INDIETRO

 

 

3 gennaio 2024

 

Aristotele Topici

 

Siamo a pag. 1195. A grandi linee possiamo dire che sembrerebbe che l’identico si divida in tre parti. Infatti, siamo soliti dire l’identico secondo il numero o secondo la specie o secondo il genere. Sono “identiche per numero” quelle realtà che hanno più nomi, ma che ne indicano una sola: ad esempio, l’abito e il vestito. “Identiche per specie” sono invece quelle realtà che, pur essendo molte, non hanno alcuna differenza rispetto alla specie, come ad esempio un essere umano è identico ad un essere umano… /…/ …allo stesso modo sono “identiche per genere” tutte quelle realtà che rientrano in un unico genere, come ad esempio un cavallo rispetto a un essere umano. Sono entrambi genere animale. Ora, qui sta incominciando a porre una cosa che a noi interessa, e cioè quella che lui chiama omonimia, il dirsi di qualche cosa in molti modi. A pag. 1195. Dunque, come si è detto, l’identico deve essere considerato in tre sensi distinti. Che, poi, quello che abbiamo detto derivi dalle realtà di cui abbiamo parlato prima e che si riferisce a queste, può essere provato per mezzo dell’induzione… Quindi, l’induzione come mezzo di prova. Era lui stesso, Aristotele, a dire che l’induzione muove da una definizione che è arbitraria. …se infatti si esaminerà ciascuna delle premesse e ciascuno dei problemi, risulterà chiaro che essi derivano o dalla definizione o dalla caratteristica peculiare o dal genere o dall’accidente. Un’altra prova a sostegno di ciò che abbiamo detto è costituita dal sillogismo. Infatti, è necessario che tutto ciò che si attribuisce a qualcosa instauri o meno un rapporto di convertibilità con quella stessa realtà. E, se instaura un rapporto di convertibilità con quella realtà, sarà o la definizione o caratteristica peculiare di quella realtà… La convertibilità è una banalità. Tutti gli animali sono viventi, tutti i viventi sono animali: questa è la convertibilità. …se, al contrario, non appartiene all’ambito di ciò che viene espresso nella definizione, è evidente che sarà accidente; infatti, si diceva che l’accidente è ciò che non costituisce né la definizione, né la caratteristica peculiare, né il genere, ma che, tuttavia, appartiene a una determinata realtà. Però, l’accidente non è utilizzabile, soltanto l’universale è utilizzabile. A pag. 1197. Detto ciò, dobbiamo definire i generi delle categorie, nelle quali si trovano i quattro elementi di cui abbiamo già parlato. Queste, poi, sono dieci di numero: sostanza, quantità, qualità, relazione, dove, quando, giacere, avere, agire, patire. Infatti, l’accidente, il genere, la caratteristica peculiare e la definizione saranno sempre compresi all’interno di una di queste categorie; in effetti, è chiaro che chi indica “il che cos’è” di qualcosa, indica talvolta la sostanza, talvolta la quantità, talvolta la qualità, talvolta una delle altre categorie. Riporta, in fondo, quello che già diceva nelle Categorie, e cioè che tutte queste cose di cui sta parlando sono cose che si dicono. Difatti, quando qualcuno, prendendo come esempio l’essere umano, dice che ciò che ha davanti è un “essere umano” o un “animale”, esprime il che cos’è e indica la sostanza… Naturalmente, questa sostanza, l’essere umano, deve poi essere definita, determinata da altre categorie. A pag. 1199. Le premesse dialettiche. Intanto, distingue tra premessa dialettica e problema dialettico. …non bisogna considerare “dialettica” ogni premessa né dialettico ogni problema; nessun individuo dotato di senno, infatti, potrebbe proporre come ciò che nessuno crede… E, invece, è capitato, anche più di una volta, e non erano privi di senno costoro. …diciamo premessa dialettica una domanda fondata su un’opinione condivisa da tutti, o dalla maggior parte delle persone o dai sapienti e, di questi, o da tutti o dalla maggior parte o da quelli più noti, e che non sia paradossale; infatti, si può accettare ciò che ritengono i sapienti, solo nel caso in cui ciò non sia contrario alle opinioni dei molti. Questa premessa sembra essere qualcosa accettata dai più, ma potrebbe anche non esserlo, potrebbe essere accettata dai più sapienti… Inoltre, sono “premesse dialettiche” anche quelle simili a quelle fondate sull’opinione condivisa, come pure quelle che contraddicono le contrarie a quelle che sembrano fondate sulle opinioni condivise, e anche le opinioni in accordo con le scoperte delle tecniche. Se, infatti, è opinione condivisa il fatto che la scienza dei contrari è la stessa, anche il fatto che la sensazione dei contrari è la stessa risulterà essere un’opinione condivisa, e se la grammatica è una sola di numero, anche l’arte flautistica sarà una sola di numero, e se le grammatiche sono più d’una, saranno più di una anche le arti flautistiche… Sta insomma dicendo come utilizzare le opinioni. E anche le affermazioni che contraddicono le proposizioni contrarie a quelle fondate sull’opinione condivisa appariranno opinioni condivise; se, infatti, è opinione condivisa il fatto che “bisogna fare del bene agli amici”, sarà condivisa anche l’opinione che “non bisogna far loro del male”… Queste tecniche di cui sta parlando sono, in effetti, le tecniche retoriche più comuni, più diffuse, per cui se è vera una certa cosa la contraria sarà necessariamente falsa. Ma è proprio così? Sì e no. Adesso incomincia a parlare di una questione importante, e cioè di quella che prima indicavo come omonimia, cioè, i molti modi per dire una cosa. Questo pone un problema perché questi modi possono essere talmente tanti che, alla fine, ciò che affermo è il contrario di ciò da cui sono partito. A pag. 1201. I problemi dialettici. Un problema dialettico, poi, consiste in quel tipo di indagine che ha per scopo o la scelta e il rifiuto, oppure la verità e la conoscenza, indagine che viene condotta o per se stessa o a supporto di altre indagini, e rispetto a cui o non si ha nessuna opinione né in un senso né nell’altro, o si hanno opinioni contrarie, i molti rispetto ai sapienti o i sapienti rispetto ai molti o gli uni e gli altri rispetto a se stessi. Alcuni dei problemi, infatti, è utile conoscerli per scegliere e per evitare qualcosa, come per esempio se il piacere deve essere scelto oppure no, altri hanno per scopo semplicemente la conoscenza, come per esempio se il mondo è eterno oppure no, mentre altri ancora, presi per se stessi, non sono utili a nulla, ma servono a risolvere qualcuno dei problemi simili a questi… Infatti, ci sono cose che vogliamo conoscere in funzione di altro. Ci sono poi, problemi su quelle realtà su cui si danno sillogismi contrari (l’aporia, infatti, deriva dal fatto di non riuscire a capire se le cose stanno in un modo oppure in un altro, dal momento che i discorsi che procedono in entrambe le direzioni sono tutti e due convincenti), e su questioni su cui non abbiamo nessun argomento, dal momento che si tratta di questioni estremamente vaste e di cui è difficile individuare la causa, come ad esempio se il mondo sia eterno oppure no. A pag. 1207. Dunque, stabilite queste cose, bisogna distinguere quante sono le specie dei ragionamenti dialettici. Una è l’induzione, mentre l’altra è il sillogismo. Che cosa sia il sillogismo lo abbiamo già detto precedentemente. Per quanto riguarda, invece, l’induzione si deve dire che essa consiste nel passaggio dal particolare all’universale. Certo, ha parlato del sillogismo, ma proprio parlando del sillogismo ha parlato dell’induzione. Il sillogismo muove da una definizione, ma come otteniamo la definizione? Per induzione. Quindi, nel sillogismo è necessariamente presente l’induzione, così come nella deduzione è presente l’induzione, perché da qualcosa deve partire. Lui stesso ha insistito parecchio su questo punto: occorre partire da una definizione; questa definizione costituirà il principio primo, che non può essere dimostrato, ché sennò sarebbe principio secondo, quanto meno. Quindi, Aristotele stesso qui cerca di ingannarci distinguendo fra il sillogismo e l’induzione, senza porre l’accento su ciò che lui stesso ha detto, e cioè che per il sillogismo è necessaria l’induzione, perché partiamo da una definizione e la definizione la traiamo induttivamente. Per esempio: se il nocchiero più abile è colui che sa, e lo stesso vale per il cocchiere, allora, in generale, colui che sa è il migliore in ogni campo. L’induzione, d’altra parte, è più persuasiva e più evidente rispetto alla sensazione, ed è più alla portata della maggior parte delle persone, mentre il sillogismo è più potente e più efficace contro gli avversari. La logica serve a questo: a combattere contro gli avversari. Ci ha detto che la logica è quella costruzione che serve a “dimostrare” che l’opinione condivisa dai più è quella vera: questo è il fondamento della logica, non ce ne sono altri. Dobbiamo, dunque, stabilire, come abbiamo già detto, quali sono i generi su cui vertono i discorsi e ciò da cui essi hanno origine. Quanto, invece, agli strumenti attraverso i quali è possibile procurarsi dei sillogismi, essi sono quattro: 1) in primo luogo c’è l’acquisizione delle premesse; 2) in secondo luogo c’è la capacità di distinguere in quanto modi si dice ciascuna cosa; 3) in terzo luogo c’è la capacità di scoprire le differenze; 4) in quarto luogo c’è l’esame di ciò che è simile. Proviamo a considerare. Dunque, l’acquisizione delle premesse, come sappiamo, è il luogo comune, le opinioni diffuse, ciò che i più pensano, la chiacchiera. C’è, poi, la capacità di distinguere in quanto modi si dice ciascuna cosa: certo, ma in quanti modi può dirsi una cosa? Qui la questione si fa complessa. Intanto, vedete come cerca di ridurre i molti all’uno: è sempre questo il suo obiettivo, non ci riesce mai, però ci prova tutte le volte. Anche in questo caso: in quanti modi possiamo dire una cosa, cioè, quanti sono i molti da cui possiamo ridurli all’uno? Quanti sono, chi riesce a fare un computo? È il problema dei molti perché, nel tentativo che fa continuamente di ridurli all’uno, si trova questi molti dappertutto e non riesce a ridurli. Poi, c’è la capacità di scoprire le differenze. Anche questo è abbastanza vago, anche perché per scoprire le differenze occorre avere determinato le identità; solo a questo punto posso stabilire una differenza. Ma, se posso dire la cosa in infiniti modi, questa identità non la troverò mai e, quindi, non troverò neppure le differenze o ne troverò infinite, che è poi la stessa cosa. Da ultimo, c’è l’esame di ciò che è simile, che è l’analogia, sempre presente. In qualche modo, poi, sono premesse anche di questi tre strumenti; infatti, è possibile formare una premessa per ciascuno di essi, come per esempio dicendo che “deve essere scelto ciò che è moralmente bello o ciò che è piacevole o ciò che è utile” e che “la sensazione differisce dalla scienza per il fatto che questa la si può recuperare dopo che la si è perduta, mentre l’altra no, e che “il salutare sta alla salute come ciò che è vigoroso sta al vigore”. E, nel primo caso, la premessa deriva dal fatto di considerare ciò che si dice in molti modi, nel secondo deriva dalle differenze e nel terzo dalle somiglianze. Sono tutti strumenti, come direbbe lui, per ricondurre all’uno; perché che succede se non si riconduce all’uno? Succede che non è utilizzabile, non si può utilizzare in nessun modo, perché i molti non li posso utilizzare. Certo, li utilizzo per costruire l’uno, ma solo l’uno sarà utilizzabile, i molti li raggruppo e faccio finta che diventino uno, ma non lo sono mai, cioè, lo sono ma simultaneamente ai molti: ἒν πάντα εἰναι. In Eraclito c’era già tutto quanto. I manuali di filosofia si sarebbero potuti ridurre a queste tre parole, ν πάντα εἰναι, non c’è altro da aggiungere, quello che c’era da dire è stato detto. A pag. 1209. Dunque, bisogna scegliere le premesse secondo le distinzioni che abbiamo fatto parlando della premessa, e presentare o le opinioni di tutti, o quelle della maggior parte delle persone, o quelle dei sapienti… /…/ E bisogna anche proporre quelle che contraddicono le contrarie a quelle che sembrano fondate sulle opinioni condivise, come si è detto anche precedentemente. Inoltre, bisogna assumere come principio e come tesi corrispondente al comune modo di pensare, tutto ciò che risulta evidente in tutti i casi o nella maggioranza di essi; infatti, si pone come premessa ciò che gli avversari non riescono a cogliere con uno sguardo d’insieme come elemento che possa costituire un’eccezione alla regola. Inoltre, bisogna anche scegliere le premesse raccolte nei discorsi scritti e stilare delle liste per ciascun genere, collocate separatamente, come per esempio “sul bene” o “sull’animale”… Trovare quelle cose che gli altri non riescono a cogliere immediatamente. Se non riescono a coglierle immediatamente, le accoglieranno. A pag. 1211. Dunque, quando si fa filosofia bisogna trattare delle varie questioni ponendosi dal punto di vista della verità, mentre, nella dialettica, è sufficiente porsi dal punto di vista dell’opinione. Anche in questo caso Aristotele cerca di raggirarci, ma noi non ci lasciamo raggirare. Dice che la filosofia cerca la verità, mentre la dialettica cerca il consenso. Domanda: che differenza c’è esattamente? A che scopo cerco la verità se non per ottenere il consenso? È come se tentasse inutilmente di tenere separati il sillogismo scientifico da quello dialettico. Lo rilevavamo forse la volta scorsa: non è possibile, sono due momenti dello stesso, non c’è sillogismo scientifico che non sia dialettico e viceversa. Necessariamente, perché il sillogismo scientifico, dimostrativo, muove dall’induzione, che è costruita sull’opinione, quindi, su sillogismi dialettici. E, invece, lui insiste su questa cosa, cercando di tenere separate le due cose. Il problema che incontra qui è complicato perché, in fondo, tutto l’Organon è il tentativo di Aristotele di superare un altro problema ben più grave: quello dell’uno e dei molti. Il sillogismo scientifico, dimostrativo, dovrebbe costituire l’uno; quello dialettico, i molti. Nel senso che il sillogismo dimostrativo dovrebbe dimostrare che si arriva all’uno, alla verità – la verità è questa: se A allora B, se B allora C, se A allora C –; quindi, ha tolto i molti, unificando il tutto, come un monoblocco. Il sillogismo dialettico, invece, si avvale dei molti, cioè, delle molte opinioni, cercando comunque anche in questo caso di trarre dalle molte opinioni quella più accreditata.

Intervento: La verità deve essere una…

Altrimenti è una doxa e, pertanto, non utilizzabile. E la verità è utilizzabile contro qualcuno, sennò che me ne faccio della verità?

Intervento: Più che della verità c’è necessità dell’uno…

Sì. Infatti, è per questo motivo che prima dicevo che è un tentativo di ridurre i molti all’uno, di contenere i molti. Dove gli ritornano i molti? Qui, nel dirsi di una qualunque cosa in molti modi. Il che è un problema perché, se può dirsi in molti modi, come la riduco all’uno, come la rendo utilizzabile? Posso renderla utilizzabile e utilizzarla solo se riesco a farla diventare uno, ma se rimane molti, allora no, allora è πειρον.

Intervento: Se poi aggiungiamo che i molti procedono dall’uno, abbiamo creato il mostro.

Che i molti procedano dall’uno, questo è Plotino. Allora sì, certo, l’uno a questo punto controlla, gestisce i molti, è il padrone dei molti. A pag. 1213. Quindi, per quanto riguarda le premesse, basta quello che si è detto. Per quanto riguarda, invece, il “dirsi in molti modi”, non dobbiamo occuparci solo del fatto che le cose si dicano in modo diverso, ma bisogna anche cercare di fornirne le definizioni: per esempio, non basta dire che, in un senso, sia la giustizia sia il coraggio sono detti “bene”, e che, in un altro senso, bene è “ciò che produce la forza e la salute”, ma occorre anche dire che le prime due nozioni si dicono così perché sono dotate di una certa qualità, mentre le seconde sono dette così perché producono qualcosa e non perché hanno una certa qualità. E lo stesso vale anche per gli altri casi. Qui è evidente: le cose possono dirsi in molti modi ma noi dobbiamo ricondurli all’uno, cioè, alla definizione; a tutti i costi, sennò tutto quello che abbiamo fatto fino ad adesso si risolve in un disastro totale. Adesso qui non fa altro che cercare in tutti i modi un qualche cosa che consenta di ricondurre questi molti modi all’uno, cioè, alla definizione; perché solo con la definizione abbiamo il sillogismo, solo con il sillogismo abbiamo l’argomentazione, solo con l’argomentazione abbiamo la conoscenza, solo con la conoscenza abbiamo la scienza. A pag. 1215. E poi se, rispetto alla specie, un termine si dice in molti sensi o in uno solo, bisogna che lo esaminiamo nel modo che segue. Prima di tutto si deve vedere se il contrario si dice in molti modi, sia che esso differisca per la specie, sia che esso differisca per il nome. Alcune realtà, infatti, si differenziano immediatamente a causa del nome, come per esempio nella voce, il grave è contrario all’acuto, mentre negli angoli, all’acuto è contrario l’ottuso. /…/ Lo stesso vale anche per il bello che, nel caso dell’animale, si oppone a “brutto”, mentre, nel caso della casa, si oppone a “fatiscente”, e dunque “bello” è un termine omonimo. A pag. 1221. Per quanto riguarda, poi, i generi che non sono subordinati l’un l’altro, questa situazione non si verifica: infatti, quando diciamo “vaso” non diciamo “animale”, né quando diciamo “animale” diciamo “vaso”. A pag. 1225. Dunque, per quanto riguarda “il dirsi in molti modi”, bisogna indagare in quanti sensi si dice. Inoltre, dovranno essere considerate le differenze, sia delle realtà che si richiamano l’un l’altra all’interno dei generi stessi, come ad esempio si dovrà indagare in che cosa la giustizia differisca dal coraggio… Si cercano le differenze, ma a che scopo? Per potere scartare i molti, cioè, tutte quelle cose che appaiono non essere partecipi dell’uno – appaiono, perché poi, di fatto, non è così. A pag. 1227. Bisogna poi indagare in quanti sensi si dice qualcosa, sia per chiarezza (infatti, si potrà conoscere meglio l’oggetto della discussione se si chiarisce in quanto sensi si dice), sia per fare in modo che i sillogismi abbiano a che fare con la realtà stessa e non con il nome… Qui dice una cosa singolare. Dice con la realtà stessa e nel testo greco abbiamo πρᾶγμα, con la cosa, cioè, il sillogismo deve avere a che fare con la cosa e non con il nome. Qui, dicevo, è singolare perché è come se cercasse di recuperare qualche cosa che era stato messo in difficoltà già con le Categorie. Le categorie sono i praedicamenta, le cose che si dicono, non hanno a che fare con la realtà. La stessa sostanza, che dopo una lettura platonica è diventata il che cos’è propriamente, non ha a che fare con la cosa, almeno nelle Categorie, ha a che fare con le cose che si dicono, con il dirsi di qualche cosa. Lui qui, invece, vuole che i sillogismi abbiano a che fare con la realtà e non con il nome. E, infatti, dice: …se non è chiaro in quanti modi si dice una cosa, è possibile che chi domanda e chi risponde non abbiano in mente la stessa cosa… Però, qui da subito compare un altro problema. Infatti, dice se non è chiaro in quanti modi si dice una cosa e non in quanti modi è quella cosa, ma si dice – e qui ritornano le categorie. Qui usa il termine πρᾶγμα, la cosa, che non è la realtà. La realtà, così come la intendiamo noi oggi, non esisteva per i greci. I traduttori qui parlano con molta leggerezza di realtà, ma la realtà, come un qualcosa che deve la propria esistenza a se stessa, è un concetto totalmente estraneo presso i greci. Certo, c’era la φύσις, ma come qualcosa che sorge. Inoltre, tale indagine è utile per non essere ingannati da discorsi falsi e per ingannare con discorsi falsi. Finalmente ci ha detto a che cosa serve tutto questo armamentario: per ingannare con discorsi falsi. Infatti, sapendo in quanti modi si dice qualcosa non saremo ingannati da discorsi falsi, ma sapremo se chi interroga non svolge il discorso riferendosi alla stessa realtà; e noi stessi, quando interroghiamo, saremo in grado di ingannare mediante discorsi falsi, nel caso in cui capiti che chi risponde non sappia in quanti modi si dice ciò di cui si sta parlando. È la questione che pose molto tempo dopo Peirce: la cosa più importante quando si discute è definire i termini che si stanno utilizzando. Secondo Peirce è proprio perché non si definiscono questi termini che poi nascono i conflitti; ma il problema è definire questi termini. Il fatto di trovare le differenze, poi, è utile per i discorsi che vertono sull’identico e sul diverso, e per riconoscere che cos’è ciascuna realtà. /…/ L’indagine di ciò che è simile… L’analogia. … è utile per i ragionamenti induttivi, per i sillogismi che procedono da un’ipotesi e per la formulazione delle definizioni. Dunque, come si formula una definizione? Ma Aristotele non aveva posto la definizione come un principio primo, indimostrabile? Ma, allora, se la definizione procede dall’induzione diventa un problema, perché il sillogismo deve avere una definizione; la definizione, diceva Aristotele, è un principio primo – per Peano sarebbe stata l’idea primitiva, non ulteriormente analizzabile –, quindi, qual è qui la questione? Per formulare le definizioni abbiamo bisogno dell’induzione; poi, queste definizioni ci servono per costruire sillogismi… Ci sta dicendo che tutto si appoggia sull’opinione, su ipotesi. Dunque, per i ragionamenti induttivi l’indagine in questione è utile perché è mediante l’induzione su ciò che è simile caso per caso che riteniamo giusto indurre l’universale; infatti, non è facile indurre se non si vede ciò che è simile. Qui è ovvio che l’universale è costruito dall’induzione. Per quanto riguarda, poi, i sillogismi che procedono da un’ipotesi, la ricerca su ciò che è simile è utile perché l’idea che, come le cose stanno in un solo caso così stanno anche negli altri, costituisce un’opinione condivisa. Di conseguenza, se saremo in grado di discutere con abilità su una qualunque di tali realtà simili, saremo d’accordo in anticipo sul fatto che, ciò che eventualmente si riferisce ad esse, riguarda allo stesso modo anche all’oggetto della discussione. Cioè, se riesco a mostrare l’analogia all’interlocutore, che ciò di cui sto parlando è simile a quest’altra cosa su cui siamo d’accordo, allora anche ciò di cui stiamo parlando sarà oggetto di accordo. D’altra parte, l’analogia serve a questo, non è che serva ad altro. L’indagine di ciò che è simile, infine, è utile per la formulazione delle definizioni; infatti, una sola volta che si è in grado di avere una visione d’insieme su che cosa sia uguale nelle singole realtà, non vi sarà più in dubbio in quale genere, nel definire una realtà, si debba collocarla. E qui, di nuovo, tornano le categorie. Infatti, tra i predicati comuni, quello che risulterà essere massimamente immanente all’essenza, costituirà il genere. Cioè, il genere è costituito da predicati, da praedicamenta, da κατηγορήματα. Quindi, la necessità di ricondurre i molti all’uno, per potere utilizzare questo uno, ma utilizzarlo per che cosa? Per produrre i molti, sennò a che cosa serve l’uno? È questo il meccanismo, è questo il funzionamento del linguaggio: ridurre all’uno perché attraverso questo uno costruisco argomentazioni, cioè, costruisco molti. E vado avanti così all’infinito.