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2 aprile 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Beierwaltes ci sta dicendo che Hegel, quindi l’idealismo tedesco, in realtà, procede dal neoplatonismo, in particolare da Proclo, e che la dialettica hegeliana è in fondo sostenuta dalla dottrina henologica (la dottrina dell’Uno) di Proclo. Ora, questa cosa che dice Beierwaltes, e cioè che la dialettica Hegeliana e debitrice della henologia di Proclo va verificata. La verifichiamo leggendo l’inizio degli Elementi di teologia di Proclo. Gli Elementi di teologia sono stati, a detta di molti, compreso Beierwaltes, lo scritto di Proclo che più ha influito il medioevo e che è stato più letto e studiato dai teologi medievali. Inizia parlando dell’uno e dei molti. Per Hegel l’uno c’è per principio, però non ha ancora un significato, aspetta il significato dal per sé, e in questo ritorno l’uno, cioè l’in sé, diventa effettivamente ciò che è. È, in fondo, la dottrina di Plotino, però Proclo l’ha formalizzata. A pag. 83. Ogni molteplicità partecipa in qualche modo dell’unità. Cioè, i molti partecipano in qualche modo dell’uno. Se infatti non vi partecipasse in alcun modo, né la molteplicità nel suo complesso sarebbe una unità, né lo sarebbe ciascuno dei molti elementi di cui la molteplicità è costituita, ma anche ciascuno di essi sarebbe una molteplicità, e ciò all’infinito, e ciascuno di questi elementi infiniti sarebbe a sua volta una molteplicità infinita. Infatti, se la molteplicità non partecipa in alcun modo di nessuna unità, né considerata nel suo complesso, né per quanto concerne le singole parti che la compongono, sarà infinita assolutamente e in ogni sua parte. Se non riusciamo a chiudere, a unificare i molti nell’uno, dice, rimane infinita in ogni sua parte e non riusciamo a comprenderla. D’altro canto, ciascuno dei molti, qualunque si prenda in esame, o sarà una unità o una non-unità, e, se una non-unità, allora sarà o molti o nulla. Ma, se ciascuno di essi è un nulla, anche ciò che è composto di essi è un nulla; se invece è molti, ciascuno dei molti è costituito da infiniti all’infinito. Ma queste due ipotesi sono impossibili. Né infatti qualcosa di ciò che esiste è costituito da elementi infiniti all’infinito (infatti non esiste qualcosa che sia di più dell’infinito, e, d’altra parte, ciò che è costituito da tutte le cose è più di ciascuna cosa), né è possibile che qualcosa sia composta dal nulla. Dunque, ogni molteplicità partecipa in qualche modo dell’unità. Sta cercando di dirci che ciò che è necessario che ci sia è l’uno. Poi dice una cosa interessante. Ma queste due ipotesi sono impossibili, e cioè che ciascuno dei molti è costituito da elementi infiniti all’infinito. Questa ipotesi è impossibile. Siamo sicuri? Quando io parlo le parole che utilizzo hanno un significato, questo significato è infinito, potenzialmente infinito, quindi, contrariamente a Proclo, potrei anche dire che parlo attraverso infiniti, e, quindi, li pratico questi infiniti. Altro è invece tentare di chiudere l’infinito, cioè, trarlo in finito. Ecco, questo può risultare complesso, nel senso che se lo traggo come finito devo eliminare tutti i molti. Solo in questo modo posso immaginare di avere, di comprendere un significato. Comprendo un significato perché lo limito; se non lo limitassi, questa comprensione non avverrebbe mai. Ma cos’è questa comprensione che non avverrebbe mai? Qui la questione si fa complessa perché questa comprensione, in realtà, è una sorta di decisione, cioè, decido che questa cosa significa solo questo. Qui si aprono una catena di problemi. Se parlando utilizzo degli infiniti, anche se li utilizzo in un certo modo, nel senso che li limito a dei finiti, pur sapendo che sono infiniti, so che sono infiniti ma per poterli utilizzare li rendo finiti. Qui la questione di Hegel è ben presente perché, in effetti, l’in sé che si autoriflette, e cioè incontra il per sé, incontra un qualche cosa che in quanto tale non è propriamente finito, perché come posso finirlo il per sé, se è il significato del per sé? Posso, però, immaginare che sia determinato, ma il fatto che sia determinato è una fantasia. È solo sfruttando questa fantasia che Hegel può pensare all’Aufhebung, può pensare che il per sé ritorni sull’in sé, perché può ritornare solo se è determinato. Se è indeterminato, invece, allora non saprò mai se è tornato nell’in sé. Tornato tutto, una parte, un pezzettino, quanto? Quindi, perché funzioni questa cosa occorre che, come dice qui Proclo, l’ipotesi dell’infinito del per sé sia impossibile, mentre non è impossibile, è possibilissima, ma devo pensarla come impossibile, devo costruirla come impossibile per determinare il per sé, per poterlo utilizzare. Sempre parlando dell’uno e dei molti Proclo dice: Tutto ciò che partecipa dell’unità è sia unità che non-unità. Questo è un modo per comporre il problema dell’uno e dei molti, già abbozzato da Platone. Però, poi Proclo lo precisa dicendo che ciò che partecipa dell’unità è sia unità, perché partecipa dell’unità, ma anche non-unità perché è un’altra cosa: partecipando dell’unità non è unità, cioè, non è uno. Ma la cosa più importante, capitolo 5, dice: Ogni molteplicità viene dopo l’unità. Prima c’è l’unità. Anche in Hegel, nella sua dialettica, questo uno da cui si parte, l’in sé, è indeterminato, quindi, non lo posso conoscere, posso presupporlo. E, infatti, da qualche parte Beierwaltes diceva, citando proprio Hegel, che questa unità, questo in sé, viene presupposto, perché non lo posso conoscere prima, lo conosco dopo, quando il per sé lo rende quello che è. Ma come faccio a sapere che lo rende quello che è, se non so che cos’è? Altro problema. Tutto è sostenuto da una serie di presupposizioni, da fantasie, fantasie che stabiliscono che le cose stanno così come dico io. A pag. 85. Se infatti esiste una molteplicità anteriore all’unità…. Vedete come qui pone la questione già malamente, perché si chiede se c’è prima uno o prima l’altro, se c’è prima l’uno o se ci sono prima i molti. …allora l’unità parteciperà della molteplicità, mentre la molteplicità precedente l’unità non parteciperà dell’unità, se veramente quella molteplicità esiste prima che inizi a esistere l’unità: infatti, non partecipa di ciò che non esiste; c’è anche un secondo motivo: ciò che partecipa dell’unità è al tempo stesso unità e non-unità, ma non sussisteva ancora l’unità, dal momento che si tratta della molteplicità principio primo. Ma è impossibile che esista una molteplicità che non partecipa in alcun modo dell’unità. Dunque, la molteplicità non è anteriore all’unità. Perché? Perché è impossibile che esista una molteplicità che non partecipi dell’uno. Si possono dare delle giustificazioni: perché se lo penso in qualche modo lo unifico, ma si possono dare delle giustificazioni anche al contrario, anche l’uno pensandolo diventa molti. Necessariamente, non posso pensare l’uno senza che questo uno sia molti e non posso pensare i molti senza che questi molti siano uno. È questo che è mancato in Hegel, in Heidegger, in Proclo, in Plotino e in tutto il cristianesimo in generale; ed è mancato non tanto per un’incapacità, ma perché posta la questione in questi termini, non è possibile stabilire una verità epistemica. Se non posso pensare l’uno se non come molti e non posso pensare i molti se non come uno, allora la verità epistemica, cioè la verità assoluta, identica a sé, dove la trovo? Non c’è la verità epistemica – questo già Aristotele lo aveva inteso benissimo - e se non c’è la verità epistemica non c’è l’assoluto, se non c’è l’assoluto non c’è Dio. A pag. 86. Ma, se ci sarà qualcosa precedente a esse, che le riunisce, o è unità o non-unità. Ma, se è non-unità, o è molte cose o nulla. Ma non è né molte cose, perché la molteplicità non precede l’unità, né è nulla, come infatti nulla agirebbe da unificatore? Dunque, è soltanto unità, poiché anche questa unità non è molte cose, perché in tal caso lo sarebbe all’infinito. Dunque, è l’unità in sé: di conseguenza, ogni molteplicità deriva dall’unità in sé. Cioè, dall’uno. Questo è fondamentale per Hegel, e cioè che la molteplicità derivi dall’uno e torni all’uno: questa è la dialettica hegeliana. C’è questo uno, che però è indefinito, è indeterminato, è l’Uno di Plotino, anche se Hegel non lo dice esplicitamente. Questo uno si manifesta poi attraverso il per sé, attraverso il suo significato, che per Plotino è l’intelletto, l’anima, ecc. Tutto questo non è altro che la manifestazione dell’uno, cioè il modo in cui noi conosciamo l’uno, intelletto, l’anima, per Plotino, il per sé per Hegel. Quindi, alla fin fine, Beierwaltes non ha torto, in effetti già in Proclo c’è la dialettica hegeliana, c’è questo movimento che dall’uno che si autoriflette, cioè, si significa, che dice che cos’è (Io sono l’in sé). È un po’ come nel detto “Io sono colui che sono”: intanto, si sdoppia, sdoppiandosi produce le cose, produce un significato, produce se stesso, in fondo, il suo significato, che però non può esistere senza l’uno da cui è partito, che ritorna sull’uno e a questo punto l’in sé può dire “io sono l’in sé”, con cognizione di causa, perché sennò non può dirlo, se è solo l’in sé non può dire niente; infatti, è l’uno di Plotino, che è ineffabile, non può dirsene nulla, qualunque cosa ne dica non è quella (teologia negativa). Ma il fatto che Beierwaltes ponga questa stretta connessione tra il neoplatonismo e l’idealismo tedesco è interessante per una serie di motivi, alcuni li abbiamo già accennati, ma sempre più evidente emerge il fatto che il pensiero occidentale è religione. È religione perché ogni volta che affermo qualcosa con certezza e dico che le cose stanno così, sto facendo della religione, cioè, mi sto appellando a Dio, che mi è testimone. Una volta si diceva “Dio mi è testimone”, e, in effetti, è così che funziona: quando qualcuno afferma come stanno veramente le cose, si appella a un Dio che gli è testimone, perché sennò come fa a stabilirlo con certezza, se non c’è un Dio? Da qui la necessità di Dio, la necessità della religione. Dal momento in cui con Plotino, ma già prima con Platone e anche con i medioplatonici, si è incominciato a prendere le distanze dai presocratici, dai sofisti, e cioè da quel pensiero che negava, in fondo, l’assoluto; da quel momento l’assoluto è diventato parte integrante del pensiero, l’assoluto, cioè, la verità epistemica, la possibilità di affermare con certezza qualunque cosa, esattamente ciò che i sofisti negavano. Quindi, questo lavoro che stiamo facendo ci sta portando molto lontani. Tutto ciò che stiamo rilevando di Hegel, quando leggemmo tanto la Fenomenologia dello spirito quanto la Scienza della logica, tutto ciò – lo stiamo dicendo oggi - lo ignoravamo, immaginando che Hegel avesse effettivamente colto il funzionamento delle cose. Beierwaltes ci ha mostrato che non è affatto così, che il pensiero di Hegel, passando attraverso Marx, è diventato pensiero contemporaneo, è neoplatonico, quindi religioso, e che tutti i vari personaggi, tutta la filosofia, non solo quella medievale, ovviamente, ma tutta quanta, dall’Illuminismo al Positivismo, ecc., sono tutti aspetti della stessa questione religiosa, da cui non c’è uscita. E non c’è uscita perché il neoplatonismo ha fornito alla volontà di potenza uno strumento straordinario che non aveva mai avuto prima: l’ineffabile, l’ineffabile come istituzione, come il riferimento ultimo. Questo ha consentito a ciascuno di pensare che può dire la verità, perché la verità esiste. Eutidemo, per esempio, o Protagora o Gorgia, non potevano avere un pensiero del genere; ma anche lo stesso Eraclito: tutto scorre, ogni cosa che si dice dicendosi dilegua. Come la controllo, come la gestisco, come la domino? La domino se e soltanto se la verità epistemica è possibile; non la verità della doxa ma quella epistemica. Se è possibile allora è possibile che io dica la verità, e se è possibile che io dica la verità allora io dico la verità. A pag. 166. Dal momento che il “pensiero di pensiero” aristotelico, quale entelechia del pensiero, costituisce per Hegel l’anticipazione più adeguata al proprio concetto di pensiero assoluto, e dal momento che Plotino si è “sollevato”, grazie precisamente al suo concetto di Spirito, “a questa regione suprema”, non avrebbe, in fondo affatto bisogno, sempre secondo Hegel, dell’Uno, o, in altri termini, principio primo dovrebbe essere lo Spirito... Questa sarebbe l’innovazione di Hegel: al posto dell’Uno mette lo Spirito assoluto. Proprio l’interpretazione hegeliana del concetto plotiniano di Spirito ci mostra che non è a un criticista o addirittura a un illuminista scevro di metafisica, ma semmai a un idealista, che Plotino, con la filosofia neoplatonica in genere, poteva diventare oggetto di applicazione e di studio, o essere addirittura di stimolo per il proprio pensiero. Entrambi, infatti, pur partendo da premesse diverse e prefiggendosi scopi diversi, eleggono a loro tema lo spirito quale pensiero di se stesso, vale a dire il problema di un’autocoscienza assoluta in cui si esprime l’essere. L’autocoscienza assoluta non è che l’in sé integrato del per sé, e allora l’in sé diventa il pensiero assoluto. b) Per quanto riguarda i suoi elementi costitutivi, da un punto di vista storico, il concetto hegeliano di Assoluto va inteso, non da ultimo, come sintesi speculativa del concetto aristotelico di pensiero di se stesso come atto divino e dell’identità parmenidea di pensiero ed essere. Qui si vede come la lettura neoplatonica abbia impresso il suo marchio, perché il concetto aristotelico di pensiero di pensiero in Aristotele non è affatto pensiero che torna su se stesso. Non è un ritorno, un uscire fuori del pensiero e un ritornare al pensiero, come in Hegel, ma è semplicemente un pensiero che si interroga sulle sue condizioni, sulle sue possibilità. Non è un ritorno, cioè, il pensiero di pensiero per Aristotele non garantisce il pensiero che lo fa essere effettivamente quello che è, come per Hegel, non c’entra niente; non deve tornare, non deve giustificare, non deve arricchirsi, non deve fare niente di tutto ciò, deve semplicemente interrogarsi sulle proprie condizioni: è questo che fa il pensiero di pensiero. Mentre Hegel ha inteso Aristotele in questa maniera, come sappiamo bene, un Aristotele emendato dal neoplatonismo. Plotino è infatti il primo a interpretare il frammento 3 di Parmenide: “La stessa cosa sono il pensiero ed essere” in senso “ipostatico”. Parmenide di sicuro non lo poneva in questi termini, se l’essere è pensiero è movimento, è divenire; quindi, è esattamente l’opposto dell’ipostasi, che invece è qualcosa di statico e di assoluto. L’idea che il significato di questa frase possa essere che si può pensare soltanto ciò che è, non si affaccia né a Plotino né a Hegel; τό άυτό, “la stessa cosa”, viene inteso in senso predicativo e concepito come l’atto della seconda ipostasi (l’intelletto): essa è essere e si pensa come tale. Dice qui L’idea che il significato di questa frase possa essere che si può pensare soltanto ciò che è, sarebbe la posizione di Parmenide: si può pensare soltanto ciò che è. Ma l’essere è pensiero, quindi, non posso che pensare il pensiero, seguendo una consequentia logica, vale a dire, qualunque cosa pensi sto pensando il mio pensiero. Lo Spirito è quindi pensiero e essere in uno... Ma questa cosa però la aggiunge lui perché in Parmenide non c’è. Quindi, il pensiero è l’essere che si integrano e diventano l’Uno: questo non c’è in Parmenide. La differenza, tuttavia, tra il νούς di Plotino, che attua in quanto ύπόστασις l’identità di pensiero ed essere, è il soggetto di Hegel, rimane: il primo è mediato nel suo proprio stato per opera dell’Uno e media lui stesso l’Anima, mentre il secondo è l’intero mediato in sé e con sé: l’Assoluto stesso. Il fatto che Hegel possa scoprire il principio di Parmenide, modificato attraverso Aristotele, esplicitamente ed implicitamente espresso nel νούς plotiniano quale nuova unità ipostatica, è uno degli indizi più evidenti che il concetto di spirito proprio di Hegel si rispecchia, confusamente sì, ma non ciecamente in quello plotiniano quale pre-concetto. Qui è interessante da notare come il pensiero degli antichi venga preso, rimaneggiato, rivoltato, modificato a seconda della bisogna. Dice che Hegel scopre il principio di Parmenide, modificato attraverso Aristotele. Non risulta che Aristotele l’abbia modificato. Dal momento che l’identità parmenidea di pensiero ed essere e il pensare se stesso del Dio aristotelico sono costitutivi per una dialettica immanente al νούς assoluto, ovvero per la sua dinamica, anche lo Spirito plotiniano (e non solo, a causa della triplicità, quello di Proclo) può costituire gli occhi di Hegel un concretum. Quindi, l’identità parmenidea di pensiero ed essere e il pensare se stesso del Dio aristotelico sono costitutivi della dialettica hegeliana. Il pensare: naturalmente il pensare - il pensiero che pensa se stesso - sempre nella accezione di Aristotele letto dai neoplatonici. Lo abbiamo visto, sono due cose totalmente differenti: per Hegel il pensiero che pensa se stesso è un pensiero che si autoriflette e autoriflettendosi diventa pensiero assoluto, cosa totalmente assente in Aristotele, il Dio aristotelico è quel Dio che interroga il pensiero. E qui già Hegel pensava al Dio aristotelico, ma pensava al suo Dio. A pag. 169. L’alterità diviene momento necessario sì, ma che pensando annulla se stesso, e attraverso il quale soltanto lo Spirito “concresce” a totalità. Cioè, pensando l’in sé annulla se stesso nel per sé, il quale per sé diventa poi, integrandosi con l’in sé, la totalità: altre cose totalmente assenti in Aristotele. “Lo Spirito ha senso soltanto come pensiero che si determina in se stesso. Questa è pura identità del pensiero, che sa se stesso, che distingue se stesso, e dal lato di questa distinzione si determina, ma rimane tuttavia in ciò unità perfettamente trasparente con se stesso. Questo è il concreto. Il “concreto” è dunque l’espressione hegeliana per l’“unità nella diversità” di Plotino. L’unità nella diversità: abbiamo visto prima anche in Proclo, l’uno precede i molti. Lì sta tutto, nel fatto che l’uno precede i molti, che sia la condizione dei molti: questa differenza tra Plotino e il prima di Plotino. Questo fatto che l’uno sia posto come ciò che precede i molti, quindi, l’uno e i molti sono disposti in una sorta di emanazione: i molti sono un’emanazione dell’uno. E la dialettica hegeliana cosa fa? Nient’altro che una riappropriazione da parte dell’uno dei molti che ha prodotto autoriflettendosi. Siamo al capitolo terzo, Hegel e Proclo. All’inizio fa tutta una lunga disquisizione, citando testi, tutti tedeschi, che Hegel ha avuto a disposizione per leggere. A pag. 176. Parla di una ricerca della razionalità interna ai significati mistici. L’idealismo tedesco, in fondo, è una ricerca della razionalità, perché doveva razionalizzare tutto all’interno del misticismo. Questa ricerca avvicina Creuzer - sia dal punto di vista dei suoi avversari che da quello di Hegel - ai neoplatonici, dal momento che anch’essi cercavano di ricondurre la mitologia al concetto. Ora, riportare la mitologia al concetto non è molto lontano dall’idea di condurre i molti all’uno. La mitologia è i molti, sono i racconti della nonna, che vanno ricondotti a un concetto, cioè, all’uno. Il metodo neoplatonico si differenzia tuttavia da quello di Creuzer per il fatto che, là dove per la mentalità neoplatonica l’elemento primario è determinante - anche nelle interpretazioni dei miti - rimane sempre il pensiero sistematizzato e fissato secondo criteri filosofici, Creuzer vede in primo luogo il fenomeno religioso. L’interpretazione filosofica dei miti del neoplatonismo - in realtà un’interpretazione di filosofemi - fa del mito una metafora funzionale ai fini della filosofia o addirittura un’allegoria. Quest’ultima radicale demitologizzazione del mito ad opera della filosofia greca, pur mirando a salvare il mito, lo distrugge definitivamente in quanto fenomeno religioso degno di seria considerazione. È questo il punto: i miti antichi, che venivano presi come elementi religiosi, dovevano essere distrutti perché c’era la nuova vera religione, quella che deve rimpiazzare tutto quanto. In una lettera di Hegel a Creuzer troviamo alcune dichiarazioni generali sulla filosofia di Proclo che ci conducono immediatamente al problema oggettivo della nostra tematica: La lettera è di Hegel. Di tutta la produzione neoplatonica di cui sono venuto a conoscenza, questo trattato di Proclo (l’Elementatio, le cui bozze Hegel aveva appena ricevuto da Creuzer) mi è lo scritto più caro e prezioso. La dialettica platonica - e nel contempo la sistematizzazione a un livello superiore a Platone, l’organizzazione dell’idea in se stessa che si annuncia in Proclo - questo è l’incommensurabile passo avanti nella filosofia - merito soprattutto di Proclo - di cui hanno approfittato i posteri. Con questa edizione Lei ha ovviato a una grande mancanza, e io non mancherò senz’altro, nelle mie lezioni di storia della filosofia, di richiamare l’attenzione su Proclo e su quest’opera che mi sembra costituire la vera svolta, il passaggio dall’epoca antica alla moderna, dalla filosofia antica al cristianesimo - svolta e passaggio che si tratta ora di far nuovamente valere. Questa lettera l’ho citata perché, in effetti, è uno degli elementi che sanciscono la rinascita potente del neoplatonismo nel pensiero, in modo esplicito, prima c’era ma era implicito. In questa valutazione estremamente positiva del neoplatonismo, e in particolare di Proclo, Hegel si distanzia decisamente dagli storici della filosofia del suo tempo, Brucker, Tiedemann, Tennemann, costretti in certo modo dalle proprie premesse filosofiche, diffamarono infatti il neoplatonismo, qualificandolo da capo a fondo di Schwarmerei (fideistico, creduloneria). Ma non fu soltanto una comprensione filosofica più profonda, più chiara e più giusta dell’intenzione fondamentale e delle premesse del filosofare neoplatonico a condurre Hegel a una tale “rivalutazione”; fu anche il proprio nuovo punto di vista, a partire dal quale Hegel costruiva lo sviluppo storico della filosofia, ovvero la filosofia come storia. Se si considerano i fondamenti logici di questa costruzione, si deve ammettere che il neoplatonismo era predestinato ad assumere un’importanza particolare per lo sviluppo del tutto. Le riflessioni di Hegel a proposito di questa struttura logica e dell’itinerario della storia della filosofia costituiranno, nel loro rapporto col neoplatonismo e specialmente con la filosofia di Proclo, l’oggetto del seguente paragrafo. La questione interessante, in effetti, è che, sì, è vero, Hegel ha trovato in Proclo il fondamento, la garanzia, la giustificazione del proprio pensiero, ma c’è qualcosa in più, e cioè il fatto che questa modalità di concepire il pensiero come un qualche cosa che si autoriflette e poi torna su se stesso confermandosi. E questa era la questione fondamentale, era la posta in gioco di tutto, perché solo in questo modo il pensiero diventa pensiero assoluto. Quando il pensiero è pensiero assoluto? Quando si appropria di sé. E come si appropria di sé? Autoriflettendosi, trovando fuori di sé il proprio significato, del quale si riappropria, torna sull’uno e finalmente diventa pensiero assoluto.

Intervento: La contraddizione...

Sì, perché anche la contraddizione viene riportata all’uno. Anche la contraddizione, in fondo, essendo i molti, aspira a tornare là da dove arriva, all’uno. Come poi la contraddizione possa derivare dall’uno, questo non è dato sapere, o più propriamente, è possibile, certo, argomentare la cosa, ma è rischioso perché a questo punto l’uno si sdoppia, l’uno diventa i molti, e questo costituisce un grossissimo problema.

Intervento: …

 Sì, certo, certo, tornano nell’uno, ma a questo punto c’è il problema che poi tutto il Medioevo cerca di risolvere, tutte queste cose che tornano nell’uno ampliano l’uno, lo aumentano, lo diminuiscono, lo fanno diventare non più assoluto. In che modo si preserva l’uno come assoluto? La soluzione della Chiesa era già presente in nuce in Plotino, è la processione dove permane la stessa sostanza, cioè, l’uno, l’intelletto e i molti sono consustanziali, così come il Padre, il Figlio e lo Spirito.