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1 agosto 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

C’è una questione che riguarda ciò che stiamo facendo e che riguarda la metafisica, la volontà di potenza, il linguaggio e il suo funzionamento. Parlando ciascuno utilizza un sistema inferenziale, ovviamente. Questo gli serve per affermare delle cose, per concludere cose, in definitiva, per parlare, e cioè qualunque cosa si pensi, si dica, si affermi, ecc., è un prodotto di questo sistema inferenziale. Ma chi si è accorto e soprattutto ha tenuto conto di una cosa del genere, con tutte le implicazioni che una cosa del genere comporta? Da quanto ne so, nessuno. Ciascuno ha pensato che il sistema inferenziale c’è, si pensa, si parla, si discute, si affermano cose, ma tutte queste cose sono possibili perché c’è questo sistema inferenziale, cioè, c’è il linguaggio, in definitiva. Il linguaggio è anche questo, un sistema inferenziale, che funziona, sì, come sistema inferenziale ma ha bisogno di dire che cosa sono quelle cose che sta affermando, ed ecco la metafisica. La metafisica non è altro che il modo in cui si approccia l’ente, in cui si incontra l’ente. Per Kant non si incontra mai l’ente in quanto tale ma lo si incontra sempre e comunque attraverso modelli di pensiero, degli schemi di pensiero. Infatti, c’è la famosa frase di Kant: la cosa in sé, ammesso che ci sia, non è raggiungibile. Invece, che cosa si raggiunge? Si raggiunge un modo di pensare, si raggiungono rappresentazioni, si raggiunge il linguaggio, perché queste cose sono linguaggio. Come dire che tutto ciò con cui si ha a che fare sono significanti, i quali sono sempre debitori di trascendenza, di qualcosa che li trascende. Che cosa li trascende? Ovviamente, l’essere per Heidegger, ma questo essere non è altro che la storicità, il fatto che il significante interviene in un certo momento, in un certo progetto, con una certa intenzione, ecc., che rendono quel significante e, quindi, quell’ente, l’ente in quanto ente, in quanto tale, mostra così come appare. A questo punto, la questione interessante è che quando il sistema inferenziale afferma qualche cosa ciò che afferma sono evidentemente significanti, quindi, gli enti, qualunque ente di cui si tratti, non sono altro che dei significanti, perché non c’è niente dietro al significante che lo garantisca. Certo, c’è l’essere che dà all’ente la sua enticità ma questo essere è la storicità in cui l’ente accade. È una questione interessante che consente anche di pensare a questo punto la metafisica come il modo in cui un significante si arresta su un significato per poter essere un utilizzabile. Heidegger si chiede, così come anche in questo testo, quali sono le condizioni di pensabilità della metafisica, da dove arriva il pensiero della metafisica. Arriva dal fatto che, per affermare qualche cosa, questo qualche cosa devo pensarlo essere quello che è, non arriva da altro. Sono costretto dal linguaggio stesso a utilizzare la metafisica. La metafisica viene dalla necessità che ciò che voglio utilizzare sia quella cosa lì e non un’altra. La condizione di pensabilità della metafisica risiede proprio in questo, nel fatto che tutto ciò che io mi trovo ad affermare deve necessariamente vincolare – Heidegger usava questi termini: incantare e incatenare – incatenare delle cose, ma che cosa incatena? In fondo, il concetto, e la metafisica non è altro che la concettualizzazione, l’universalizzazione di qualche cosa, prende, anche platonicamente, tutti gli enti che incontra e trae poi un essere che è ciò di cui tutti gli enti partecipano: c’è il cavallo e poi c’è l’idea di cavallo, che partecipa di tutti i cavalli pensabili. Quindi, questo concetto universale racchiude in sé, vincola in sé, tutti gli altri aspetti particolari, cioè, tutti i significanti possibili. Questa operazione è resa possibile dal fatto che c’è la necessità di fermare un qualche cosa per poterlo utilizzare. Se il cavallo non avesse un riferimento a un qualche cosa che è presente in tutti i cavalli, il cavallo non mi direbbe niente, non saprei nulla di lui; invece, posso utilizzarlo, cioè il significante diventa utilizzabile se è pensato concettualmente, come concetto. La metafisica è fondamentalmente questo. Il che ci porta a considerare la cosa in termini più ampi, e cioè che qualunque discorso, tutti i discorsi, quando parlano di cose, in realtà, si riferiscono, e non possono non riferirsi, che a significanti, ma questi significanti sono tali perché hanno un significato, sennò senza significato, sappiamo, non c’è nessun significante. Questo significato non è altro che la sua storicità, come direbbe Heidegger. Questo consente di approcciare le cose in modo più preciso, più articolato. Certo, si tratta a questo punto di riflettere meglio su tutto ciò, cioè, su come funziona questo aspetto del dire assertivo, se asserisce qualche cosa, a che scopo lo fa? Beh, intanto per poter asserire altro, quindi, per la volontà di potenza; però, se asserisce qualche cosa è perché c’è questa possibilità, che non è altro che la metafisica, di concettualizzare qualcosa, cioè, storicizzarlo. Questo comporta anche il fatto che tutte le affermazioni che si fanno sono storiche, comprese quelle scientifiche. Anche un esperimento scientifico non è esente da storicità; un esperimento è fatto in un certo modo perché ci sono certe condizioni che si sono sviluppate nei secoli e che comportano un modo di pensare, ecc. Ogni affermazione, ogni pensiero, quindi, ogni modo di pensare è necessariamente storico, cioè, dietro a queste cose che dico c’è la storicità di queste parole che sto utilizzando. Ora, mi chiedevo quale altro testo avesse affrontato abbastanza radicalmente una questione del genere e mi è venuto in mente La struttura originaria di Severino, dove per buona parte affronta la questione, certo, con un linguaggio filosofico, però, a noi non interessa questo perché sappiamo che quando si parla dell’essere, che dà all’ente la sua enticità, stiamo parlando del significato del significante, di ciò che rende il significante quello che è, e cioè un utilizzabile, utilizzabile appunto perché ha un significato, perché è storico. Tutto questo per aggiungere qualcosa a quanto stiamo facendo, in questo progetto. Quindi, la metafisica e il sistema inferenziale. Il sistema inferenziale, che è poi quello che utilizza la logica… avevamo letto a suo tempo I principi metafisici della logica di Heidegger, dove conclude che di fatto la logica muove da pre-supposizioni. È sempre lì la questione: che quella cosa sia quella che è, per virtù propria, e che, quindi, non menta. Il sistema inferenziale, per quanto possa utilizzarsi correttamente, di fatto non giunge a nulla di vero, di valido, di corretto, ecc., e questo già Wittgenstein lo aveva notato: non sappiamo niente dopo che abbiamo trovato un teorema, se non che abbiamo seguito, come dio comanda, le regole che noi stessi abbiamo poste. Quindi, l’argomentazione non porta a niente, qualunque argomentazione è sempre retorica, cioè punta a muovere stati d’animo, che per Heidegger sono importanti, non c’è argomentazione che non sia accompagnata da uno stato d’animo, e questo stato d’animo non è indifferente rispetto al modo in cui si muove, si dirige l’argomentazione. Sono quelle cose che Freud chiamava fantasie. Qualunque argomentazione è fatta in questo modo, cioè, non può dire come stanno le cose, non si può affermare nulla intorno a un reale, che non c’è, se non sotto forma di significanti che rinviano ad altri significanti. Non sto dicendo nulla di nuovo per noi, però tutto questo può sottolineare di più la questione dell’argomentare. A questo punto, a che cosa serve l’argomentare? Serve alla volontà di potenza: ogni volta che un’argomentazione conclude in modo vero ha trovato qualche cosa che può utilizzare per dominare qualcos’altro. L’argomentazione è una modalità di dominio, una forma della volontà di potenza. Serve a questo, a niente altro che questo: ad avere potere sulle cose. Se si esclude la possibilità che l’argomentazione corretta giunga a dire qualcosa di vero, di valido, ecc., che cosa fa? Dà l’idea a sé o, eventualmente, ad altri, di possedere un’abilità da utilizzare per qualche cosa. Verità qui utilizzata proprio nel senso di veritas, come dominio da imporre. Questo per dire un po’ qual è l’orientamento a questo punto del nostro pensare. Come sapete, la scienza non pensa, la scienza indaga; la filosofia, e più ancora la psicoanalisi, dovrebbe pensare, non indagare ma pensare le condizioni di indagabilità di qualche cosa. Sì, tu indaghi e trovi delle cose, ma a quali condizioni le trovi? Che cosa trovi propriamente, se non ciò che già preventivamente in qualche modo hai costruito, hai immaginato? Perché è questo che trovi. Detto questo, possiamo procedere. Non abbiamo ancora tantissimo ma è impegnativo ciò che qui dice Heidegger. Ricordate che parlava del λόγος άποφαντικός, della parola che mostra. A pag. 411. Se dunque ogni asserzione è mostrare l’ente secondo ciò che è, e come esso è, in tale discorso assertorio è in qualche modo sempre e necessariamente insito il discorso dell’essere dell’ente – sia esso esser-ora, esser-stato o essere-in-futuro. Che nell’asserzione si discorra dell’ente nel suo essere, si manifesta linguisticamente nell’“è”. Ma anche dove questo manca – la lavagna sta in una posizione sfavorevole, l’uccello vola via - ῤᾕμα (verbum) non soltanto è sempre in una forma temporale, bensì con tale forma temporale viene già di fatto sottinteso anche il rispettivo essere-nel-tempo di ciò di cui si discorre. Qui Heidegger riprende ciò che dicevo prima: ogni asserzione mostra l’ente per come si mostra. Però, si mostra in quanto essere qualche cosa, è la “è” che ci dice che cos’è quest’ente – ricordate, a è b – quindi, è la forma grammaticale per indicare che l’ente ha sempre necessità dell’essere, cioè della sua storicità, perché l’essere dell’ente, ciò che dà all’ente la sua enticità, è la sua storicità. Quando Heidegger parla del tempo indica questo: la sua storicità vuol dire che questo è questo, adesso. A pag. 412. Nell’asserzione non si discorre – comunemente – sull’essere, e tuttavia dell’essere, dell’ente come è, dell’ente nel suo essere. I Greci lo esprimono comunemente come segue. Nell’asserzione si discorre degli ǒντα ώς ǒντα, dell’ente come di volta in volta è in quanto ente, dell’ente in relazione con se stesso. Per il momento lo diciamo volutamente in modo ambiguo: si discorre dell’ente in quanto ente. Ma al tempo stesso Aristotele in un contesto metafisico, parla di una considerazione che mira all’ǒν ǒν, il che posiamo nuovamente esprimere in senso formale con: ente in quanto ente. Significano la stessa cosa ma, mentre la prima indica l’ente come ente adesso, l’altra indica l’ente in quanto ente. Nel primo caso sono diretto all’ente stesso: mi soffermo sulle sue caratteristiche. Nel secondo caso invece, se osservo l’ente nella misura in cui è un ente, non analizzo le sue qualità, bensì lo prendo, nella misura in cui è, guardando al fatto che è determinato dal suo essere. A pag. 413. È già risultato, in senso generale, che il λόγος, in senso esteso, come discorso e linguaggio, come qualcosa che distingue l’uomo, ha a che fare col mondo, se è vero che la formazione di mondo è egualmente distintiva per l’uomo, o addirittura che essa cela in sé la possibilità del linguaggio. Il mondo non è la possibilità di linguaggio, il mondo è linguaggio. Dov’è mondo, lì è un rapportarsi all’ente in quanto ente. Dove l’ente è manifesto in tal modo, lì si può trattare di esso in quanto ciò che è, non è, è stato, sarà. Dell’ente è dicibile in una singolare molteplicità qualcosa come l’essere. Proprio questo, che nel λόγος, nel linguaggio e quindi all’interno della formazione di mondo dell’uomo sia dicibile l’essere, è quello che l’asserzione semplice porta ad espressione nell’“è”. A partire da qui si comprende perché l’asserzione, proprio perché porta in fronte l’“è”, abbia potuto acquisire un’importanza centrale per la metafisica, che si interroga appunto intorno all’essere. Proprio per questo, perché il λόγος, caratterizzato da questo “è”, sembra avere un’importanza metafisica centrale… Che è un altro modo per dire ciò che diceva prima. Parlando non si fa altro che affermare che “questo è questo”, “questo è quest’altro”, dove questa “è” è l’“in quanto”: questa cosa è in quanto quest’altra. La “è” è questo, e cioè dice che è così che si utilizza. È necessario chiedersi e porre in chiaro se l’asserzione, poiché in essa l’“è” e l’essere vengono in luce così scopertamente, possa aspirare al ruolo di guida nella questione intorno all’essere, intorno all’essenza del mondo, ecc., o se viceversa non sia necessario vedere che questa palesata forma dell’essere, dell’“è”, contiene, sì, legittimamente e necessariamente, l’essere in quanto manifesto, ma questa manifestatività non è quella originaria. In breve, la metafisica si decide sulla base della posizione che assume rispetto al problema della copula, del modo e della maniera in cui questa viene trattata e collocata nel tutto. Cioè, nel modo in cui si affronta la questione dell’“è” parlando: questo è quello, quello è quest’altro, ecc. Se si pone la questione di questo “è” come un problema, ecco che allora ci si accosta alla metafisica. L’“in quanto”: una cosa in quanto quest’altra; cioè, io colgo l’“è” dell’affermazione come l’“in quanto”, questo in quanto quest’altro, cioè do a questo una sua forma, una sua determinazione. Sappiamo che da Aristotele in poi la metafisica ha orientato il problema dell’essere all’“è” della proposizione, e che noi ci troviamo dinanzi al compito immane di scardinare questa tradizione, il che significa al tempo stesso renderla manifesta nella sua limitata legittimità. Da ciò si può desumere la grandissima importanza di questo problema apparentemente specifico della questione intorno al significato dell’“è” nella proposizione. A pag. 414. Nella mera nominazione non passo dall’uno all’altro, il pensiero si trattiene presso qualcosa e si ferma lì, intende la cosa stessa che viene nominata. Il pensiero non scorre attraverso. In modo corrispondente, colui che ode tali parole si arresta, riposa presso ciò che viene nominato, non procede verso un altro nella maniera del procedere dell’“a è b”. Quindi le denominazioni, prese per sé, sono non già senza significato, eppure non danno ancora a significare, non intendono ancora, che il nominato, il “volare”, è oppure non è. Le parole, usate in queste nominazioni, non dicono di qualcosa che è in volo o vola. Cos’è ciò che ancora manca, se il verbo viene usato nella mera forma nominale, un po’ come nome e sostantivo: “volare come un uccello” a differenza di “è in volo”? Cosa viene inteso con questo “è”, che si manifesta o può venir espresso nella forma del verbo? Aristotele dice anzitutto, dal punto di vista negativo: l’εναι e il μή εναι, questo essere e non-essere, non intendono affatto πράγμα, un ente che è così e così, una cosa, neppure se dici e nomini per sé proprio soltanto l’esser-ente in se stesso. L’essere in se stesso infatti è nulla. È importante questa ultima affermazione: L’essere in se stesso infatti è nulla, cioè, l’essere senza ente. Se l’essere non avesse un ente, questa storicità, questo esser-ci, non ci sarebbe; ha bisogno di un ente, di un πράγμα, di una cosa, in altri termini, di un significante. A pag. 415. Da questa interpretazione di Aristotele, breve ma fondamentale, del significato dell’essere in quanto “è” desumiamo tre elementi: 1. Il significato-guida dell’“è” è il significare-in-aggiunta. Non è un significare autonomo, come il nominare qualcosa: nella funzione semantica in quanto tale il significato dell’essere e dell’“è” è già riferito a ciò che è. Se dico che questa è quest’altra, questa cosa è già riferita a quell’altra. Poi dice una cosa importante: L’“è” non significa πράγμα, non significa una cosa. Vi ricordate che lui poneva l’“è”, l’“in quanto”, come una relazione, anche se non è solo una relazione ma è anche una relazione, mette una cosa in connessione con un’altra, ma non è una cosa. A pag. 418. L’“è” ha la funzione del legame. Perciò si chiama copula. Questa denominazione dell’“in quanto” come copula non è l’innocente conferimento di un nome, bensì una interpretazione determinata del medesimo, e ciò in direzione della funzione della parola nella struttura proposizionale. Non ci si chiede a tutta prima che cosa significhino questo “è” e questo essere; ci si interroga intorno al significato dell’“è” nel senso: quale funzione ha l’“è”, come stanno le cose riguardo ad esso nella struttura proposizionale? Se si prende la proposizione assertoria in questo modo, come struttura linguistica che incontriamo, l’“è” si mostra in effetti come copula. Ma se Aristotele e Kant dicono che l’εναι e l’“è” sono σύνθεσις e concetto di collegamento, qui abbiamo dinanzi a noi più che una definizione dell’“è” riguardo al suo posto come parola nella struttura linguistica della proposizione. “Di più” – eppure, se viene inteso come “collegamento”, è anche con-indirizzato alla funzione linguistica della parola. “È”, così come essere, significano allora collegamento, “è” significa: qualcosa è collegato con, sta in collegamento con. Se ripetiamo la proposizione: la lavagna è nera, secondo questa interpretazione dovremmo intendere: lavagna e nero stanno in un collegamento. L’esser-nera della lavagna vuol dire un collegamento di “nero” con “lavagna”. Questo sembra in effetti abbastanza semplice: questa “è” mette in collegamento il significante con l’essere, cioè, con la sua storicità. Tenete sempre presente he in Heidegger l’essere è la storicità. Quindi, questo significante è sempre quello che è in vista della sua storicità, preso nella sua storicità, cioè, è quello che è sempre in vista di qualche cos’altro. A pag. 422. Ma ritorniamo al nostro esempio: la lavagna è nera. L’“è” esprime e indica l’esser-così e così della lavagna, ma non di una lavagna qualunque, magari di una lavagna che mi sto or ora rappresentando nella fantasia, ma che non sussiste davanti a me, e neppure di una lavagna che forse un giorno era presente da qualche parte e ora non lo è più, bensì: la lavagna che sussiste proprio qui e ora “è” nera. L’“è” nella proposizione non indica soltanto l’esser-fatto-così o così di qualcosa, bensì anche l’esser-fatto, l’esser-così-e-così sussistente della lavagna, cioè: questa lavagna sussistente è sussistente come nera. Questo “è”, che noi diciamo, ha a che fare sempre con un “è” che è vincolato al tempo, è questo che sta dicendo; infatti, dice, io mi sto riferendo a questa lavagna che vedo in questo momento. Quindi, quando dico che la lavagna è nera, mi sto riferendo a questa lavagna qui, non a una lavagna ideale. Questo per aggiungere ancora una volta il fatto che questo essere è sempre storico; quando dico che qualcosa è qualche cos’altro, questo “è” connette un elemento con il suo essere. E, infatti, si chiede: che cos’è? Che cos’è una certa cosa? È questa qui. Vale a dire, la “è” connette questa cosa con l’essere, con ciò che è, ma questo essere è sempre vincolato al tempo, è sempre vincolato alla situazione. Anzi, si potrebbe dire: in questa frase si vuol dire: la lavagna è nera e non rossa. Dipende soltanto da “come è fatta”. Tuttavia, proprio in una possibile disputa sul “come è fatta”, diviene chiaro che, per risolvere la questione, risaliamo a questa lavagna sussistente in quanto tale, a ciò che è sussistente in essa. In altre parole, nell’asserzione “la lavagna è nera” siamo già da sempre risaliti ad essa in quanto a questa lavagna sussistente, e intendiamo il suo esser-fatta come un esser-fatta-sussistente. Che sta qui, adesso. A pag. 426. Fornisco nuovamente e in breve una caratterizzazione dello sviluppo del problema del mondo che abbiamo compiuto finora: mondo è la manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità. Ci interroghiamo intorno all’“in quanto” per penetrare a partire da esso nel fenomeno del mondo. L’“in quanto” è un tratto caratteristico di ciò per cui l’esser-ci umano è aperto… In effetti, questa “è”, questo “in quanto”, è l’apertura. È vero che collega ma, collegando, apre qualcosa a qualche cos’altro. …a differenza dell’essere-aperto per… nell’animale. In quest’ultimo l’essere-aperto per…è l’essere-assorbito da… nello stordimento. Questo “in quanto” appartiene a un correlare. La dimensione e il tipo di questa relazione sono oscuri. Eppure l’“in quanto” sta in una connessione con l’asserzione. Infatti, con l’“in quanto” sto asserendo qualcosa. Per esempio, Cesare, in quanto italiano, ha diritto di voto in Italia. Pertanto abbiamo tentato, mediante un’interpretazione di questa asserzione, di chiarire come l’“in quanto” appartenga alla struttura proposizionale. Come ci sta questo “in quanto” dentro la proposizione? L’interpretazione dell’asserzione, compiuta ricollegandoci ad Aristotele, ha avuto per esito: tutte le strutture essenziali – κατάφασις, άποφανσις, άληθεΰειν, ψεύδεσθαι (Κατάφασις sarebbe l’affermazione, l’άποφασις è la negazione, άληθεΰειν è il veritiero, ψεύδεσθαι il menzognero) – vengono ricondotte a σύνθεσις e διαίρεσις (sintesi e separazione). Se io affermo che una cosa non è quella cosa, quella cosa che non è comunque in qualche modo è presente, deve essere presente perché possa dire che non è quella cosa. Presumibilmente è qui a relazione che è propria dell’“in quanto”. Ma l’asserzione, così come la κατάφασις e l’άποφανσις, è sempre asserzione su… λόγος τινός (Platone) (dire su qualcosa). Ciò a cui l’άποφανσις, nella sua forma, si riferisce, è l’ente. Che cosa è vero o falso? È un qualche cosa, è un ente, una proposizione, un’asserzione. Secondo Aristotele anche qui è presente una σύνθεσις. Di conseguenza anche l’“essere” e la sua molteplicità sono fondati come l’“in quanto”, in queste enigmatiche σύνθεσις e διαίρεσις. Forse avete già inteso come questo “in quanto”, questo essere, questo “è”, copula, è fatta di sintesi e disgiunzione. Per congiungere delle cose queste cose devono essere disgiunte, sennò cosa congiungo? È molto più semplice di quanto sembri, in realtà. O, in termini più prudenti, l’“essere” e l’“in quanto” rimandano alla medesima origine. O in altre parole la chiarificazione dell’essenza dell’“in quanto” si accompagna alla questione intorno all’essenza dell’“è”, dell’essere. Entrambi le questioni servono allo sviluppo del problema del mondo. Ciò può venir chiarito già ora a partire dall’analisi formale provvisoria del concetto di mondo: manifestatività dell’ente in quanto tale. Ciò vuol dire manifestatività dell’ente in quanto ente, cioè in relazione al suo essere. È così che mi si manifesta l’ente in quanto ente, sennò sarei stordito, come l’animale. L’“in quanto”, ovvero la relazione che lo sorregge e gli dà forma, rende possibile il guardare a qualcosa come l’essere. L’ente si manifesta in quanto ente; quindi, l‘ente è l’ente, c’è una “è” che apre alla questione dell’essere. È come se fosse l’orizzonte, l’apertura, questa apertura è quella che consente di congiungere nella proposizione “l’ente è l’ente”, di congiungere il primo ente al secondo ente. Quindi, la “è” li congiunge ma, congiungendoli, cosa fa? Fa questa operazione: dice che cos’è il primo, e il primo è il secondo, l’ente è l’ente. La questione di come stanno le cose riguardo all’essere non può venir posta senza la questione intorno all’essenza dell’“in quanto”, e viceversa. Si può capire, perché è l’“in quanto” che ci dice che cosa qualche cosa è: una cosa in quanto questo o quell’altro. Quindi, questa copula, questo “in quanto” è ciò che in effetti ci mostra l’essere, anche se non è propriamente l’essere, però ci mostra che questa cosa in quanto quest’altra è quest’altra, ma è quest’altra come? È quest’altra qui e adesso, rispetto a una storicità, perché questo è l’essere. Quando io dico che questo è questo, c’è questa “è” che unisce i due e rende possibile l’“in quanto”: questo in quanto questo. Che cosa vuol dire? Vuole dire che il secondo è l’essere del primo, ma questo essere non è altro che la storicità, questo altro ente non ci sarebbe senza la storicità che lo fa essere quello che è. Il compito dell’essere è questo: fare essere l’ente per quello che è, cioè storico, perché l’ente è quello che è in quanto storico. A pag. 428. Eppure – possiamo ancora interrogarci retrospettivamente risalendo all’asserzione? Questo non è un qualcosa di ultimo? Quello che stiamo trovando, questa struttura, non è qualcosa di ultimo nel funzionamento del linguaggio? Ma d’atro canto abbiamo parlato di componenti del λόγοςǒνομα, ήμα, le cosiddette parti del discorso. Quindi il λόγος può venir risolto in queste parti del discorso: soggetto, predicato, copula. … cosicché anche il legame resta sospeso, e non può essere ciò che è, vincolante. Anche secondo Aristotele, ciò che vincola ha significato solamente se è riferibile a συγκείμενα (un qualcosa che mette insieme). Ma noi non ci interroghiamo intorno a singole parti del λόγος, bensì intorno al fondamento della possibilità dell’intero λόγος in quanto tale, e questo seguendo il filo conduttore dell’“è”, dunque nella totalità della struttura del λόγος. Questo è interessante perché, dice, ciò che a noi interessa è il fondamento della possibilità di parlare. A quali condizioni noi possiamo parlare? Per intendere allora qual è la condizione del funzionamento del linguaggio parte da questo “è” che dice che cos’è qualche cosa, ed è la metafisica a dire che cos’è questo. A pag. 429. Pertanto ci chiediamo: dove si trova il λόγος in generale? Dov’è il linguaggio? Dobbiamo dire: esso è una condotta essenziale dell’uomo. dobbiamo quindi apprendere il fondamento dell’intima possibilità del λόγος, a partire dall’essenza nascosta dell’uomo. Da ciò che l’uomo è. Naturalmente, l’uomo è un parlante, quindi, è λόγος. Ma, anche in questo caso, non già procurandoci da qualche parte una definizione dell’essenza dell’uomo e applicandola, bensì, viceversa, facendoci, proprio a partire dalla struttura del λόγος rettamente compresa e ritornando al fondamento della sua possibilità, da essa mostrato, come stiano le cose in relazione all’essenza dell’uomo. Questa è la questione: come stanno le cose in relazione all’essenza dell’uomo, cioè all’essenza di quell’ente che si interroga intorno all’essere. Se può domandare è perché, evidentemente, è nel λόγος, più propriamente, è λόγος.