1 ottobre 2025
Agostino d’Ippona De doctrina christiana
A pag. 19. Libro primo. Due sono i procedimenti sui quali si fonda tutto lo studio delle Scritture: il modo di venire a conoscenza di ciò che si deve comprendere e il modo di esprimere ciò che si è compreso. Il modo di venire a conoscenza di ciò che si “deve” comprendere. Cioè, c’è qualche cosa che si deve comprendere e qualche cosa no. A pag. 21. Ci sono invece altri segni di cui facciamo uso solo per significare, per esempio le parole: nessuno ne fa uso se non per significare qualcosa. Si parla per significare qualcosa. E che cosa si vuole significare parlando? Che ho ragione io, che altro? Di qui si capisce che cosa io intendo per segno: una cosa che serve per significare qualcosa. Perciò ogni segno è anche una cosa, perché ciò che non è una cosa non esiste affatto; invece, non ogni cosa è anche segno. /…/ Ci sono alcune cose di cui dobbiamo godere, altre che dobbiamo usare; ce ne sono poi altre che godono e usano. Quelle di cui dobbiamo godere ci rendono felici; quelle che dobbiamo usare ci sono di aiuto nel tendere alla felicità e, per così dire, ci sostengono perché possiamo giungere a quelle che ci rendono felici e unirci a loro. Ciò che Agostino sta incominciando a dire è che ci sono l’Uno e i molti. Il godimento sarebbe l’Uno, perché sarebbe un qualche cosa che è determinato, che è quello che è, e allora ne gode; altre cose invece sono gli strumenti per giungere al godimento. Qui ci troviamo di fronte a una questione importante perché continua a ribadire, ma lo dice fra le righe, mai esplicitamente, che c’è un qualche cosa e poi ci sono altre cose che significano questa cosa, ma sono cose diverse e, soprattutto, la prima non è le seconde. Come dire che il significante non è il significato. Il che va anche bene, però qui, come già faceva nel De Trinitate, l’intendimento è di tenere separate le cose. Infatti, dice a pag. 23. Godere significa aderire con amore a qualcosa per se stessa; usare, invece, significa indirizzare ciò di cui facciamo uso al conseguimento di ciò che amiamo, purché sia degno di essere amato:… Qui fa un esempio che è abbastanza emblematico. Per fare un esempio, se ci troviamo in terra straniera, mentre non possiamo vivere felici se non in patria, e infelici per questa lontananza vogliamo porre fine al disagio e tornare, abbiamo bisogno di mezzi di trasporto per terra o per mare, di cui usare... Tornare alla patria: tornare all’Uno, tornare lì dove c’è la felicità. Ma la felicità, per essere tale, deve essere riferita a qualche cosa che è quello che è e, quindi, non può essere molti, deve essere uno, deve essere determinato come uno. Questa questione, che può apparire banale, in effetti è il motivo dominante di tutta l’opera di Agostino: la necessità di tornare sempre a Dio, cioè all’Uno, cioè alla patria, al bene, alla felicità, ecc., ma è sempre e comunque - questo lo ribadisce ininterrottamente - un percorso soteriologico, cioè, una salvezza. Salvezza che sappiamo bene essere sempre una salvezza dai molti, perché sono i molti che impediscono la felicità, perché sono i molti che impediscono che la felicità sia quella cosa che dico io. A pag. 25. Il Padre è soltanto il Padre, il Figlio, soltanto il Figlio, lo Spirito Santo soltanto lo Spirito Santo. Ai tre la stessa eternità, la stessa immutabilità, la stessa maestà, la stessa potestà. Nel Padre l’unità, nel Figlio l’uguaglianza, nello Spirito Santo l’armonia di unità e uguaglianza: tutti e tre sono una cosa sola per il Padre, tutti uguali per il Figlio, tutti congiunti per lo Spirito Santo. Ecco che ritorna una questione importante, perché è quella su cui si è costruita tutta la semiotica. C’è l’unità, quindi, l’uguaglianza. L’uguaglianza fa comparire i molti perché una cosa deve essere uguale a un’altra. Posso anche dire che è uguale a se stessa, ma questa è una tautologia, per cui non dico niente. L’unità è l’uno; l’uguaglianza, i molti, è il due, almeno il due e, infine, la relazione tra loro: ecco la semiotica. Abbiamo detto e proclamato qualcosa degno di Dio? Certo, ho coscienza di non aver voluto altro che dire così: eppure, se l’ho detto, non è ciò che avrei voluto dire. Come lo so, se non perché Dio è ineffabile? Ciò che invece ho detto io, se fosse ineffabile, non l’avrei potuto dire. Ma allora non dobbiamo dire neppure che Dio è ineffabile perché, quando diciamo così, diciamo qualcosa, e allora abbiamo non so che contraddizione in termini... Con la logica non è che andasse tanto d’accordo. …perché se è ineffabile ciò che non si può dire, non è ineffabile ciò che possiamo dire almeno ineffabile. Qui si era accorto di un problema fondamentale che riguarda l’ineffabile: o lo taccio per sempre oppure, se ne parlo, anche se ne penso, comunque non è più ineffabile. Quindi, posso dire che è ineffabile a condizione che non lo sia. Ha enunciato qui il problema del linguaggio.
Intervento: Il dire “Dio è ineffabile” è una determinazione.
Sì, certo. E se è determinato non è più ineffabile, perché la determinazione è un atto linguistico. È una contraddizione che va rispettata in silenzio piuttosto che risolta con la parola. A pag. 27. Tutti fanno a gara per affermare l’eccellenza di Dio,… Tutti ai suoi tempi, adesso non più. Però, dice una cosa che invece è ancora valida oggi: …e non c’è uno che creda Dio tale che ci possa essere qualcosa migliore di lui. Tutti, perciò, sono d’accordo che Dio è ciò che essi antepongono a tutte le altre cose. Ecco la necessità della verità epistemica. Tutti sono d’accordo che esista una verità; poi, sono in totale e assoluto e irrimediabile disaccordo su che cosa sia, ma sul fatto che ci sia l’accordo è universale. Se non ci fosse, allora sarebbe un problema grossissimo perché non potrei più ingannare nessuno. A pag. 35. A causa dell’animo corrotto della donna è entrata la malattia: grazie al corpo integro della donna è venuta la salvezza. A pag. 41. Ci è stato infatti ordinato di amarci gli uni agli altri, ma ci chiediamo se l’uomo debba essere amato dall’uomo per sé o per altro… Qui è l’anima bella che interviene. …se infatti è per sé, ne godiamo, se per altro, facciamo uso di lui. Ritengo che l’uomo debba essere amato per altro fine, perché ciò che deve essere amato per sé costituisce la vita beata; e se essa non è ancora realtà… Perché stiamo ancora aspettando il ritorno di Gesù Cristo. …tuttavia, la sua speranza ci conforta in questo tempo; è invece maledetto colui che ripone la sua speranza nell’uomo. D’altra parte, neppure di se stesso uno deve godere, se si comprende bene che uno non deve amare se stesso per se stesso, ma per colui di cui deve godere. Cioè, Dio. Allora l’uomo è migliore quando tende con tutta la sua vita alla vita immutabile e aderisce a essa con tutto il suo affetto. Se invece si ama per sé, non si riporta a Dio, ma volgendosi a sé non si volge a qualcosa di immutabile. Cioè, devi amare, sì, l’altro, ma non perché è l’altro. Dell’altro non importa assolutamente niente, ma lo amo perché è questo che vuole Dio, lo amo per un bene che va al di là di chi ho di fronte. L’altro che ho di fronte è soltanto lo strumento di Dio, dell’amore di Dio. A pag. 45. Ritiene poi di aver ottenuto un gran risultato se sarà riuscita a dominare sui suoi simili, cioè sugli altri uomini, perché l’anima pervertita desidera soprattutto e rivendica, quasi che le sia dovuto, ciò che propriamente è dovuto soltanto a Dio. Ma tale amore di sé lo definiamo meglio odio, perché è ingiusto che uno pretenda per sé il servizio di chi è sotto di lui, mentre egli non vuole servire chi gli è al di sopra, e giustamente è stato detto: “Chi ama l’ingiustizia odia la propria anima”. Così L’anima diventa debole ed è tormentata dal corpo mortale: lo deve amare e perciò viene oppressa dalla sua corruzione. Infatti, l’immortalità e l’incorruttibilità del corpo derivano dalla sanità dell’anima, e tale sanità consiste nell’aderire nel modo più stabile a chi le è superiore, cioè a Dio immutabile. Non devo impormi sugli altri, perché io insieme con gli altri sono servo di Dio. Quindi, se io mi impongo per qualche motivo, non lo faccio perché voglio impormi ma perché il mio impormi serve alla potenza di Dio: io sono il servo di Dio, sono il suo tramite. Questa era anche la tesi di Paolo. A pag. 47. …i desideri della carne si oppongono a quelli dello spirito e i desideri dello spirito a quelli della carne: lo spirito resiste non per odio ma per affermare la sua superiorità, perché tanto più vuole che ciò che ama sia sottomesso a chi è migliore... È questo che vuole, che l’altro si sottometta non a me ma a Dio, cioè a una ragione superiore. Come dire che le persone devono sottomettersi a una ragione superiore, una ragione che le trascende, che loro non vedono ancora bene, perché Dio non è ancora tornato un’altra volta. Quindi, io voglio sottomettere l’altro non per me… Capite da chi ha preso Hegel quando parla dell’anima bella? Da Agostino. D’altra parte, l’influenza di Agostino in tutto il pensiero occidentale è stata notevole. A pag. 53. Quanto poi a tutti quelli che hanno la possibilità di godere di Dio insieme con noi, amiamo sia alcuni cui veniamo in aiuto, sia altri da cui lo riceviamo; sia alcuni del cui aiuto abbiamo bisogno e al cui bisogno veniamo in aiuto, sia altri ai quali noi non siamo di alcuna autorità e dei quali non ne aspettiamo alcuna. Dobbiamo comunque volere che tutti insieme con noi amino Dio, e tutto l’aiuto che diamo a loro e da loro riceviamo dobbiamo riferirlo a quel solo fine. Succede infatti nei teatri di iniquità che, se uno ama un attore e trae godimento della sua arte come da un bene grande, anzi grandissimo, costui ama anche tutti quelli che insieme con lui amano quell’attore. Principio su cui si fonda la pubblicità, fare credere che tutti quanti amino una certa cosa: se tutti l’amano, dev’essere bella per forza, quindi, è bella, quindi, la voglio anch’io. Anche Göbbels diceva una cosa simile: bisogna fare credere che tutti quanti siano convinti di una certa cosa, della bontà di una certa cosa, anche se sono in tre, non importa; ma, se tutti pensano che tutti quanti gli altri pensano bene di una certa cosa, vuole dire che è bene. …e quanto più arde di questo amore, tanto più si adopera in ogni modo a farlo amare da più persone e a mostrarlo loro… Ciò che mi piace voglio che anche altri lo apprezzino. …se vede uno che resta indifferente, cerca di scuoterlo, lodando l’attore quanto più può; se s’imbatte in uno che disapprova, odia aspramente in lui l’odio che quello nutre per il suo amato, e cerca in ogni modo di farlo cessare. Ha descritto perfettamente la pubblicità, il modo in cui si mette in atto la pubblicità: fare venire in odio al popolo una certa cosa. Qualcuno diventa odiabile perché non apprezza è ciò che io apprezzo, ciò che io valorizzo, quindi, è una cosa iniqua, e se apprezza questa cosa iniqua, allora anche lui è iniquo e, quindi, va combattuto. A pag. 69. Se uno nell’interpretare le Scritture intende in modo diverso da come ha scritto l’autore, costui si sbaglia perché quelle non mentiscono:… Ma anche quando Dio ha detto che ha creato una creatura maschio e femmina assieme, sia maschio che femmina, cioè androgino? Anche in quel caso si deve prendere alla lettera? E prendere alla lettera anche ciò che Dio dice subito dopo, che li ha fatti a sua immagine e somiglianza e, quindi, dedurre immediatamente che Dio era un transessuale? Però, questo alla Chiesa non andava bene, c’era qualche problema. Quindi, non è vero quello che dice, perché lui stesso si smentisce, lo diceva nel De Trinitate quando riportava questo esempio. Ma anche più avanti si contraddice: la parola di Dio non deve essere alterata, cosa che poi è stata ripresa anche dai musulmani, la parola del Corano non può essere manomessa. Solo che il problema rimane, l’abbiamo già visto all’inizio con Filone: ci sono dei passi della Bibbia che vanno interpretati perché, se non si interpretano, dicono esattamente il contrario di quello che magari affermavano qualche pagina prima. Dio si contraddice? Che Dio è. …ma se, come ho già accennato, si inganna proponendo un’interpretazione tale da edificare l’amore che è il fine del processo divino, si sbaglia come se uno, pur deviando dalla via a causa dell’errore, continui a camminare attraverso i campi nella stessa direzione dove porta anche la via. Va comunque corretto e gli si deve spiegare quanto sia utile non deviare dalla retta via, per evitare che, avvezzo a deviare, finisca per andare di traverso e in direzione sbagliata. Se infatti costui afferma sconsideratamente ciò che l’autore (Dio) che sta leggendo non ha inteso dire, facilmente gli vengono in mente altre idee che non può far quadrare con l’intenzione dell’autore. Il problema è che già l’autore stesso non era coerente con le sue idee da nessuna parte. E se è convinto che queste sue idee sono vere e sicure, egli accade, non so come, che restando attaccato alla sua interpretazione, cominci a disgustarsi più della Scrittura che di se stesso. Cioè, legge la Bibbia, vede che è tutta piena di contraddizioni, si disgusta della Bibbia e la butta via. Può succedere. Se avrà poi permesso a questo male di diffondersi in lui, ne sarà completamente rovinato. “Camminiamo infatti sorretti dalla fede, non guidati da chiara visione”. Sta dicendo che è la fede che ci indica la via, non la ragione; la ragione vi porta ora di qua, ora di là, invece, la fede no, la fede vi porta sempre nella diritta via, e se errate, vi corregge. …ma la fede si indebolirà se vacilla l’autorità delle Scritture… Qui è tutto un enorme problema, perché l’autorità delle Scritture dipende direttamente dall’interpretazione, ovviamente: ma l’interpretazione non è più la parola di Dio, è la mia che traduce la parola di Dio. È un problema che Agostino non risolve, naturalmente. …e se s’indebolisce la fede, anche l’amore langue: chi si allontana dalla fede, inevitabilmente si allontana anche dall’amore (l’amore per Dio) perché non può amare ciò nella cui esistenza non crede. Quindi, per dimostrare che la fede è l’unica retta via si trova ingarbugliato in questo problema, che la Parola di Dio è quella che è e non può essere confutata, però, se non la interpretiamo, quella si contraddice continuamente. Però, se la interpreto non è più la Parola di Dio e, allora, che si fa? Interviene la fede, fede che è sempre fede nell’ineffabile, ovviamente. A pag. 75. Libro secondo. Quando ho cominciato a scrivere riguardo alle cose, ho precisato che nessuno deve considerare in esse se non ciò che sono, non se significano anche altro oltre se stesse... Sta suggerendo che per considerare qualche cosa occorre considerarlo come uno, eliminando i molti. …analogamente, cominciando a trattare dei segni, dico che nessuno deve considerare in essi ciò che sono, ma piuttosto che son segni, cioè che significano qualcosa. Segno è infatti una cosa che, oltre all’aspetto esterno che presenta ai sensi, fa venire in mente qualcos’altro a partire da sé... Qui c’è una questione che a noi interessa: dice, nessuno deve considerare in esse, nelle cose, se non ciò che sono. Ora, in tutto ciò c’è già una totale cancellazione di Aristotele, delle categorie aristoteliche, perché qualche cosa è nient’altro che le sue categorie. Ma di nuovo qui si trova di fronte a una sorta di paradosso: considerare qualche cosa per quello che è. Se lo considero vuole dire che lo determino, e queste determinazioni gliele aggiungo io, come dire che questa cosa è quella che è per virtù del fatto che io attribuisco a questa cosa cose che quella cosa non è. Il problema del linguaggio, che poi è questo, compare ininterrottamente in Agostino, ma perché Agostino si è accorto del problema del linguaggio, poi, certo, lui deve rimediare, però lo vede, più o meno direttamente, ma vede il problema. Però, poi, fortunatamente la fede lo salva dalla catastrofe, quella catastrofe nella quale sono incorsi gli antichi. A pag. 85. Qui c’è un po’ il riassunto di quello che diceva nel libro precedente. Quindi, spinti dalla pietà, dobbiamo imparare a essere miti e a non contraddire la Sacra Scrittura, sia che l’abbiamo compresa, nel caso che rimproveri qualche nostro vizio, sia che non l’abbiamo compresa, come se noi fossimo capaci di intendere e insegnare meglio. Dobbiamo invece considerare ed essere convinti che è più vero e più buono ciò che è scritto là, anche se ci resta oscuro, che non ciò che possiamo comprendere da noi stessi. Qui rimane sempre il problema del Dio transessuale, che è sempre presente perché, se la parola di Dio è quella, il risultato immediato è questo. Però, occorre essere miti di fronte alle Sacre Scritture, cioè, sottomessi: la Sacra Scrittura dice che le cose stanno in un certo modo, quindi sottomettiti. Che è poi la stessa cosa che hanno ripreso anche i musulmani: Dio esige la sottomissione. A pag. 101. Che altro è la purezza del parlare se non il mantenimento di una consuetudine ormai estranea, avvalorata dall’autorità degli antichi parlanti? La purezza del parlare. Si parla bene quando ci si attiene a ciò che in fondo gli antichi hanno stabilito. La questione che ci interessa è il mantenimento della consuetudine, che ci è diventata estranea, ché non sappiamo più bene perché si faccia così. Non sappiamo più bene perché in un’ipotetica passata si deve utilizzare il congiuntivo piuccheperfetto e non l’indicativo imperfetto, cioè, dire: se fossi andato sarebbe stato meglio e non se andavo era meglio, anche se si capisce lo stesso. Perché? Qualcuno sa dirlo? No, tendenzialmente no, ed è inutile che ci rivolgiamo al latino, perché la stessa domanda si può rivolgere ai latini: perché usavano questa forma? A che scopo? E, allora, si va al protolatino, si va alle lingue precedenti il latino, alle lingue dei volsci, degli etruschi, ecc. Loro usavano questa forma? Se sì, perché? E, se non la usavano, perché dopo è stata introdotta? Per quale motivo? Chi sa rispondere a questa domanda? E man mano che si va all’indietro poi si perdono le testimonianze finché scompaiono del tutto e la domanda rimane lì in sospeso. Ma queste cose, la purezza del parlare, il mantenimento di una consuetudine ormai estranea, non è altro che la doxa. È la doxa che funziona così, la doxa funziona per similitudine, per analogia. Ma queste similitudini vengono messe in atto a partire da qualche cosa di pregresso, che altri hanno più o meno stabilito e che la persona poi utilizza parlando: questa cosa somiglia a quest’altra, questa cosa è bene perché mia nonna diceva che era bene e, quindi, è bene; non si pone la domanda “Perché mia nonna diceva che quella cosa era bene?”.
Intervento: Questo estraneo si riferisce proprio a questo, a una consuetudine ormai estranea nel senso che non si sa esattamente.
Esatto, ci è estranea perché non è più nostra, è degli antichi. Noi l’abbiamo fatta nostra ma non sappiamo più perché, e non lo sapevano neanche loro perché a loro volta avevano fatto la stessa operazione. Ogni antico ha i suoi antichi. A pag. 133. Eppure, tutti cercano una qualche somiglianza nell’atto di significare... È quello che dicevamo prima: la similitudine, cioè, l’analogia, l’induzione. …in modo che, per quanto è possibile, i segni siano simili alle cose che vengono da essi significate. D’altra parte, poiché una cosa può essere simile a un’altra in molti modi, questi segni non potrebbero avere valore stabile tra gli uomini se non si ottiene il consenso. Sta dicendo che quella cosa che chiamiamo verità o realtà non è nient’altro che ciò che ha il consenso dei più. In termini più precisi, è un tópos retorico, cioè, una figura retorica, un luogo retorico. A pag. 139. Quanto all’utilità che ci viene dalla conoscenza dei fatti storici, per tacere dei Greci, va ricordata una questione molto importante che fu risolta dal nostro Ambrogio in polemica con i lettori e gli ammiratori di Platone: costoro, infatti, lanciavano calunnie osando dire che tutti i pensieri enunciati dal Signore nostro Gesù Cristo, che essi loro malgrado debbono ammirare e lodare, egli li avrebbe appresi dai libri di Platone, dal momento che questi era indubbiamente vissuto molto tempo prima della sua incarnazione. Il nostro vescovo, esaminando la storia profana, riscontrò che al tempo di Geremia Platone era stato in Egitto, dove allora si trovava il profeta, e così dimostrò essere più probabile che fosse stato proprio Platone ad apprendere le nostre lettere per tramite di Geremia... Ecco, è dimostrato. …in modo da poter insegnare e scrivere quei pensieri che ben a ragione vengono lodati. Infatti, prima che fossero stati scritti i testi del popolo ebraico, nel quale per la prima volta si è manifestata la venerazione di un solo Dio e dal quale è disceso secondo la carne nostro Signore, non era esistito neppure Pitagora. dai cui successori, secondo quanto asseriscono costoro, Platone avrebbe appreso la dottrina concernente la divinità. Considerati perciò questi dati cronologici, appare molto più credibile che siano stati proprio costoro a derivare dai nostri libri tutto ciò che hanno detto di vero e di buono, mentre è somma stoltezza credere che il Signore Gesù l’abbia tratto da Platone. Questa è una bella dimostrazione che fa Agostino partendo da Ambrogio. A pag. 145. Restano le istituzioni che concernono… Qui sta parlando delle istituzioni, se si debbano seguire oppure no. …che concernono non i sensi corporei ma la razionalità dell’anima, dove è regina la scienza del ragionamento e del numero: ma la scienza del ragionamento è la più utile per esaminare e risolvere ogni genere di questioni che si riscontrano nei libri sacri, a patto però di guardarsi dalla smania di polemizzare e dalla puerile ostentazione di trarre in errore l’avversario. Sono molti, infatti, quelli che chiamiamo sofismi, cioè conclusioni false di ragionamenti che di solito sanno imitare quelle vere in modo da trarre in inganno non solo gli ottusi ma anche gli intelligenti, se fanno poca attenzione. Per esempio, uno che parlava con un tale affermò: «Ciò che sono io, tu non sei», e l’altro fu d’accordo, e in parte l’affermazione era vera, per il fatto stesso che uno era abile a ingannare e l’altro un sempliciotto. Allora quello aggiunse: «Io sono un uomo”, e dato che l’altro fu ancora d’accordo, concluse: “Perciò tu non sei un uomo”. Tale genere di conclusioni ingannatrici io ritengo che la Scrittura condanni là dove dice: “Chi parla come un sofista è odioso”. Peraltro, definiamo sofistico anche il discorso non ingannevole ma più sovrabbondante di quanto richiede la serietà, perché troppo interessato alle ricercatezze verbali. Sovrabbondante vuole dire che ci sono i molti, che ce ne sono troppi e, se ce ne sono troppi, non possiamo stabilire con certezza come stanno le cose. Il problema è che sono sempre troppi, per cui: dove ci fermiamo? Qui interviene la fede: solo la fede può dirci come stanno veramente le cose, cioè ciò che sentiamo dentro. Ma, allora, quello che sentivano dentro i manichei, i donatisti, gli albigesi, ecc., aveva lo stesso valore? Eppure, lo sentivano dentro anche loro. Perché loro no? Quello degli Albigesi è stato il più grande e preciso, meticoloso, determinato massacro mai esistito sul pianeta. Altri hanno fatto dei massacri inenarrabili, Hitler, Stalin, Gengis Khan, ce ne sono quanti se ne vuole, ma nessuno ha fatto un lavoro come ha fatto la Chiesa, letteralmente un lavoro come Dio comanda, perché non ne è rimasto uno di albigesi; di ebrei ne sono rimasti a bizzeffe, di dissidenti ce ne sono quanti se ne vuole, ma di albigesi non ne è rimasto uno. A pag. 147. Tuttavia, il modo giusto giusto di trarre deduzioni non è stato istituito dagli uomini… Questo è importante perché la deduzione, l’inferenza, deve essere garantita in qualche modo, e Aristotele si era accorto benissimo che non c’è nulla al mondo che la garantisse. E, allora, ecco Agostino trova la sua soluzione. …non è stato istituito dagli uomini, ma da loro osservato e fatto conoscere, in modo da poterlo imparare e insegnare, perché fa parte dell’ordinamento razionale delle cose, che è perpetuo ed è stato istituito da Dio. Ancora oggi un docente di filosofia del linguaggio diceva che la logica non è altro che la descrizione del corretto modo di pensare quando si pensa correttamente, cioè quando si pensa come Dio comanda. Come dire che soltanto Dio può garantire. Come chi racconta la successione dei tempi non l’ha ordinata lui stesso; e chi descrive la posizione dei luoghi e le nature degli animali, delle piante e delle pietre, non descrive le cose istituite dagli uomini; e chi fa conoscere le stelle e i loro movimenti fa conoscere cose non istituite da lui o da altro uomo; così anche colui che dice: “Quando una conclusione è falsa, necessariamente è falsa la premessa”, dice il vero; non è però lui che lo fa essere così, ma si limita a farlo conoscere. È così di natura, è così perché Dio lo vuole. Rientra in questa regola il passo dell’apostolo che abbiamo sopra addotto: la premessa era che non c’era resurrezione dei morti, secondo quanto affermavano coloro il cui errore l’apostolo voleva confutare… Perché, se non c’è resurrezione dei morti, allora Cristo non è risorto. …e a questa affermazione precedente, che i morti non risorgono, segue necessariamente: neppure Cristo è risorto; questa confusione però è falsa, perché Cristo è risorto: e allora è falsa anche la premessa; la premessa è che non c’è la resurrezione dei morti: allora è vero che i morti risorgono. Per dirla in breve, se non c’è la resurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto; ma Cristo è risorto e allora c’è la resurrezione dei morti. Questa è quella figura che la logica chiama “modus tollens”: se A allora B, ma non B, dunque non A. In questo passo, dove si parla della resurrezione, sono veri sia la regola della deduzione sia l’affermazione conclusiva. Quando invece l’enunciato è falso, si dà deduzione vera in questo modo. Ammettiamo che uno abbia accettato questa premessa: se la lumaca è un animale, ha la voce. Ciò concesso, quando si sarà dimostrato che la lumaca non ha voce, dato che tolta la conseguenza cade la premessa, se ne ricava che la lumaca non è un animale. Questa affermazione è falsa, ma posta la falsità della concessione iniziale, la deduzione della conclusione è vera. Perciò, la verità degli enunciati ha valore di per sé, invece la verità della deduzione dipende dal punto di vista e dall’assenso dell’interlocutore. Questa è la definizione che ancora oggi permane nella logica tra enunciato valido e enunciato corretto. L’enunciato valido è quello che è valido logicamente: “Se gli elefanti volano, allora questo è Gabriele”, che è vero, perché la permessa è falsa e il conseguente è vero - l’importante è che sia vero il conseguente -, è quindi un enunciato valido ma non corretto, perché la correttezza dipende dal valore che si danno alle cose. Infatti, l’elefante non può volare perché, per via della doxa, ho imparato una serie di cose che mi dicono che questa cosa è falsa, cioè, questa immagine dell’elefante che vola per analogia non posso riportarla ad altre cose che so. A pag. 151. Altro è dunque conoscere le regole della deduzione, altro la verità degli enunciati. Non basta conoscere le regole della logica per costruire enunciati veri. Con quelle regole della deduzione impariamo che cosa sia logicamente conseguente, che cosa non lo sia, che cosa sia contraddittorio. È conseguente: se è oratore, è uomo; non è conseguente: se è uomo, è oratore; è contraddittorio: se è uomo, è quadrupede. Qui, dunque, giudichiamo della proprietà della deduzione. Quando invece giudichiamo della verità degli enunciati, vanno apprezzati gli enunciati di per sé, non le loro connessioni. La logica di fatto opera attraverso degli operatori, i connettivi logici, che vengono stabiliti secondo delle regole, le leggi di De Morgan, che stabiliscono in quali casi sono veri, in quali casi sono falsi, ecc. Ma altro è invece la verità degli enunciati in quanto tali, perché dice: Ma quando enunciati non certi si collegano con enunciati certi per mezzo di una deduzione vera, anch’essi necessariamente diventano certi. Ma questo “necessariamente” se lo inventa lui, perché non è affatto necessario, è soltanto una somiglianza, una induzione. A questo riguardo alcuni si gloriano, quando hanno appreso la verità delle deduzioni, quasi che in essa consista anche la verità degli enunciati… Questo è l’errore in cui cadde Berengario di Tours, ma non Lanfranco di Pavia. La verità delle deduzioni è una cosa, la verità degli enunciati è un’altra. …e di contro ci sono altri che di solito sono a conoscenza di enunciati veri, ma a torto hanno cattiva stima di sé perché non conoscono le regole del ragionamento. È invece migliore colui che sa che c’è la resurrezione dei morti, che non colui il quale sa che è conclusione corretta dire: “se non c’è la resurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto”. Questo è un blasfemo, eretico, quindi, va bruciato e il problema scompare. A pag. 153. Così la scienza del definire dividere e ripartire, benché molto spesso ne facciamo uso anche per argomenti falsi, di per sé non è né falsa né è stata istituita dagli uomini, ma di essa si è presa conoscenza nell’ordinamento razionale della realtà. E chi ha ordinato razionalmente la realtà? Anche se è vero che i poeti se ne servono per le loro finzioni e i falsi filosofi, come anche gli eretici, cioè i falsi cristiani, per i loro errori, non per questo è falso affermare che nel definire dividere e ripartire non si deve comprendere ciò che non riguarda l’argomento e invece non si deve tralasciare ciò che lo riguarda. Questa affermazione è vera, anche se non è vero ciò che definiamo e ripartiamo. Definiamo così proprio il falso, quando diciamo che il falso consiste nel dire di una cosa ciò che non è così come viene detto o comunque in altro modo: anche se il falso non può essere vero, però questa definizione di falso è vera. Il falso non può essere vero, ma la sua definizione sì. E se noi mostrassimo che il falso è vero? Il vero è sempre la stessa questione dell’uno e dei molti. Se la si sa giocare bene risolve tutti i problemi e fa cadere in contraddizione chiunque. Come so che qualcosa è vero? Attraverso le sue determinazioni. Ma queste determinazioni sono altro da ciò che determino. Quindi, c’è il vero e le sue determinazioni, che sono altro dal vero, ma se sono altro dal vero sono false. Abbiamo dimostrato che il vero è falso. A pag. 155. Perciò definizione e divisione di ciò che è falso possono essere quanto mai vere, anche se il falso non può mai essere vero. Che è lo stesso che dire che il Padre non potrà mai essere il Figlio, cosa che a lui interessava molto di più del vero o falso.