosa, ma che non c’è altro intervallo tra i corpi né separabile né in atto, il quale penetri attraverso tutto il corpo in modo che quest’ultimo non sia continuo, come affermano Democrito e Leucippo e molti altri fisiologi, oppure se un tale intervallo sia qualcosa di esterno ad ogni corpo, pur essendo continuo ogni corpo. Quindi, dicevano che non esiste una estensione diversa dai corpi, né distinta né esistente in atto. I primi, intanto, non si accostano neppure alla soglia del problema, ma vi si accostano di più quelli che ammettono l’esistenza del vuoto. Anzitutto, questi ultimi affermano che non vi sarebbe il movimento locale (cioè, lo spostamento e l’accrescimento): infatti, non risulterebbe possibile l’esistenza del movimento, se non ci fosse il vuoto, perché impossibile che il pieno accolga qualcosa. 213b, 13. E Melisso, proprio partendo da queste considerazioni, dimostra anche che il tutto è immobile: se, infatti, si muovesse, sarebbe necessaria, egli dice, l’esistenza del vuoto, ma il vuoto non è nel novero degli enti. Orbene: essi dimostrano che il vuoto è qualcosa, in un modo partendo da tali considerazioni, in un altro modo fondandosi sul fatto che sembra che alcuni corpi si uniscano e si comprimano (così, ad esempio, si dice che le botti ricevono il vino insieme con gli otri), come se il copro, condensato, si concentrasse in quegli spazi vuoti che sono dentro di esso. 213b, 23. Anche i Pitagorici ammettevano l’esistenza del vuoto e dicevano che esso, per opera del “soffio infinito”, avanza nel cielo, come se questo respirasse, e che è proprio il vuoto a delimitare le cose della natura, quasi che il vuoto fosse un elemento che separa gli elementi consecutivi e li delimita; e asserivano che ciò si verifica anzitutto nei numeri, giacché il vuoto delimita la loro natura. Il vuoto tra un numero e l’altro. 213b, 30. Per risolvere l’alternativa bisogna considerare che cosa significa il nome stesso. Orbene: è opinione che il vuoto sia un luogo in cui non c’è nulla. E la causa di ciò è nel fatto che si crede che l’ente sia un corpo e che ogni corpo sia in un luogo, e che il vuoto sia il luogo nel quale non c’è alcun corpo; sicché, se in un luogo non c’è un corpo, ivi c’è vuoto. Inoltre, si crede che ogni corpo sia tangibile: e tale è, in verità, ogni corpo che abbia peso e leggerezza. 214b, 30. Se si considera bene, a quelli che pongono come necessaria l’esistenza del vuoto fondandola sull’esistenza del movimento, capita piuttosto il contrario di quello che essi vorrebbero: che, cioè, non è possibile che neppure un solo oggetto si muova, qualora il vuoto esista. Difatti, come alcuni sostengono che la terra è in quiete a causa della sua omogeneità, così anche è necessario che essa rimanga quieta nel vuoto; non c’è nulla, infatti, verso cui essa sarà più o meno mossa, perché il vuoto, in quanto tale, non offre alcuna differenza. Perché non c’è movimento? Perché non c’è la possibilità di cogliere una differenza tra un posto e un altro. Vedete come tutta la Fisica di Aristotele è fondata sulla δόξα, sull’opinione, su quello che si crede. Di poi si tenga presente che ogni movimento è o per violenza o per natura. Ma l’esistenza del moto violento presuppone necessariamente quella del moto naturale (infatti, il moto violento è contro natura e, se è contro natura, è posteriore a quello naturale); sicché, se non vi sarà per alcun corpo fisico un movimento naturale, non vi sarà neppure nessuno degli altri movimenti. Ma come vi potrà essere un movimento naturale lungo il vuoto e l’infinito, se in questi non persiste alcuna differenza? Ma come vi potrà essere un movimento naturale lungo il vuoto e l’infinito, se in questi non persiste alcuna differenza? Non fa una grinza, pur essendo assolutamente δόξα. Infatti, nel primo, in quanto infinito, non ci saranno0 né l’alto né il basso né il mediano, e nel secondo, in quanto vuoto, l’alto non differisce affatto dal basso (giacché come del nulla non c’è alcuna differenza, così è pure del non-ente, e il vuoto par che sia, in certo modo, non-ente e privazione); lo spostamento naturale, invece, ha le sue differenze, sicché gli oggetti che naturalmente si muovono sono differenti. Dunque, o non c’è per natura alcuno spostamento in nessun luogo, e per nessuna cosa, oppure, se questo c’è, non c’è affatto un vuoto. Perché, se questo movimento esiste, vuol dire che possiamo differenziare: il luogo, l’alto, il basso, la destra, la sinistra, ecc. Se non possiamo differenziare, allora c’è il vuoto ma non c’è il movimento, perché come lo determino? 217a, 20. Tuttavia, mentre essi, per queste ragioni potrebbero dire che esiste un certo vuoto, noi invece diciamo, in base a presupposti fondamentali, che unica è la materia dei contrari, del caldo e del freddo e delle altre coppie di contrari fisici, e che da ciò-che-è-in-potenza si genera ciò-che-è-in-atto (ἐνέργεια), e che la materia non è separabile, bensì diversa per essenza, ed una in quanto al numero, secondo le varie occasioni, cioè colore, caldo e freddo. Così anche del corpo, grande o piccolo che esso sia, la materia è la stessa. Ed è ovvio: quando, infatti, dall’acqua si genera l’aria, è sempre la medesima materia, che subisce la generazione, senza l’aggiunta di nulla di estraneo, ma soltanto col passaggio di una medesima cosa dalla potenza all’atto… Qui Aristotele parla di nuovo di potenza e di atto, perché si accorge che, in effetti, è proprio questo che offre la possibilità di intendere le questioni, e cioè intendere come ciascun elemento sia quello che è in virtù del fatto che coappartiene a ciò che non è. Infatti, la potenza non è l’atto (ἐνέργεια), così come l’atto non è la potenza; ma potrebbe darsi la potenza senza l’atto? Sarebbe potenza di nulla, quindi, sarebbe nulla. E l’atto non sarebbe atto se non fosse anche in potenza. Quindi, con questa idea dell’έντελέχειᾳ Aristotele incomincia a intendere veramente la questione. È come se ci dicesse, anche se non lo dice, che, se teniamo le cose separate, non intendiamo nulla perché andiamo incontro inesorabilmente ad aporie, così come si va incontro ad aporie, per esempio, laddove si nega il linguaggio: per negarlo devo utilizzarlo. È per questo motivo che Aristotele inventa questo termine σύνολον, e cioè la coappartenenza di materia e forma. Non c’è la forma senza la materia, la materia senza forma non c’è. A questo proposito ci sarebbe da leggere il De generatione et corruptione, dove precisa la questione: della materia, sì, ne parliamo, ma non esiste senza la forma, ed è la stessa cosa del dire che non c’è la potenza senza l’atto, così come non c’è la sostanza senza le categorie. Tutto Aristotele andrebbe letto tenendo sempre presenti le categorie. 217b, 20. Da quanto si è detto, risulta evidente che né c’è vuoto separato, sia in senso assoluto sia nel raro, né c’è vuoto in potenza, a meno che non si voglia ad ogni costo chiamare vuoto ciò che è la causa dello spostamento degli oggetti. Ma in tal caso, il vuoto sarebbe la materia del pesante e del leggero in quanto tali; infatti, il denso e il raro, in virtù di questo contrasto, possono produrre uno spostamento; invece, in relazione al duro e al molle, possono produrre il patire e il non patire, e cioè non uno spostamento, ma piuttosto una variazione. Il denso e il raro, il duro e il molle, vale a dire, la coappartenenza di due opposizioni è ciò che produce il moto. Ci dirà poi come il movimento venga dalla coappartenenza di potenza e atto. Passiamo al tempo. Dovremmo leggere quasi tutto, in quanto è denso e ricco ed è difficile farne una epitome. 217b, 30. Attenendoci a queste conclusioni, dobbiamo ora passare allo studio del tempo, ed è anzitutto opportuno cercare di risolvere tale questione anche per mezzo di discorsi essoterici, per determinare se esso rientri nel numero delle cose esistenti o di quelle non esistenti e, quindi, per definirne la natura. Che esso non esista affatto o che la sua esistenza sia oscura e appena riscontrabile, lo si potrebbe sospettare da quanto segue. Una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza. Se questo tempo è fatto di parti inesistenti, perché non ci sono più, che sostanza hanno? Aristotele non fa come Agostino che, quando gli chiedevano che cos’è il tempo, rispondeva: finché nessuno me lo chiede so che cos’è; quando qualcuno me lo chiede non lo so più. Ovviamente, non l’ha mai saputo, né prima né dopo; solo che, se nessuno glielo chiede, crede di saperlo, ma non lo sa. Oltre a ciò, è necessario che, se c’è un tutto divisibile in parti, dal momento che esso c’è, ci siano anche o tutte le parti o alcune. Ma del tempo alcune parti sono state, altre sono per essere, ma nessuna è, sebbene esso sia divisibile in parti. Si tenga anche presente che l’istante non è una parte: infatti, la parte ha una misura, e il tutto deve risultare composto di parti, mentre il tempo non sembra essere un insieme di istanti. Inoltre, non è facile vedere se l’istante, che sembra discriminare il passato e il futuro, permanga sempre unico ed identico oppure diventi sempre diverso. Qui si incomincia a intravedere la questione dell’istante. L’istante è un punto in base al quale decido che cosa è prima e cosa è dopo, non esiste l’istante come ente di natura. Però, vi anticipo una cosa importante che Aristotele non dirà esplicitamente, però… L’istante è qualcosa di cui non posso neanche parlare, perché se ne parlo già non è più, è già altro. Questo dovrebbe richiamarvi a Gentile, al pensiero pensante. Come faccio a pensare il pensiero pensante? Se lo penso è pensiero pensato, non c’è più quell’attimo, quell’attimo è perduto per sempre. E, allora, come so che c’è l’istante, l’attimo? Non lo so, ce l’ho messo io, non esiste in natura l’attimo, lo metto io per distinguere il passato dal presente, e lo metto dove mi pare. Se, pertanto, esso è sempre diverso e se nell’estensione temporale nessuna parte che sia sempre diversa può coesistere con un’altra (a meno che non si trovino per assurdo nella relazione di contenente-contenuto, come un tempo più breve è contenuto da uno più lungo), allo stesso modo che quella parte ora non più esistente, ma esistente prima… Vedete come gioca qui. L’istante che adesso c’è ma che prima non c’era: come faccio a saperlo che c’era? Lo so perché ce l’ho messo io. Di sicuro non l’ho determinato, perché non lo posso determinare… a un certo momento è trapassato, così anche gli istanti non saranno simultanei tra loro, ma risulterà sempre necessario che l’istante precedente sia trapassato. Sta descrivendo in modo ineccepibile la parola. Nel momento in cui la dico, so che cos’è? No, perché è già detta. È esattamente come il pensiero pensante di Gentile: la parola, dicendosi, dilegua. Eraclito aveva già detto tutto quello che c’era da dire: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, la parola, nel suo sorgere, dilegua. Ed è esattamente ciò che sta descrivendo qui Aristotele: risulterà sempre necessario che l’istante precedente sia trapassato, quindi, è perso per sempre. Perché è perso per sempre? Perché lui, in quanto tale, non è mai esistito. Ecco la questione: quell’istante non è mai esistito, l’ho posto io, arbitrariamente. È un po’ come il punto: sono io a stabilire che quella cosa lì è il punto, ma non ha una dimensione; posso rappresentarlo attraverso le coordinate cartesiane, ma il punto, in quanto tale, non posso descriverlo propriamente. Esso, però, non può essere trapassato in se stesso per il fatto che esso in tal caso esisterebbe ancora, né è possibile, d’altra parte, che l’istante precedente sia trapassato in un altro istante. In realtà, si deve ritenere impossibile che gli istanti siano continui tra loro, come è impossibile la continuità tra punto e punto. Se, poi, si ammette che un istante non sia trapassato in quello consecutivo ma in un altro, esso, allora, esisterebbe simultaneamente con gli istanti interposti, che sono infiniti: ma questo è impossibile. Ma neppure è possibile che esso permanga sempre medesimo: infatti, di nessuna cosa divisibile che sia finita, vi è un solo limite, tanto se essa sia continua rispetto a una sola cosa quanto se lo sia rispetto a più cose: ma l’istante è un limite, ed è possibile assumere un tempo finito. L’istante è quel limite che io impongo. Questo è il limite, il punto di demarcazione: quello che c’è di là è il passato, quello che c’è di qua è il futuro. Ora, l’istante, in quanto tale, è sempre lo stesso, ma non è mai lo stesso. La parola è sempre parola, ma non è mai la stessa. Vedete la coappartenenza: è e non è, simultaneamente. Inoltre, poiché la coesistenza temporale, ossia il non essere né prima né dopo, significa l’essere nel medesimo tempo e nell’istante, se si ammettesse la coincidenza di ciò che è prima e di ciò che è poi nello stesso istante, allora indubbiamente le cose avvenute diecimila anni fa sarebbero simultanee con quelle avvenute oggigiorno, e nessuna cosa sarebbe né prima né dopo in relazione ad un’altra. Che cosa, poi, sia il tempo e quale la sua natura non ci viene chiaramente indicato dalle soluzioni tramandateci da latri, specialmente se si tengono presenti quelle questioni delle quali poco fa siamo venuti a discorrere. Alcuni, infatti, sostengono che esso è il movimento dell’universo, altri che è la stessa sfera. Orbene, anche la parte del movimento circolare è un certo tempo, ma non lo stesso movimento circolare è tempo, giacché, in quel caso, ciò che è stato assunto è solo parte del movimento circolare e non già vero e proprio movimento circolare. 218b, 8. Ma poiché il tempo par che sia soprattutto un certo movimento e un certo cangiamento, bisognerebbe proprio su questo fermare l’attenzione. Intanto, però, il cangiamento e il movimento di ciascuna cosa sono soltanto nella cosa che cangia, o anche là dove venga a trovarsi la stessa cosa mossa e cangiante; il tempo, invece, è parimenti in ogni luogo e presso ogni cosa. Inoltre, ogni cangiamento è più veloce e più lento, mentre il tempo no: infatti, il veloce e il lento sono determinati dal tempo; e veloce è ciò che si muove molto in breve tempo, lento è ciò che si muove poco in molto tempo: il tempo, invece, non è determinato dal tempo né nella sua essenza quantitativa né in quella qualitativa. D’altra parte, però, l’esistenza del tempo non è neppure possibile senza quella del cangiamento; quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutar nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto: la stessa impressione proverebbero quegli uomini addormentati in Sardegna, secondo la leggenda, accanto agli eroi, qualora si destassero. 218b,28. Come, pertanto, se l’istante non fosse diverso, ma sempre uno e medesimo, non vi sarebbe tempo; così, anche, non pare che sia tempo quello che intercorre tra gli istanti, dal momento che ci sfugge il fatto che esso è sempre diverso. Ci sta dicendo che per cogliere il tempo è necessario il movimento, cioè, è necessaria la differenza: se non colgo la differenza, non colgo né il movimento né il tempo. Se, dunque, allorquando noi non notiamo alcun cangiamento, ci capita di credere che il tempo non esista, e che l’anima, da parte sua, permanga in uno solo e indivisibile stato, e quando, invece, percepiamo e distinguiamo, allora diciamo che il tempo compie il suo cammino, è chiaro, allora, che non c’è tempo senza movimento e cangiamento. Questa è la condizione perché ci sia il tempo. Vedete come anche qui Aristotele sta facendo un lavoro straordinario, perché non pone mai il tempo come un ente di natura, ma è sempre in rapporto con la ψυχή, che qui hanno tradotto giustamente con uomo. Certo, va bene come traduzione se con uomo intendiamo non soltanto ζῶον λόγον ἔχον, il vivente provvisto di linguaggio, ma, come Heidegger diceva in modo un po’ umoristico, come “colui che legge il giornale”. Se qualcuno legge il giornale, in questo è implicita tutta una serie di cose, e cioè che sia totalmente immerso nel mondo: è in questo modo che intende ψυχή. 219a. È quindi evidente che il tempo non è movimento, ma non è senza movimento; e, d’altra parte, poiché cerchiamo che cosa è il tempo, dobbiamo prendere inizio da qui per stabilire quale proprietà del movimento esso sia. Invero, noi percepiamo simultaneamente movimento e tempo, e se è buio e noi non subiamo alcuna affezione corporea, ma un certo movimento resta presente nell’anima, subito ci sembra che simultaneamente anche un certo tempo stia trascorrendo. E, al contrario, quando sembra che un certo tempo stia trascorrendo, sembra che simultaneamente si stia verificando un certo movimento. Sicché il tempo è o movimento o, almeno, una proprietà del movimento. Ma poiché movimento non è, esso è necessariamente una proprietà del movimento. Poiché il mosso si muove da un punto verso un altro punto, e ogni grandezza è continua, il movimento segue alla grandezza. Infatti, poiché la grandezza è continua, è continuo anche il movimento; e per il fatto che lo è il movimento, è continuo anche il tempo, giacché la quantità del tempo trascorso è proporzionata a quella del movimento. Anche il prima e il poi sono già anzitutto in un luogo. Ma essi son qui secondo la disposizione delle parti; e poiché nella grandezza ci sono il prima e il poi, è necessario che anche nel movimento ci siano il prima e il poi, e che siano in proporzione con il prima e il poi che sono nella grandezza. Ma anche nel tempo ci sono un prima e un poi, per il fatto che sempre il tempo segue al movimento. E nel movimento il prima e il poi si identificano pur talvolta con il movimento stesso; ma nella loro essenza autentica sono altro, e non già movimento. Insiste continuamente nel dire che movimento e tempo non sono la stessa cosa; infatti, si coappartengono, non li appiattisce sulla stessa cosa, ché in questo caso cancellerebbe immediatamente la possibilità della dialettica. 219a, 25. Quando, infatti, noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l’anima ci suggerisce che gli istanti sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c’è tra questi due istanti un tempo, giacché il tempo sembra essere ciò che è determinato dall’istante: e questo rimanga come fondamento. Lui non dice mai che l’istante sia qualcosa di naturale, ma l’istante si pone. E il tempo è una costruzione intorno a questo istante che io stabilisco. Pertanto, quando noi percepiamo l’istante come unità e non già come un prima e un poi nel movimento e neppure come quella identità che sia la fine del prima e il principio del poi, allora non ci sembra che alcun tempo abbia compiuto il suo corso, in quanto che non vi è neppure movimento. Questo nel caso in cui l’istante è uno, invece che un prima e un dopo nel movimento. Cioè, o questo istante mi serve per stabilire un prima e un dopo oppure è nulla. Quando, invece, percepiamo il prima e il poi, allora diciamo che il tempo c’è. Questo, in realtà, è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi. Il tempo, dunque, non è movimento, se non in quanto il movimento ha un numero. Eccone una prova: noi giudichiamo il più e il meno secondo un numero, e il movimento maggiore o minore secondo il tempo: dunque, il tempo è un numero. Ma poiché si dice “numero” in due modi (ché noi chiamiamo numero non solo il numerato e il numerabile, ma anche il mezzo per cui numeriamo), il tempo è il numerato, e non il mezzo per cui numeriamo. E sono cose diverse il per cui numeriamo e il numerato. E come il movimento è sempre diverso, così anche il tempo (ma il tempo, assunto nella sua totalità, è lo stesso, perché l’istante è lo stesso di quel che era una volta, benché la sua essenza sia diversa; e l’istante misura il tempo determinandolo in un “prima” e in un “poi”). Il movimento sempre differente, quindi, anche il tempo. Però, dice, il tempo nella sua simultaneità: prima e dopo sono simultanei. Parla di simultaneità e completezza. Sta introducendo una questione fondamentale nel suo pensiero. È per questo che ha insistito tanto nel distinguere il movimento dal tempo: il tempo e il movimento non sono la stessa cosa, ma sono simultanei. Soltanto nella simultaneità io posso parlare di prima e dopo. Di nuovo qui c’è un riferimento, che naturalmente non c’è in Aristotele, alla parola. La simultaneità, di cui lui parla, tra il tempo e il movimento: il tempo come determinato dall’istante, da un punto. Anche il movimento, per essere tale, ha bisogno di un punto di riferimento.

Intervento: Quindi, nel momento in cui pongo l’istante pongo simultaneamente il presente.

Esattamente. Come dire che sta descrivendo, in modo straordinariamente preciso, l’atto di parola.

Intervento: tra l’altro, sta indirettamente affermando che non esiste il presente.

No, sarebbe l’istante. Ma come determino l’istante? È impossibile, quindi, non c’è il presente.

Intervento: L’istante non può essere l’integrazione del prima e del poi?

La questione qui è complessa. Aristotele la affronta, anche se non l’articola proprio per bene, quando parla dell’essere e della sostanza, sostanza anche come presenza. Ciò che è presente è, sì, l’entelechia, che si pone non come un punto, come determinato. Teniamo sempre presente che entelechia è relazione. È una cosa interessante su cui occorre riflettere.