1 gennaio 2025
Proclo Commento al Cratilo di Platone
Intervento: …
Anche Hegel non esce da questa posizione neoplatonica, anche se la mette quantomeno a tema, la problematizza. Però, il punto è che Hegel ha tripartito la questione: tesi, antitesi e sintesi. Ora, questa tripartizione si è sempre posta: dal neoplatonismo, con le tre ipostasi, attraverso poi Hegel fino a Peirce, Primità, Secondità e Terzità, e ancora con Verdiglione, in fondo. La tripartizione mantiene due elementi separati. Perché se ci accordassimo, così come facciamo, con Aristotele, che ciascun elemento è anche l’altro, allora non c’è un terzo elemento. Sì, lui pone l’entelechia, ma l’entelechia, come dice l’etimo stesso che ha rilevato Heidegger, è l’essere insieme di queste due cose verso l’unico scopo che è l’integrazione, ma l’entelechia non è un terzo elemento. Non c’è la δύναμις, l’ἐνέργεια e poi un terzo elemento, έντελέχειᾳ. L’entelechia non è una terza cosa, è la relazione tra i due. È questo che si è mantenuto, questa tripartizione, che è poi quella di Plotino: Uno, Intelletto e Anima. Dopo: Padre, Figlio e Spirito. Quest’anno lavoreremo a partire da Proclo perché lui ci mostra una direzione interessante. Mercoledì scorso ho fatto un cenno alla questione, ma è importante, non basta un cenno, ce ne vogliono almeno due: la questione dell’inferenza. L’inferenza è quella cosa che consente a ciascuno parlando di trarre qualunque conclusione, quindi, farsi un’idea, come si suol dire. Senza inferenze non è possibile farsi un’idea, l’inferenza è quella che conclude: se questo e quest’altro, allora quest’altro ancora. La questione si era posta già con Aristotele, sulla legittimità di questi passaggi dall’antecedente al conseguente. Chi autorizza questo passaggio? Le ipostasi, le ipostasi di Plotino. E Proclo insiste su questo aspetto, e cioè: il conseguente segue l’antecedente esattamente come l’Intelletto segue all’Uno, per processione. Non c’è un modo di stabilire, di dimostrare la consequenzialità, è una processione dall’antecedente al conseguente. Già in Plotino, come ricorderete, sia l’intelletto che l’anima mantengono una traccia dell’Uno, cioè della verità, dalla quale si sono allontanati e alla quale vogliono ritornare. Quindi, la nozione di inferenza pare procedere direttamente dalle ipostasi, che risolvono il problema che Aristotele aveva incontrato e che aveva notato essere senza soluzione, cioè, non c’è qualcosa che garantisca un passaggio, c’è solo la mia decisione e basta. In questo caso no, con Plotino, ma poi in Proclo la cosa è molto evidente, il conseguente segue naturalmente l’antecedente perché conserva qualcosa dell’antecedente, così come l’intelletto conserva qualcosa dell’Uno. È questo che garantisce della validità, della veridicità dell’inferenza, perché altrimenti sarebbe inutilizzabile, se non all’interno di un gioco, ma di sicuro non potrebbe porre nulla di epistemico. Questa è una questione importante, perché tutto il pensiero, da Proclo o da Giamblico, che Proclo chiamava il divino Giamblico, da allora in poi si è dato per acquisito che l’Inferenza consenta di giungere alla verità e, come dice qui Proclo, se è vero l’antecedente è vero il conseguente. Il che potrebbe apparire una follia. Ma perché lo dice? Perché, per lui, se è vero l’antecedente, e il conseguente è qualcosa che procede per processione dall’antecedente, allora è necessariamente vero il conseguente.
Intervento: Quindi, hanno creato la logica come un’analogia delle ipostasi.
Sì, perché nella logica formale attuale una inferenza del genere - se è vero l’antecedente è vero il conseguente - non è consentita, cioè, nell’inferenza ”se oggi è il primo di gennaio allora questo tavolo è di zucchero” la prima è vera, la seconda no. Però, anche in questo caso la logica formale si limita appunto a una forma, a una forma di proposizione, ma non dà un senso propriamente. Da qui la distinzione che fa la logica tra proposizioni valide e proposizioni corrette: sono valide quelle che formalmente sono vere, cioè, seguono il criterio stabilito di verità, per esempio, quello dell’implicazione. L’implicazione è quella formula che è sempre vera tranne nel caso in cui l’antecedente sia vero e il conseguente sia falso: è l’unico caso in cui l’implicazione è falsa. Però, tutto questo non significa niente, perché poi queste cose devono essere utilizzate e, quindi, bisogna fornirgli un senso, e allora cominciano i problemi. In fondo, è quello che ha incontrato anche Aristotele: finché si trattava di compilare un programma, che problema c’è? Tutto funziona. È quando comincio a farlo girare e significare queste cose che incontro dei problemi serissimi. Quindi, tu dici dell’analogia. Sì, è vero, perché lo stesso Proclo parla di analogia, della divina analogia, che è quella che consente di stabilire le cose a partire da una verità, che è quella di Dio, naturalmente. E, infatti, qui cosa ci dice? Qui Proclo sta ancora considerando i tre personaggi del Cratilo: Ermogene, Cratilo e Socrate. Punto 33. Con tre argomentazioni Socrate confuta la tesi di Ermogene:…, Ermogene sosteneva che le parole sono simboli. …di queste la prima mette in imbarazzante difficoltà, la seconda è stringente, la terza infine è causa della più perfetta persuasione. E la prima argomentazione è la seguente: se i nomi sono per convenzione, sia il privato cittadino sia la città avranno allo stesso modo pieno potere sulla denominazione delle cose, e le cose verranno denominate ora in un modo ora in un altro e verranno scambiate l’una con l’altra in modo molto confuso poiché il nome di ciascuna di esse singolarmente prese è indefinito in quanto risultato di una scelta casuale e priva di scienza, e prodotto di mera opinione. Ma la conseguenza non è vera; quindi non è vera neppure la premessa. Questa sarebbe quella figura logica che si chiama modus tollens (se A allora B, ma non-B, quindi non-A). Qui l’argomentazione è assolutamente ridicola perché non si rende conto che, dicendo che i nomi sono simboli, dice anche che questi simboli non è che sono il mio simbolo privato ma sono simboli riconosciuti da tutti, per cui possiamo utilizzarli. Insomma, sono un utilizzabile, direbbe Heidegger. Quindi, la critica fatta qui precipita nel nulla. Poi, la critica di Aristotele al punto 36. Una cosa è ciò che la verità del discorso assertivo in Aristotele intende mostrare, mentre un’altra è la verità di cui Platone parla ora: in base ad essa, egli afferma, anche i nomi considerati in se stessi sono veri. In effetti la verità di Aristotele afferma che sono la congiunzione e la separazione del predicato e del soggetto che hanno il carattere della falsità o quello della verità. Invece il grande Platone sa come servirsi del significato di verità e di falsità in quattro modi: o in considerazione dell’esistenza stessa delle cose, come quando afferma che le cose che sono realmente sono veramente, mentre quelle che non sono realmente afferma che sono in modo falso;… Senza precisare in cosa questo “realmente” consista. È interessante notare qui, tra l’altro, di passaggio, le critiche che rivolge, per esempio, in questo caso ad Aristotele, come siano false, perché non è che Aristotele non sapesse usare il significato di vero o di falso, è che è andato un pochino oltre. Poi, Antistene, punto 37. Antistene sosteneva che non bisogna contraddire: infatti ogni discorso, egli afferma, esprime il vero; infatti chi dice, dice qualcosa; ma chi dice qualcosa, dice ciò che è; ma chi dice ciò che è, esprime il vero. Dunque contro di lui si deve dire che anche il falso è, e nulla impedisce che chi dice ciò che è, dica il falso; ed inoltre colui che dice, dice di qualcosa, e non dice qualcosa. Poi, se la prende anche con Protagora. Punto 38. L’argomentazione contro Protagora è la seguente: se le cose sono tali quali appaiono a ciascuno, non vi saranno fra gli uomini, da un lato, i saggi e, dall’altro, gli stolti; ma certamente la conseguenza non è vera; quindi neppure la premessa. Punto 41. Una cosa è la dottrina di Protagora e un’altra quella di Eutidemo. La prima, infatti, afferma che non esiste alcun oggetto che sia sostanziale, ma esso è in chi percepisce il prodotto di questa o quella rappresentazione attraverso la commistione di agente e paziente. Invece la dottrina di Eutidemo fa di ciascuna cosa insieme e sempre la totalità delle cose, e sostiene che ogni affermazione dice il vero, come per esempio chi afferma che il legno è chiaro e scuro, piccolo e grande, secco e umido, e che al contempo le negazioni di tali affermazioni dicono tutte il vero. Dunque questi sofisti, pur prendendo le mosse da principi diversi, giungono alla medesima conclusione. Che cosa dicono questi due sofisti? Dicono che l’uno e i molti sono lo stesso. Punto 46, Giustezza dei nomi per natura. Bisogna tenere sempre presente che l’intendimento di Proclo è di confortare e confermare la tesi di Platone per cui ciascun nome dice la cosa e la dice non perché proviene dalla cosa ma perché c’è l’idea che garantisce la giustezza del nome.
Ci si proponga <a questo punto> di mostrare che il nome corretto è venuto ad avere la sua correttezza per natura e non per convenzione; per prima cosa si deve dire così: se il denominare, essendo conforme alla natura originaria delle cose, è corretto, il nome viene ad avere per natura la sua correttezza; ma certamente la premessa è vera; e quindi lo è anche la conseguenza. Un secondo argomento è quello che analizza la <precedente> premessa minore: se il dire possiede il carattere della correttezza in virtù delle cose, anche il denominare, essendo conforme alla natura originaria delle cose, è corretto; ma certamente la premessa è vera; e quindi lo è anche la conseguenza. In questa modalità, che si ripete continuamente - la premessa è vera, dunque, è vera anche la conseguenza -, come vi dicevo prima, è resa possibile dalle ipostasi, dalla processione dell’Uno all’intelletto e all’anima. Senza questa processione – appunto l’ipostasi - non è sorretta da niente. Senza questa ipostasi non c’è nulla, né in questo mondo né in altri, che possa garantire questo passaggio. Se è vera la premessa allora è vera la conclusione, come dire: se è vero l’Uno allora è vero anche l’intelletto. Se l’intelletto è falso allora è falso anche l’Uno, ma ciò significa che, dicendo che l’intelletto è falso, sto negando che proceda dall’Uno, cioè dalla verità, e quindi nego tutto e bell’e fatto. Ma se è l’Uno ciò da cui procedono le cose allora tutto ciò che procede dall’Uno conserva in sé qualcosa dell’Uno, cioè, qualcosa della verità. Punto 47. Se i nomi, secondo Aristotele, sono “per convenzione” e simboli delle cose e dei contenuti di pensiero, bisogna poi che i discorsi enunciativi, i quali sono appunto costituiti dai nomi, essendo per convenzione, da quello stesso non vengano detti simili ai contenuti di pensiero articolati, né che essi di per se stessi siano suscettibili di verità o falsità. Ma certamente i discorsi enunciativi, implicando in modo essenziale il dire il falso o il dire il vero, non posseggono questo carattere per convenzione; quindi neppure i nomi sono per convenzione. Non è chiaro qui perché non possono esserlo per convenzione, perché un discorso non può essere vero o falso per convenzione. Invece, qui lo dà come acquisito. Punto 48. Il nome come strumento. Se ogni individuo che denomina compie una determinata azione, e se d’altra parte chi compie un’azione la compie per mezzo di uno strumento, anche colui che denomina, quindi, denominando per mezzo di uno strumento, si serve del nome come di uno strumento. Ma degli strumenti alcuni sono per natura, come una mano, un piede, altri invece sono per una convenzione <stabilita>, come una briglia e appunto il nome (esso, infatti, è tale); di questi strumenti artificiali gli uni sono fatti per far sussistere qualcosa, come la scure, gli altri invece per significare ed istruire. Tale dunque è anche il nome: esso infatti «è uno strumento atto ad insegnare e rivelare l’essenza» delle cose, ed in tale definizione il primo aspetto è ricavato da chi si serve dello strumento, mentre quello rivelativo dal modello. Ora, in quanto strumento richiede chi si serva di esso, mentre in quanto immagine richiede il riferimento al modello. Sicché risulta evidente da tali considerazioni che il nome non è simbolo né opera di una convenzione qualunque, bensì è congenere rispetto alle cose ed appropriato <ad esse> per natura:… No, non è affatto chiaro. Perché dovrebbe essere così, per natura? Non lo spiega. La spiegazione che dà è questa. …infatti ogni strumento [20] risulta coordinato all’opera che gli compete svolgere, e non potrebbe essere adatto a qualche compito diverso da quello per il quale risulta finalizzato. Sicché anche il nome, in quanto è strumento, ha un significato connaturale e perfettamente corrispondente alle cose <da esso> significate, ed in quanto è atto ad insegnare, ha una funzione rivelativa dei contenuti di pensiero, ed in quanto è atto a distinguere l’essenza, induce in noi la conoscenza delle cose. E questa è l’argomentazione desumibile dalla forma del nome, così come quella prima di essa era desunta dal modello, cioè dalle cose. Vedete come interviene anche qui, anche se in questo caso non appare affatto evidente, però, anche in questa semplicissima frase, ogni strumento che è stato coordinato con la sua propria operazione e non potrebbe adattarsi ad altro, se non altro per cui è nato è falsa perché uno strumento può essere utilizzato per moltissime altre cose, ma se lui ha in mente la processione, allora lo strumento segue naturalmente ciò per cui l’Uno lo ha creato, perché procede da lì: non è che io invento il cacciavite e poi lo uso per aprire le lattine, questo è un uso improprio. L’uso giusto è quello che viene da Dio, in fondo, dal demiurgo, dall’Uno, che ha predisposto la cosa in modo che sia in un certo modo. Ma questa predisposizione è appunto, una processione: il manufatto procede dalla mente che lo ha progettato, sono la stessa cosa. Punto 49. Aristotele afferma, che il discorso è significante, non però come strumento, bensì in quanto è per convezione (in effetti – egli afferma – non v’è motivo di stupirsi del fatto che, mentre la voce è per natura, allo stesso modo in cui lo è il movimento del corpo, i nomi invece sono per convenzione, allo stesso modo in cui lo è la danza), e Proclo lo contraddice nel modo seguente: il nome non è il prodotto di organi naturali; in effetti, in quanto nome, ogni nome è significante di qualcosa; infatti non sono la stessa cosa nome e voce; ora, a produrre la voce sono gli organi naturali, come per esempio la lingua, la trachea, i polmoni e simili; dal canto suo il nome dal punto di vista materiale contribuiscono a realizzarlo anche questi organi, ma a produrlo è soprattutto il processo di riflessione dell’impositore dei nomi, processo, appunto, che adatta la materia alla forma e al modello nel modo conveniente. La critica che fa ad Aristotele non c’entra niente, perché anche Aristotele dice che sono due cose diverse. Però, la cosa interessante qui è il l’onomatoteta, il produttore di nomi: la mente, dice, la quale adatta come si conviene la materia alla forma e al modello. All’idea, cioè, l’onomatoteta, colui che dà i nomi, adatta il nome all’idea, che costituisce il modello. Sono tutti questi richiami continui, appena accennati, quasi fra le righe, però sono ininterrotti. E poi dice che se è vera la premessa è vera anche la conclusione… Perché dovrebbe essere così? È così perché lui ha in mente l’ipostasi, che dall’Uno procede all’intelletto e all’anima, per processione. È questa processione che garantisce la validità dell’inferenza. Togliete la processione e l’inferenza non è garantita da niente. Ecco, qui c’è la posizione di Socrate, siamo sempre al punto 49. Ed esso è per natura non nel senso che è prodotto della natura, ed è strumento non nel senso che una determinata facoltà naturale si serve di esso; ma una competenza operativa è sia il suo produttore sia il suo utente. D’altra parte poiché il produttore lo produce guardando alle cose, e l’utilizzatore se ne serve con la finalità di distinguere le cose, è per questo motivo che viene detto “per natura” sia come prodotto sia come strumento. Ed in effetti <il nome> è prodotto come immagine delle cose e le esprime per il tramite dei contenuti di pensiero. C’è sempre l’idea, il nome viene da questa idea, è l’idea che fornisce il nome. L’onomatoteta, il demiurgo, è colui che dà i nomi, ma li dà giusti, perché lui sa, perché lui è Dio. E, quindi, se dà il nome di accendino a questa cosa vuole dire che questo “è” l’accendino, non è che lo abbiamo nominato, ma “è”. Facevo l’esempio mercoledì scorso del tavolo: la mamma dice “questo è il tavolo”. Non dice questa cosa che noi chiamiamo tavolo per convenzione; no, dice “questo è il tavolo”, istituendo così l’ontologia, che poi il bambino si porterà appresso per tutta la vita: le cose sono così, cioè, il modo in cui le cose stanno, sono necessariamente perché questo è il tavolo. Senza sapere assolutamente di cosa sta parlando. Punto 51. Come Socrate nel Gorgia, quando Callicle distingueva concettualmente il giusto secondo legge ed il giusto secondo natura, ha dimostrato che la legge e la natura sono in accordo fra loro a proposito del giusto (ma anche nel Minosse egli fa la stessa cosa), allo stesso modo si deve pensare che anche i nomi siano per legge e per natura, ma non per una qualsivoglia legge, bensì per quella eterna e che è venuta a sussistere sulla base di principi razionali eterni. Comunque il nome, in virtù della causa produttrice che è di matrice scientifica, è per legge e per convenzione, mentre in virtù della causa paradigmatica è per natura. Ma se le cose stanno in questi termini, come mai <Socrate> in seguito, parlando con Cratilo, mostrerà che bisogna chiamare “nome” non solo quello posto correttamente, ma anche quello che non è posto correttamente? Infatti, aveva detto che i nomi sono così perché c’è l’idea, però, non tutti sono giusti, ci sono anche nomi sbagliati, e allora si chiede come mai. Si deve dunque rispondere a tale domanda <dicendo> che la legge è atta a contemplare l’universale;… Vedete qui la distanza immensa tra Platone e Aristotele: l’universale come istanza conoscitiva per Platone, mentre per Aristotele la cosa è un po’ più complessa, l’universale è costruito dall’induzione. …dunque tutti quei nomi che sono posti a entità eterne, sono posti secondo legge. Ma dal momento che vi sono anche nomi di esseri corruttibili, non v’è da stupirsi se la legge universale non ha pieno controllo su questi, mentre la componente casuale in essi è grande, come per esempio nel caso di chi è chiamato “Ambrósios”, “Athanásios” o “Polychrónios” e simili. C’è l’uno e i molti, il meccanismo è lo stesso. Anche Porfirio ha utilizzato la stessa cosa, così come poi la utilizzeranno i padri della Chiesa. Porfirio la utilizzerà contro l’Aristotele delle categorie: c’è una sostanza che, sì, è quella che Aristotele descrive come ciò che ne diciamo, ma c’è un’altra sostanza che invece è identica a sé, inamovibile, che sta lassù. E qui sta dicendo esattamente la stessa cosa: da una parte ci sono le cose eterne, gli eterni, e poi ci sono quelli che si muovono, che cambiano, e che sono i molti, di cui Policronio fa parte. Ma quale sia la competenza produttrice dei nomi, diciamolo brevemente: in effetti in essa non si esaurisce l’intera forma della competenza legislativa. Dunque, che vi sia nell’anima una particolare facoltà rappresentativa risulta manifesto (in effetti anche la pittura e le arti di tale natura dipendono da questa facoltà), in quanto è capace di assimilare le cose inferiori a quelle superiori e le forme risultanti da composizione a quelle più semplici.
L’anima qui è ψυχή. L’anima è già diventata quella cosa, ma già con Plotino, quella cosa che è sempre e necessariamente in contatto con l’Uno, attraverso l’intelletto - l’intelletto è quello che ordina tutto quanto. Ma l’anima è quella cosa che anima il vivente ma, animandolo, lo mette in contatto con l’Uno, perché è l’Uno che produce tutto quanto, per processione naturalmente. Quindi, l’anima, che ovviamente non si vede, è quella cosa che però ha dato l’avvio poi, un po’ alla volta, a queste cose che esistono ancora oggi, e cioè l’idea del percorso spirituale o della ricerca interiore: non cercare fuori di te ma cerca dentro di te. È il concetto di anima che regge tutto quanto, ma dell’anima che è in rapporto, in relazione, sempre in connessione con l’Uno, con Dio. L’anima mantiene sempre in sé una parte di Uno, quindi di Dio, quindi di verità assoluta. Quando qualcuno, come si usa dire, deve cercare dentro se stesso, cos’è che deve cercare? Questa connessione con Dio. Se dunque il legislatore è analogo a quello, come potrebbe egli non avere anche pieno potere sulla imposizione dei nomi? Ecco perché qui <Platone> ha denominato il legislatore “demiurgo” ed anzi «il più raro fra i demiurghi». Così, poi, anche nel Fedro Socrate afferma che hímeros [“desiderio amoroso”] è un nome posto da Zeus, «hímeros che Zeus, per via del suo amore per Ganimede, ha denominato con tale nome». Dunque, tra i nomi, gli uni sono prodotti degli dèi e giungono anche fino al livello dell’anima… È qui che incomincia a crearsi questa idea dell’anima in connessione con gli dèi in questo caso, ma dopo con Dio, questa prossimità dell’anima con Dio, per cui cercare dentro di sé significa guardare nella propria anima, perché la propria anima riflette Dio. Ma questa è un’invenzione di Plotino, di Proclo in questo caso. …mentre altri sono prodotti di anime particolari che sono in grado di coniarli in virtù del loro intelletto e della loro scienza… Ciò che a noi interessa, in effetti, è reperire quei passi in cui si è costruito un modo di pensare che funziona ancora oggi e che si è costruito attraverso una forma dell’inferenza, che è resa possibile dalla ipostasi. Potremmo dire che ogni opinione è fondata sull’ipostasi, ha bisogno dell’ipostasi, perché l’opinione è la conclusione di una sequenza argomentativa, di inferenze. E queste inferenze vengono credute vere, vengono accolte dal parlante, non semplicemente come giochi di parole più o meno divertenti, ma in modo, come direbbe Proclo, didascalico, cioè, descrive lo stato delle cose, lo mette in evidenza. E, quindi, ecco che avere un’opinione è avere un’ipostasi, un qualche cosa che viene creduto necessariamente. È possibile non avere opinioni? Dipende da cosa intende per opinione, naturalmente, perché se intendiamo con opinione qualunque cosa si pensi, allora no, non posso non pensare; se, però, intendiamo con opinione l’accreditare una serie di inferenze come veritative, ecco, in questo caso sì, è possibile non avere opinioni, in quanto tutto ciò che il mio pensiero produce lo produce a partire da altri pensieri, ma non hanno nessun riferimento, non hanno nessuna connessione necessaria tra l’uno e l’altro. Sono racconti, ogni pensiero, in fondo, è un racconto. Ciò che invece consente l’esistenza del pensiero occidentale è l’idea che ci sia la connessione necessaria tra l’antecedente e il conseguente. Solo così posso giungere al teorema. Punto 56. Analogia e simbologia dei nomi. Teologia e Telestica. La telestica ha due significati: l’uno è il contrario di acrostico. L’acrostico è una parola formata dall’insieme delle prime lettere di tutte le parole, la parola che ne risulta è l’acrostico. Telestico è il contrario. Però, ha anche un altro significato, e probabilmente viene da questo, che ha a che fare con la teurgia, e cioè con quell’arte di evocare gli dèi in un certo modo per ingraziarseli. Qui, naturalmente, parla di telestica in questa accezione. Teologia e telestica. La spola è immagine della potenza degli dèi operatrice di distinzione tra le entità universali e quelle particolari… Quindi, questa separazione è qualcosa che già fanno gli dèi, è divina la separazione dell’uno dai molti. …infatti essa imprime come un sigillo l’attività di tale potenza negli orditi e reca il segno della classe degli dèi operatori di distinzione. Qui la separazione è diventata cosa divina, sono gli dèi che separano. E allorché i teologi ricorrono a delle spole per riferirsi ad essi, non intendono una forma di spola, né si servono del termine in questione solo per convenzione e in modo simbolico: per quale motivo infatti dicono “spola” e non piuttosto qualcos’altro? In effetti non sarebbe assurdo che la scienza si serva dei termini come capita, e questi proprio quando riguardano dèi? Ma a mio giudizio <essa> utilizza tali termini con valore analogico. In effetti, ciò che è la spola in riferimento alla tessitura, è la distinzione tra le Forme in riferimento alla produzione demiurgica. Del resto l’analogia non è né una relazione tra Idea e simulacro, né è solo per convenzione, come per esempio fa Platone che denomina “cavalli le facoltà dell’anima quali sono queste nostre, né a caso, né intendendo quelle come Idee dei cavalli sensibili, bensì ricorrendo alla corrispondenza analogica. Proprio in conseguenza di ciò anche gli iniziati, quando in virtù di tale interconnessione <analogica> rendono gli oggetti di questo nostro mondo simpateticamente collegati agli dèi,.. La teurgia: compiere una serie di operazioni che sono quelle che ingraziano gli dèi. …si servono di questi strumenti come segni delle potenze divine, per esempio della spola come segno delle potenze operatrici di distinzione, del cratere di quelle generatrici di vita, dello scettro di quelle sovrane, della chiave di quelle custodi, e allo stesso modo negli altri casi le denominano ricorrendo alla relazione analogica. Come le cose sono in rapporto di corrispondenza analogica fra loro, allo stesso modo lo sono tra loro, per dignità e potenza, anche i nomi riferiti ad esse. Ecco perché i nomi degli dèi sono degni di onore, di venerazione e di considerazione per i sapienti «oltre il più grande timore», mentre quelli degli uomini o dei demoni lo sono in modo corrispondentemente analogico. Perciò, si dice, non bisogna che i Greci si servano di teonimi egiziani o sciti o persiani, bensì greci. Infatti gli <dèi> “climatarchi” (che governano le regioni), si compiacciono quando vengono chiamati negli idiomi propri delle loro specifiche regioni di appartenenza. Cominciamo qui a vedere bene come funziona tutto quanto per il neoplatonismo e come ha fatto a costruire così bene un discorso, tanto da venire poi utilizzato allo stesso modo dai cristiani. Proprio lui, Proclo, che ha scritto, come sappiamo, un libro contro i cristiani. Eppure, per ironia della sorte, ha fornito lui ai cristiani il fondamento del loro pensiero. Ma questo aspetto dell’inferenza, cioè del passaggio dalle tre ipostasi a un’operazione, chiamiamola, linguistica, ecco, questa è una idea di Proclo, che in Plotino non c’era. È in Proclo che esiste questa cosa, cioè, l’inferenza, non è che il rispecchiamento delle tre ipostasi, della processione, per simpatia, delle ipostasi. Poi, della simpatia ne parlerà ancora, così come dell’amore. Tra l’altro, leggeremo anche alcune cose tratte dalla Teologia platonica, che sono interessanti rispetto a questo aspetto che stiamo considerando. Capite così come è stato creato il modo in cui pensiamo, il modo in cui è stata pensata e creata la logica. Pensate a tutta la logica medioevale: che cosa ha fornito a tutta la logica medievale il suo enorme, immenso potere? La certezza che se l’antecedente è vero allora è vero anche il conseguente, perché procedono l’uno dall’altro. La famosa parola di Aristotele, ύμάρχειν, è stata dimenticata.