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3 marzo 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo Capitolo VI, La storia, paragrafo 3, La soggettività della storia. …l’idealismo invita gli uomini a rientrare in se stessi, a non preoccuparsi della propria apparente miseria e piccolezza, che c’è pure, ma non è tutto; a cercare in se stessi quel principio, da cui tutte le cose, piccole e grandi scaturiscono; e in quel principio vedere, scoprire, sorprendere in atto la divina energia, che è loro pensiero, sempre sperimentabile come attività creatrice di cose che paiono piccole ma si espandono e si ripercotono tutte in una sfera infinita. Passaggio dall’astratto al concreto. E quando si conquisti il senso di questo infinito che vive nel pensiero, può darsi che si accetti in pace anche questa verità inconfutabile, che la storia del mondo è la storia del mondo dello storico, cioè la storia dello storico. Paragrafo 4. Individualità della storia. Nell’atto del pensiero storico bisogna cercare la vera positività del sapere storico: /…/ che non è la positività del passato, la quale limita e coarta la mentalità dello storico, sì la positività del presente, che è dotata dell’imperatività della ragione: imperatività logica, sempre, e non di fatto. Il fatto invero non impone a nessuno: il fatto si nega, se non si giustifica, cioè se non si pensa nel sistema dell’autosintesi: in quanto si pensa e non si può non pensare, data la forza intima dell’autosillogismo. Pensiamo per sillogismi, inesorabilmente. Il fatto impone, e astringe la mente, quando si converte in atto, ed è l’atto stesso del pensiero; e così la positività apparente dei fatti inattuali, scrutata nella sua genesi logica, è la positività reale dell’atto spirituale. Il fatto inattuale deve diventare fatto in atto; quindi, non più fatto ma agire. Questa è la differenza sostanziale che pone Gentile: il fatto in quanto tale non c’è, c’è l’agire. Il pensiero storico è positivo in quanto è atto determinato di pensiero: non pensiero che si possa pensare, ma pensiero che si pensa: autoconcetto, nella sua attualità. Individuo è tutta la natura. Individuo questo pensiero che pensa la natura. Individuo tutto ciò che attualmente esiste. Aspro concetto, nella cui ricerca è tutta la storia del pensiero umano. Il quale può sì immediatamente afferrare l’esistente nella sua individualità; ma esso è mediazione, e quindi negazione di quella immediatezza, e però riduzione dell’esistente al possibile, del dato al concetto, del particolare all’universale. Il pensiero vuol pensare questo mondo; e per pensarlo lo trascende, e non pensa più questo mondo, che è il solo che esista, ma quel mondo in cui e per cui questo è intelligibile: e mentre perciò cerca l’esistente, trova l’ente:… Qui sembra di leggere Heidegger. Quando io cerco l’essere lo immagino come un qualche cosa; quindi, cerco l’essere e trovo l’ente, appunto il qualche cosa, il quid. …acqua, aria, fuoco, essere, atomo, idea, forma, uno: quello che si pensa, ma che non esiste, se per esistere s’intende quell’essere positivo che è proprio del particolare, anzi di questo particolare, che è unico, come la foglia che ne ha tante simillime, ma nessuna identica. L’individuo, eterno Proteo, sfugge sempre dalle mani, nell’atto stesso che crediamo di stringerlo finalmente in pugno. E pare che quanto più il pensiero si sforzi di coglierlo, tanto più esso s’involi, lasciando l’universale, che si pensa benissimo, ma non serve alla vita che col pensiero si vorrebbe pur vivere, noi individui in mezzo agl’individui, in questo individuo che è il mondo. Il mondo, cioè, non è altro che ciò che ciascuno crea pensando e nel tentativo continuo avvenuto da sempre di determinare il mondo, questo mondo si sposta in un altro dire, in un altro pensare, diventa un altro pensiero. In questo senso dice che s’invola sempre, perché ogni volta che lo penso lo penso di nuovo, nel senso che lo penso ex novo. Spezzate l’anello che unisce il vostro mondo a voi, e voi vedrete subito questo solido mondo reale, in cui sono tutte le nostre cose e le nostre persone care, a cui è congiunta la nostra vita, perché in esse si compie questa nostra vita, svanire nelle diafane ombre dei sogni. L’individuo, dunque, non lo cercate col pensiero; ma realizzatelo voi nel pensiero:… È importante ciò che sta dicendo. Non cercate qualche cosa ma realizzatelo nel pensiero, che è poi eventualmente in atto. …l’unico individuo che si pone a volta a volta come questo e quello e quell’altro individuo, che è pur sempre il soggetto nella sua attualità. L’unico individuo sono io che penso. Il Socrate storico con la sua positiva individualità allora sì è afferrabile; poiché allora si costruisce come personalità che rivive nella nostra, ed attualmente è la nostra. La storia dunque non è il mondo delle individualità, ma il mondo della individualità. Paragrafo 5. Universalità della storia. Da quando, al principio del secolo scorso, per merito della filosofia idealistica – dopo G. B. Vico rimasto voce presso che inascoltata nel tempo suo – si è cominciata a chiarire la natura storica del reale, si è preso insieme a distinguere con questa categoria della storicità lo spirito dalla natura, attribuendo al primo tale categoria e negandola alla seconda. La distinzione, per altro, com’è naturale, ha oscillato a seconda del rapporto o della differenza che si ritenne di affermare tra spirito e natura. Ma la concezione filosofica della realtà storica agiva con la sua universalità sul pensiero scientifico, inducendo a storicizzare anche la natura, finché una realtà si riconoscesse a quello che si dice natura. Occorreva, cioè, accorgersi che la natura non esiste di per sé, non è un dato di fatto. Il nostro Vico, che prima distinse la realtà umana, come storica, dalla realtà naturale, che pure ammise, lasciò infatti nella sua filosofia un jato, che cinge la sua concezione storica di un velo di mistero e di congiunto scetticismo. La storia per lui è l’operare dello spirito, che viene spiegando nel suo atto la propria natura: è fare dello spirito umano, e perciò fare di cui questo può rendersi conto e conseguire vera scienza, perché si sa quel che si fa; e gli uomini perciò questo mondo delle nazioni che essi fecero, possono conoscere, solo che ne ricerchino la genesi dentro le modificazioni della loro propria mente, da cui le modificazioni, onde risulta lo sviluppo di quel mondo, provennero. Questa mente umana intanto, se fosse diversa dalla Provvidenza che è la mente divina, si smarrirebbe dietro al miraggio dei motivi e dei fini particolari, da cui, a primo aspetto, sembra governata infatti la vita degli uomini. Il valore, la logica, la verità del processo delle umane idee importa che esso rinverghi col processo della Provvidenza; e che insomma il «senso comune», quello spirito universale onde gli uomini sono indotti, con una logica obbiettiva, a creare il loro mondo, è lo stesso Deus in nobis. Dio in noi: qui c’è Hegel. Importa cioè che non ci sia altro Dio da creare per l’intelligenza del mondo umano, oltre quello che in esso si manifesta operando come logica costante delle menti umane. Dio è nello spirito, è lo spirito stesso, non lo trascende. Questa la parte positiva della speculazione vichiana. La realtà naturale non è una realtà per sé stante e autonoma, come la spirituale:… Quando parla di realtà spirituale parla del pensiero in atto. …essa è posta dall’atto dello spirito come concetto che è membro vivo soltanto nell’organismo dell’autoconcetto. Sta dicendo che la realtà naturale esiste nell’autoconcetto, non c’è fuori. La storia abbraccia anche la natura, in quanto la natura è spirito come il concetto è autoconcetto: in quanto il meccanismo della natura, liberato alla sua astrattezza, si risolve nella libertà dello spirito, e la sua immediatezza nel dialettismo dell’autosintesi spirituale. Ma, fissato astrattamente il concetto, questo s’irrigidisce in un’immediatezza che ripugna al movimento storico. La storia non è dunque un dominio particolare della realtà, se la realtà si apprenda nella sua attualità. Prescindendo dalla quale anche lo spirito si naturalizza, si schematizza in concetti astratti e dà luogo a tutte quelle categorie pseudostoriche, le quali imperarono nelle concezioni della realtà umana finché non si cominciò a scoprire la sua intima ed essenziale storicità. Quella di cui sta parlando Gentile. Paragrafo 6. Le categorie pseudostoriche. Una storia istituzionale, senza individualità,… Cioè: senza me che la penso. …è minata infatti interiormente dalla tendenza a convertirsi in una sociologia, scienza mitica per eccellenza nel senso da noi attribuito al mito. Giacché la società, che è il suo oggetto, e che è certamente una realtà spirituale, è da essa postulata come una struttura assolutamente o relativamente statica, che comprende sotto di sé e in sé le energie spirituali degli individui, ma superandone la individualità e governandola deterministicamente, secondo leggi, in cui consiste la sua essenza, e che, come identiche in vari tempi e luoghi, sono perciò prive d’ogni positività. Questa è la sociologia. Paragrafo 7. Storia e poesia. La storia perciò, come conoscenza-attuazione dell’individuo, è filosofia, mentre ripugna così al concetto della metafisica come al concetto della scienza, in quanto entrambe si rivolgono a una realtà, il cui pensamento non va oltre il logo astratto, sia che con questo si presuma di cogliere l’esperienza, sia che si creda di doverla trascendere. Ma la storia non potrebbe essere filosofia, se non fosse poesia (arte, in generale). Perché la categoria è unità di momenti,… La categoria non è altro che il predicato. Potremmo affiancare questo concetto di categoria a quello di significato di de Saussure. …il primo dei quali, l’immediato,… È l’essere di Parmenide, che non è determinabile, non è niente, ma se non ci fosse non potrei negarlo. Così come l’essere: l’essere è nulla finché non viene determinato in quanto non non-essere. Ma se non ci fosse l’essere non ci sarebbe neanche il non-essere che lo determina. Sta qui il nucleo della questione. …che va negato, ma non si potrebbe negare se non ci fosse, è l’arte: quella posizione affatto soggettiva, in cui l’Io è ancora soltanto se stesso, e non è uscito da se stesso. Lo storico che per prima cosa creda di dovere, come l’entomologo che va a caccia delle sue farfalle, uscire di casa ed errare pei campi del tempo e dello spazio, di là del suo proprio Io, è uno storico che potrà acchiappare qualche farfalla o qualche moscone, ma non s’imbatterà mai nella divina vita di quell’eterna umanità, che risorge dai sepolcri e sopravvive eterna alla morte, al tempo e all’oblio. Infatti, è l’eterno, eterno in quanto non ha né passato né futuro perché attuale. Paragrafo 8. Storia e religione. O lo storico si ferma al primo passo (problema senza soluzione), e la realtà per lui è irrazionale, inintelligibile; o lo storico intende e procede, e costruisce di grado in grado nell’immanente atto del pensiero tutta la storia come l’educazione del genere umano: quell’educazione che è autoeducazione, formazione, creazione di sé: processo teogonico. Naturalmente, è un processo di creazione di un dio che è lui, il pensante stesso. Siamo al Capitolo VII, Emendatio intellectus. Emendare significa togliere tutto ciò che è falso, fallace, togliere l’eccedenza. Menda è la menzogna, da cui anche mendace. Quindi, l’emendatio intellectus è quel lavoro per cui l’intelletto si sbarazza di tutto ciò che è ingannevole.

Intervento: La chiacchiera…

Sì, anche se propriamente non si può uscire dalla chiacchiera. L’emendatio sta nell’accorgersi che si è nella chiacchiera e, quindi, non esserne più travolti, non vivere di chiacchiera ma accorgersi che c’è qualche altra cosa. Paragrafo 1. Ufficio pratico della logica del concreto. Uno dei caratteri della logica del concreto è la sua praticità: voglio dire la sua azione sulla logica in atto del pensiero, laddove la vecchia astratta logica dell’astratto, malgrado le incoerenti pretese che assunse fin dalle sue origini di canonica del pensiero filosofico, era essenzialmente teoretica. La logica dell’astratto suppone infatti un logo governato da una legge d’identità, la cui mediazione trascende il pensiero in atto, ed è immediato rispetto a questo. La logica, cioè, ha sempre pensato che l’identità sia un qualche cosa che non stabilisco io, ma che è nella cosa stessa, in quanto è quella che è, quindi, identica a sé. Questo è il principio di identità. Il logo quindi sta alla logica, come la natura alla scienza della natura, ed ogni parte della natura alla rispettiva scienza particolare. La quale non si pensa, né si può pensare dotata di una qualsiasi efficacia sull’oggetto, che la condiziona, e perciò la precede assolutamente. Tutta l’antica filosofia, come abbiamo visto nell’Introduzione e nella prima parte di questo Sistema, era orientata in questo senso intellettualistico. Questa è la prima emendatio intellectus. Il concetto pratico della scienza s’annunzia nel Nuovo Organo di Bacone e nel moto contemporaneo del sapere scientifico sperimentale e induttivo; il quale comincia a concepire la scienza come uno strumento della vita, appunto perché la logica della nuova scienza comincia a scrollare il presupposto intellettualistico della logica dell’astratto. E Bacone crede infatti di fornire all’uomo con la logica dell’induzione la chiave per aprire i segreti della natura, sorprendere le sue forze riposte, impossessarsene, per quindi dominarle e instaurare il preconizzato regnum hominis. Tale la fede di tutto il mondo moderno. Ma questo regno impiantato nel territorio della Natura, che solo parendo vincitur, è un regno da servitore, in cui il pensiero non domina davvero, perché non crea;… Sta dicendo che tutto quello che oggi succede, anche rispetto alla cosiddetta tecno-scienza, in realtà, è un lavoro da servo, perché non crea, ma semplicemente si sottomette a qualcosa che immagina essere il dato. È, quindi, una continua sottomissione. Questo è interessante rispetto alla questione della tecnica, perché questa vorrebbe effettivamente porsi come il regnum hominis, regno dell’uomo dove io regno su tutto. Ma no, dice Gentile, badate che non è proprio così, perché se immagino che esistano le cose, i dati di fatto, non posso che sottomettermi, essere servo dei dati di fatto. …e non crea, perché è limitato da un limite che non esso si pone. Il limite è il dato, un limite che subisce, che patisce. E questo limite, in cui persiste l’intellettualismo antico, fa sì che la logica dell’induzione continui a moversi nella stessa sfera del logo astratto scambiato pel concreto; e che abbia perciò, rispetto al logo vagheggiato come ideale e norma del pensiero, una funzione prettamente teoretica. L’ideale è sempre quello del sapiente che vede e contempla dall’alto il dramma del mondo: esso vedrà ora bensì a quello stesso dramma partecipare l’uomo, che col suo pensiero s’è conformato e assimilato a quelle medesime forze che agiscono nel mondo pre-umano, e quindi s’è fatto, egli stesso, oggetto di contemplazione, stretto e costretto dentro l’universale meccanismo della natura, di cui il sapiente resta pur sempre spettatore. Anche il sapiente, nell’accezione di sapienza antica, rimane spettatore e, quindi, subisce lo spettacolo, non lo agisce. È questo che Gentile insiste a dire: di non volere essere spettatori del mondo, ma attori, cioè, agire. E io agisco nel momento in cui mi rendo conto che tutto ciò che si produce lo sto producendo pensandolo. Con la dialettica hegeliana, che è la logica del pensiero vero signore del mondo, perché suo creatore, aumenta la pretesa pratica della logica. La quale, contrapponendo al principio d’identità di tutta la logica anteriore quello dell’unità degli opposti, sferza infatti il pensiero a rifarsi una nuova vita, in cui nulla si presupponga, in cui tutto che apparisce naturale e avente perciò una certa natura, dev’essere pensato come processo della stessa idea logica, quale si svela nella coscienza dell’uomo, forza infaticabile e realtà inquieta, che si realizza incessantemente. Qui Gentile dà assolutamente ragione a Hegel. La logica del concreto. L’emendatio intellectus è questo: passare dalla logica dell’astratto alla logica del concreto. Non che scompaia la logica dell’astratto, ovviamente, ma viene integrata nella logica del concreto. La logica del concreto, negando ogni condizione del pensiero attuale, e identificando il logo con lo stesso atto del pensiero, portando la verità nel ritmo flagrante di questo atto, mette la prima volta questo atto, dallo stesso punto di vista logico, in una condizione identica a quella dello spirito che è in procinto di agire: restituendogli intera quella libertà che, distinguendo intellettualisticamente sapere e agire,… È una distinzione intellettualistica, che è astratta e non concreta: sapere e agire sono lo stesso per Gentile. …la filosofia precedente gli aveva sottratto rispetto al sapere. Egli nell’atto del pensare non è più uno specchio della verità, un intelletto determinato dalle cose o dalle idee, o dai rapporti tra le cose o tra le idee: è un principio d’azione creatrice, volontà pensante. Pensando, egli creerà il mondo: quel mondo, che solo è per lui: non di fronte a lui, ma in lui, anzi è lui stesso. Questa è un’altra bella figura di Gentile: il mondo non ce l’ho di fronte, ce l’ho in me, anzi, sono io stesso. La verità, il mondo, non ce l’ho di fronte a me. Questo già in Hegel, naturalmente. Ma data questa praticità del pensare, la logica di questo pensare non è la teoria di questo pratico pensare. Non può essere – perché sarebbe contradditorio – e non è. Perché la nostra logica non si oppone al pensiero, se non in quanto il pensiero si oppone a se stesso,… Questa è l’unica opposizione che Gentile accoglie: l’opposizione tra Io e non-Io. …ponendo se stesso come diverso da sé di contro a se stesso come identico a sé. Questa è l’unica opposizione che esiste, dice Gentile. Pone anche una legge pratica del pensare. Paragrafo 2. La legge pratica del pensare. Questa legge consiste nell’imperatività della ragione come atto del pensare. La ragione è l’atto del pensare ed è imperativa, cioè, non c’è modo di uscire dall’atto del pensare. Il quale, si badi, non è fatto. Lo abbiamo più volte avvertito; ma converrà sempre insistervi, poiché troppi giudicano senza leggere tutto e tutto attentamente, e su questo punto facilmente scivolano, scambiando la nozione dell’atto con quella del fatto. E allora non riescono più a rendersi ragione del carattere imperativo che compete al pensiero come atto,… Imperativo perché è ciò che costringe, è ciò che sta accadendo adesso. …e non potrebbe invece competergli se fosse un fatto. La differenza è tutta qui: che l’atto è flagrante, il fatto è compiuto: presente l’uno, passato l’altro. L’uno perciò è spirito, l’altro è natura. L’atto quindi ha valore, e il fatto non può averne. Paragrafo 3. L’amore della verità Pensare è la più ardua delle opere umane, quella che richiede dall’uomo maggior sacrifizio, perché il pensiero è per l’appunto sacrifizio di sé. Pensare è autoconcetto, la cui legge fondamentale, come s’è visto, è la posizione dell’Io come non-Io, quindi la negazione dell’Io. Ecco che cosa si sacrifica: si sacrifica l’Io per che diventa non-Io, che è Io, naturalmente. Negazione che non può intendersi come teoretica, qui nell’autoconcetto, se non s’intende come pratica e realizzatrice. Chi dice Io e ha cognizione di sé, non presuppone a sé questa realtà a cui la sua cognizione si riferisce, ma la mette in essere. Soltanto lo sciocco può contemplare se stesso, e pavoneggiarsi del suo sapere o del suo volere, come persona dotta e bennata e di merito per tutto quello che è stato capace di fare, andando attorno col petto fregiato di croci e medaglie. Quello che noi siamo possiamo vederlo soltanto non presupponendo il nostro essere, mai. Anche questo è importante, sempre nel tema dell’emendatio intellectus: non presupporre mai il proprio essere stati, qualunque cosa sia: bravi, cattivi, intelligenti, stupidi. Non c’è niente di tutto questo, tutte queste pre-supposizioni presuppongono qualcosa che gentilianamente non è mai esistito, esiste adesso che lo penso e nel modo in cui adesso lo penso. E qui c’è anche una obiezione, anche se sfumata, al famoso detto di Nietzsche: “ciò che fu, io volli che fosse”. Infatti, ciò che fu non è mai accaduto. Potremmo allora tradurre il detto nietzschiano in questo modo: ciò che fu io voglio che sia, adesso, perché lo sto pensando adesso. Quindi, non “volli che fosse”, perché non so che cosa fosse allora, che cosa sia accaduto allora, ma so cosa sto penando adesso. Paragrafo 4. La certezza della verità. Amare la verità più di se stessi. Ma quale verità? C’è chi si fa obbligo di amare l’umanità, e bastona a sangue i propri figli, perché, con i fastidi che gli procurano, gl’impediscono di attendere alla sua missione filantropica. E la selva non gli lascia vedere gli alberi! La solita astrattezza, che toglie all’uomo la coscienza del concreto, in cui è la sua vita. La verità, nel cui amore l’uomo pensa, e nega la propria immediata soggettività, non è la verità del logo astratto, in sé determinata ed esistente per sé. Quella verità non si conosce, né si può conoscere; né perciò si può amare. Quella del pensiero astratto, intellettualistico. La verità di cui parliamo qui, è la verità che si pone nel pensiero, pensando il quale il soggetto esce dalla sua originaria immediatezza: quel non-Io in cui come non-Io del nostro Io, questo Io si attua. Questa simultaneità tra Io e non-Io è imprescindibile in Gentile. Abbiamo detto che bisogna perder se stessi per ritrovarsi;… L’Io che si perde nel non-Io e si ritrova in quanto Io, ma fatto di non-Io. …e quello appunto che il pensiero trova, e in cui si ritrova, quello è la verità, per amor della quale egli deve, pensando, negare se stesso. Questo è interessante da riflettere: pensando, quindi, parlando, io nego me stesso. Ecco perché il pensiero tante volte costituisce un problema, perché pensando io mi nego, mi trovo travolto dal funzionamento del linguaggio per cui pensando metto in atto quello spostamento continuo e ininterrotto per cui si apre quella differenza insanabile tra il dire e il detto, tra il mio dire e ciò che il mio dire, dice. Ma verità che noi dobbiamo farci, la nostra verità, la nostra vita, sangue del nostro sangue, atto del nostro stesso essere, in cui solo è gusto e gioia. Il non-Io non è termine aggiunto donde che sia all’Io nel dialettismo del pensiero: il non-Io è lo stesso Io, che s’è differenziato con la sua autosintesi. È il movimento di cui parlavo un attimo fa: il mio dire dice qualche cosa che non è il mio dire, si apre una frattura. L’autosintesi è questa: il ciò che dico ritorna sul mio dire facendo del mio dire il mio dire. Tale Io, tale non-Io, in un rapporto inscindibile, generato dall’unità che si è dualizzata. La verità che dobbiamo amare, se vogliamo pensare, è quella verità che dev’essere generata dal seno del nostro stesso pensiero. La verità altrui non è verità nostra, e per noi perciò non è verità; e se l’assumiamo per tale pecchiamo d’insincerità, e mentiamo a noi stessi, cominciando così a violare la legge che c’inculca l’amore del vero. E pecchiamo per lo stesso motivo d’ogni altro peccato, per egoismo e insano amore della nostra soggettività immediata;… Volontà di potenza, avrebbe detto Nietzsche. …poiché accettare come verità quella che non è la verità nostra, da noi costruita, e quindi viva della nostra stessa vita, si può soltanto per non voler pensare: per quella facile contentatura e superficialità di pensiero, che è mancanza di critica, e cioè di pensiero. La verità veramente pensata è verità nostra, e perciò concreta. La verità è questa: l’autosintesi che c’è nel mio pensare. La verità è che pensando l’Io e il non-Io si integrano; si sdoppiano, e si integrano. È questa l’unica verità di cui si può parlare. Paragrafo 7. «In te ipsum redi». (ritorna a te stesso). Verità e felicità, ogni bene, o meglio il bene, è nello stesso atto spirituale, non come mondo a cui l’anima si rivolga desiderosa di penetrarvi e comunque fruirne, ma come l’anima stessa che nella sua attualità è il mondo. Non c’è mai quella cosa esterna a me. Qui c’è anche Heidegger: io sono il mondo; tutte queste cose che desidero, che mi muovono, ecc., non sono altro che io stesso in quanto progettato verso queste cose, quindi, gettato verso queste cose. E questo vuol essere un altro capitale memento della logica del concreto, che qui rinnova con maggiore energia un mònito che suona già attraverso i secoli richiamando l’uomo a se stesso,… Conosci te stesso di Socrate. …incuorandolo a tornare dall’esterno in cui egli ordinariamente è smarrito, immemore di sé e distratto, all’interno dove abita la verità. Ma noi, in effetti, sappiamo perché. Come dice Gentile, l’uomo è continuamente smarrito, immemore di sé, distratto. Cosa lo distrae continuamente dal proprio pensiero? La volontà di potenza. Basta pensare a come ciascuno è continuamente, irresistibilmente e sfrenatamente portato a dire quello che crede. Non c’è verso che non lo faccia, lo farà sempre. Dire ciò che crede chiaramente lo pone nella condizione di non ascoltare ciò che altri dicono o scrivono, per la fretta di potere dire ciò in cui crede, quindi, per affermare una superstizione, per affermare la propria verità. Questo accade sempre; quando si espongono delle questioni sembra quasi impossibile per chi ascolta non precipitarsi a dire ciò in cui lui crede, per dire che non è così, per dire che c’è qualche cos’altro. Ma ascoltare, quindi, attendere di avere inteso… sarebbe, seguendo Gentile, come il precipitarsi a porre delle obiezioni a un testo senza essere arrivati all’ultima pagina, lì dove magari risponde a tutte le domande. È una questione questa che va sempre tenuta in conto, anche perché è costante questa irrefrenabile necessità di dire ciò che si crede, come se il guadagno che può offrire nell’immediato un piccolo superpotenziamento sia considerato superiore a qualunque altra considerazione. Questo piccolo superpotenziamento, che credo di ottenere nell’immediato, è irrinunciabile, non posso farne a meno. Questo rende conto del fatto che gli umani appaiono sempre così precipitosi nel dire, nel pensare, nel dire ciò che credono. L’Io, come noi l’intendiamo e come si deve intendere, è il Tutto, che si attua nell’autocoscienza, e spoltrisce in eterno la sua morta inerzia nell’attualità del pensiero:… Sveglia il pensiero dalla sua inerzia. …questo dramma divino, in cui nulla è pensabile che non vi partecipi con la totalità del suo essere. Bisogna riflettere su questa cosa: nulla è pensabile che non vi partecipi con la totalità del suo essere. Ogni volta che penso qualcosa c’è il tutto, perché c’è il linguaggio. Non posso pensare qualcosa fuori dal linguaggio: è un altro modo per dire la stessa cosa. E questa è la vera emendazione dell’intelletto, a cui mirava Spinoza, che sempre concepì la sua filosofia come un’etica, ma non poté attuarla, invasato com’era dalla sua idea naturalistica del divino; la riforma del pensiero che, sdegnando ogni neghittosa contemplazione astratta, pensi, e pensi se stesso. Questa è la riforma del pensiero a cui pensa Gentile. La contemplazione astratta deve essere eliminata, il pensiero deve pensare se stesso. La contemplazione, come diceva nelle pagine precedenti, è sempre e necessariamente una contemplazione di qualcosa che è fuori di me; quindi, si muove dalla presupposizione che esista qualcosa fuori di me, fuori del mio pensiero, e cioè che esista la natura. E, quindi, a questo punto si è nell’impossibilità di pensare il pensiero perché si è immediatamente proiettati sulla natura, che mi interroga da fuori; io sono chiamato a rispondere a questa interrogazione. Ma in questo modo, lo diceva prima, io mi trovo sempre nella posizione del servo, servo del dato, che in questo caso è la natura; il dato che è quello che è, al quale devo sottomettermi. È come se qui Gentile avesse fatto un passo ulteriore, dicendo le cose che dice rispetto alla tecnica, perché la tecnica rimane nella contemplazione del dato, al quale dato si sottomette. Per Gentile tutto questo non accade perché il pensiero che pensa se stesso non si pone limiti, può porseli ma se li pone da sé. L’unico limite al pensiero, anche se propriamente non è un limite, è l’Io che si contrappone al non-Io; ma sappiamo già da Hegel che non è un limite, ma è la condizione perché l’Io possa porsi; così come il non essere non è il limite dell’essere, ma è la condizione perché l’essere sia. Questo è interessante perché aggiunge un elemento su cui riflettere quando si riflette intorno alla questione della tecnica. Non direi della téchne, perché sembra alludere al modo di pensare la téchne dei Greci; no, qui parliamo della tecnologia, della tecno-scienza, quella idea di diventare padroni del mondo. Capite la distanza tra questa posizione e quella di Gentile: diventare signori del mondo vuole dire che c’è un mondo, del quale non sono signore ma che per il momento è lui il signore nei miei confronti e del quale io sono servo; finché continuo a pormi in questa posizione rimarrò sempre servo. Posizione che Gentile sembra superare in modo radicale, in modo ancora più radicale che in Hegel, perché la pone nell’atto. Su questo non ha tutti i torti a pensare che Hegel abbia ancora un occhio verso l’astratto, mentre lui mette entrambi gli occhi sul concreto. Non c’è più la separazione, perché nell’atto questa sintesi è già da sempre compiuta. Ecco il passo straordinario che fa Gentile: la sintesi è già da sempre compiuta perché in ciascun atto, inesorabilmente e incessantemente. I problemi sorgono quando li voglio tenere separati; allora sì, sorgono problemi di proporzioni bibliche. Questa emendatio intellectus, che fa Gentile, è in un certo senso un invito; lo fa dopo avere smantellato ogni possibilità di credere che le cose siano per se stesse, ché se così fosse non sarebbero coglibili, non potrei saperne niente e sarebbero riconducibili all’essere di Parmenide, che è lì eterno, immutabile, ma anche inintelligibile. In effetti, è anche una soluzione o, per meglio dire, una integrazione del problema posto da Parmenide. L’essere parmenideo è quell’essere immediato e naturalmente Parmenide aveva le sue ragioni per porlo così, perché sennò non è essere, non è Uno: se già lo metto in relazione con qualcosa, non è più il tutto. Il passaggio, che poi compirà Hegel, è che questo tutto non è l’essere ma è la relazione; è proprio la relazione tra l’essere e il non essere che è il tutto; altrimenti, l’essere non lo determino e, quindi, l’essere è nulla. Problema che aveva cercato di risolvere Platone, ma tenendo separati l’essere e il non essere: il non essere come l’immanente, nel caso di Platone il finto, il fittizio, mentre l’essere vero sono le idee, che stanno da qualche altra parte, quindi, ben separate, in una distanza infinita. Arrivando alle ultime pagine di questo testo, mi trovo ad apprezzarlo molto, perché Gentile ha in un certo senso risolto con una grande semplicità un problema antico che riguarda tutto il pensiero. Chiaramente, non poteva esserci Gentile senza Hegel, che ha fornito la base teorica. La semplicità sta nel dire che questa integrazione è in atto, parlando. Ogni volta che parlo, che penso, è in atto questa integrazione tra l’in sé e il per sé, tra l’immanente e il trascendente, tra l’Io e il non-Io. È questo che lui chiama autoconcetto: il concetto che sa di essere concetto. Lo sa perché non può non tenere conto del non-Io, non può non tenere conto, anche se lui non lo pone in termini precisi rispetto al funzionamento del linguaggio, che ciascun atto di parola dicendosi si divide fra il mio dire e ciò che il mio dire dicendo, dice. Questo è lo squarcio che si apre, che però consente agli umani di esistere. Senza questo squarcio gli umani non sarebbero mai esistiti, sarebbero come il bruco per il quale questa distanza, questa differenza, non c’è. È questa differenza, questa distanza, questo iato, ciò che torna sempre allo stesso posto. Intendere così l’eterno ritorno è forse il miglior modo possibile di intenderlo: questo squarcio ritorna continuamente, eternamente, ritorna nell’eterno, perché è sempre qui, adesso.