9. IL SOFISTA
9.1 Il passo che abbiamo compiuto rispetto agli antichi sofisti è radicale, avendo portato il loro gesto alle estreme conseguenze. In effetti si tratta di volgere il loro pensiero su se stesso, cioè di elaborare le loro istanze tenendo conto di ciò che consentiva loro di avanzarle, considerando quindi il linguaggio in termini più decisi ed estremi. Considerare il sofista è considerare la parola, poiché sofista non è qualcuno in quanto tale ma la struttura stessa della parola in quanto ciò che costituisce gli umani, che consente loro di essere tali, cioè di potere dirsi tali. Sofista è pertanto una struttura di discorso, una struttura tale per cui la parola dicendosi non può non tenere conto di ciò che produce dicendosi. In questo senso l’itinerario intellettuale di cui abbiamo parlato nelle sezioni precedenti conduce necessariamente al sofista.
9.2 La sovversione del discorso occidentale avviene semplicemente portandolo alle estreme conseguenze, cioè prendendolo alla lettera. Basta questo dunque? Parrebbe, dal momento che il discorso occidentale si regge sull’espulsione delle stesse procedure che gli consentono di esistere, espulsione che avviene attraverso il divieto di accogliere il fatto, pur inevitabile, che ciascuno è l’artefice di ciò che produce, qualunque cosa esso sia. Considerazione molto banale che può tuttavia risultare intollerabile perché comporta l’assoluta responsabilità di ciò che si fa in ciò che si dice, e quindi l’impossibilità di attribuire ad altro ciò che si produce nel discorso.
9.3 Che cosa intendiamo con sovversione del discorso occidentale? E perché mai sovvertirlo? In effetti non ci interessa né sovvertirlo né consolidarlo, ma ciò che avviene considerando tutto ciò che abbiamo detto fino a questo punto è tale da non potere essere in nessun modo inserito nel discorso occidentale senza che questo ne risulti dissolto. Se così fosse avremmo soddisfatto uno degli obiettivi posti all’inizio di questa ricerca, vale a dire il porre le condizioni per cui non sia più possibile pensare nei termini del discorso occidentale, nel senso che non sia più possibile non tenere conto dell’atto di parola e di ciò che questa produce.
9.4 Ma come potrebbe inserirsi un discorso come questo all’interno del discorso occidentale? Questione tutt’altro che marginale. Supponiamo infatti che questo accada, allora in questo caso essendo strutturalmente impedita ogni forma di credenza dovrei necessariamente confrontarmi con ciò che faccio dicendo, cioè dovrei escludere inevitabilmente ogni riferimento al "reale" o a qualunque altra cosa possa porsi in questi termini, cioè in termini extralinguistici. Ma confrontandomi con ciò che faccio dicendo dovrei anche considerare che ciò che faccio dicendo è ciò che desidero fare oppure no? Proviamo a riflettere sulla questione. Che cosa non possiamo non dire intorno al desiderio? In prima istanza che è qualcosa che muove il discorso in cui mi trovo in una direzione, qualunque essa sia, ma che cosa lo muove propriamente se non ciò che il discorso stesso produce, e che producendosi trae a sé ciò che lo ha prodotto? Per il momento non aggiungiamo nulla intorno alla nozione di desiderio, ci atteniamo a ciò che necessariamente dobbiamo dire, e cioè che ciò che dico muove se stesso. Non possiamo dire altro.
9.5 Ma allora ciò che faccio dicendo è anche necessariamente ciò che desidero fare? C’è l’eventualità che non possiamo dire differentemente, poiché qualunque cosa possiamo intendere con "desiderio", questa comporterà inevitabilmente quella che abbiamo avanzata, e pertanto risulterà che il desiderare non è altro che il muovere del discorso in una direzione. Qualunque altra affermazione ci sarà totalmente inutile in quanto non necessaria, opinabile e quindi vera e falsa indifferentemente. Con questo aggiungiamo una postilla alla sezione dedicata all’etica, dicendo che l’etica è il desiderio portato alle estreme conseguenze. Nella proposizione 5.8 dicevamo: "... dicendo qualcosa non posso in nessun modo esimermi dal considerare ciò che dico, perché ciò che dico è la sola cosa che esiste in quel momento, dicendosi. Se esiste quello che dico, perché dicendolo lo faccio esistere, allora io, esistendo in quello che dico, non sono null’altro che ciò che dico e se ciò che faccio non è fuori dalla parola di quale parola si tratterà se non di quella che mi sta costituendo mentre si dice, mentre la dico? Allora, qualunque cosa faccia questa sarà necessariamente inserita nell’atto di parola che mi sta costituendo. Non potrebbe essere altrimenti, poiché in caso contrario, se ciò che faccio fosse fuori dalla parola che mi sta costituendo (quella che sto dicendo), allora di ciò che faccio non potrei sapere nulla, perché sarebbe fuori dalla parola che mi costituisce e, non potendolo sapere, per quanto detto più sopra, non farei nulla".
9.6 Si impone in modo sempre più decisa la assoluta responsabilità nel e del discorso in cui ciascuno si trova, e anche la nozione di responsabilità a questo punto diviene più chiara, mostrandosi come la semplice constatazione e accoglimento di ciò che il discorso produce dicendosi. Con questo consideriamo anche che il discorso, facendosi, esibisce ciò che "desidero" e che pertanto sottrarmi a questo varrebbe soltanto a dovere credere che il desiderio non sia la direzione del discorso in cui mi trovo ma una sorta di evento misterioso, fuori dalla parola e a questa inaccessibile. Che il desiderio sia considerato per lo più in questi termini non significa nulla, se non che il discorso religioso impone la magia e la superstizione come strumenti imprescindibili per potere essere creduto e quindi accreditato. Accreditato dal pensiero che esista qualcosa di magico che mi muova e che mi governi, e l’invenzione della psicanalisi è stata l’ultima trovata in questo senso, cioè l’invenzione di un’istanza, l’inconscio, che governa senza che io ne sappia nulla né che possa esserne consapevole. Un’immagine terroristica che vale a persuadere che ciascuno sia governato da qualcosa che non conosce e che pertanto richiede necessariamente un interprete. Tutto questo non si discosta in nulla dalla divinazione, dalla mantica, dall’arte di interpretare i segni inaccessibili agli umani.
9.7 La questione del desiderio inizia a configurarsi così in termini più ampi, poiché si tratta in effetti di affrontare ciò che ha da sempre costretto gli umani a cercare l’interpretazione dei segni come evento centrale della loro esistenza, l’evento che consentirebbe di conoscere l’ignoto. Ma che cos’è ignoto se non ciò che è creduto tale, ciò che è creduto esistere di per sé anziché come produzione linguistica. Il desiderio non esiste fuori dalla parola, e nella parola costituisce soltanto la direzione del discorso, che cosa c’è di ignoto se non ciò che "desidero" che ci sia. Che cosa diciamo con questo, che di nuovo esiste un’entità che mi muove a mia insaputa? No, soltanto che l’utilizzo del termine "desiderio" fatto dal discorso religioso lo impone come elemento extralinguistico, e pertanto misterioso. Ciascuna cosa che sia pensata fuori dalla parola risulta necessariamente misteriosa e insondabile, necessariamente perché non potendo in alcun modo rendere conto di sé è costretta a immaginare un altrove che la significhi, che la faccia esistere, ma questo altrove non essendo reperibile da nessuna parte deve essere pensato come inaccessibile agli umani, e insondabile. Può soltanto essere creduto e anzi, deve essere creduto come condizione per potere pensare di non essere artefice di ciò che si produce in ciò che si dice.
9.8 Abbiamo posta la questione in termini molto stringati, attenendoci soltanto a ciò che risulta essenziale, tuttavia è una curiosa questione questa del desiderio, curiosa e complessa poiché mette in gioco aspetti notevoli del pensiero e quindi della parola. In prima istanza il libero arbitrio come la possibilità di scegliere la direzione. Ma chi sceglie la direzione se "io" è una procedura linguistica e io che sto scrivendo sono propriamente il discorso che si sta facendo? Ma allora non c’è il libero arbitrio? Che senso ha questa domanda, che cosa sta chiedendo? Si tratta di nuovo di considerare la questione in termini più precisi, e cioè tenendo conto che non posso uscire dal linguaggio e quindi, domandarmi se esiste il libero arbitrio è domandarmi se posso governare la parola, ma con che cosa la governerò se non con la parola? E governandola con la parola chi governerà la parola con cui governo?
9.9 Potremmo a questo punto inserire un corollario a quanto detto in precedenza riguardo a ciò che non so. Che cosa dico in effetti dicendo che non so? Dico che ciò che accolgo come sapere in questo caso non può essere accolto, e perché non può essere accolto? Perché non può essere accolta la procedura di cui mi avvalgo dicendo che so, evidentemente, poiché il suo uso è tale che la sua negazione la esclude, e se ciò che so è ciò che si impone in ciò che dico, allora ciò che non so costituirà soltanto un’asserzione che afferma l’assenza di un rinvio che io posso accogliere come consequenziale rispetto a ciò che sto dicendo. Ma a quali condizioni posso accogliere un elemento come consequenziale a ciò che sto dicendo? Che cosa intendiamo con consequenziale? Ciò che segue necessariamente? Se ci atteniamo a quanto detto fino a questo punto dovremmo dire di si, e anche compiendo questa operazione ci atteniamo infatti alla stessa nozione di consequenzialità, e cioè ciò che segue necessariamente da ciò che precede. Ma allora il non sapere che senso ha? Sarebbe soltanto ciò a cui non posso fare seguire necessariamente qualcosa, e quindi qualcosa che posso accogliere oppure no in quanto non è imposto dalle procedure linguistiche ma è una produzione che non è necessaria per potere proseguire a parlare, cioè posso farne a meno nel senso che posso accoglierla oppure no, ma in ogni caso non potrò credere che sia necessaria e quindi necessariamente vera, sarà soltanto una figura retorica, un modo per ornare il discorso. Ma allora il discorso, un qualunque discorso, potrebbe farsi senza ornamenti? E questi ornamenti ornano che cosa esattamente? Ma che cosa ci stiamo chiedendo con questo?
9.10 Dobbiamo forse accogliere l’eventualità che si dia un grado zero della parola? Il grado zero quale sarebbe, forse quello sprovvisto di ornamenti, ma che cosa dovrebbe dire allora il grado zero, soltanto ciò che non può non dire? Non era questo l’intendimento di Barthes, ma poco importa che cosa intendesse dire, la questione rimane, comunque piaccia intendere la nozione di grado zero. In ogni caso si tratta di tenere conto che necessario risulta ciò che le procedure linguistiche impongono per potere parlare e non ciò che queste procedure consentono di costruire, vale a dire ciò che è costruito ma non ciò che potrebbe essere costruito, semplicemente perché quest’ultimo non è costruito. Ciò che costruiscono dunque è necessario ma non vero, necessario perché si è costruito, ma non vero perché le stesse procedure impediscono di potere provarlo come vero, cioè impediscono che ciò che si è costruito possa riferirsi a qualcosa fuori dalla parola.
9.11 Dire che gli umani in quanto parlanti parlano è necessario oppure no? No, evidentemente. Non è necessario perché nulla costringe a farlo, necessario è invece che dicendosi non può non dirsi, nel senso che dicendo che gli umani in quanto parlanti parlano, dico qualcosa che in nessun modo posso negare, ma il dirlo non è necessario. Usando le virgolette, dire "gli umani in quanto parlanti parlano" non è affatto necessario, ma affermare che gli umani in quanto parlanti parlano è assolutamente necessario, perché non negabile in alcun modo. Con questo stiamo dicendo che ciò che si dice non è necessario, ma lo è che si dica. Precisiamo meglio. Possiamo affermare qualunque cosa, questa non sarà né vera né falsa, di per sé non sarà nulla e in effetti è qualcosa in quanto è inserita nella combinatoria linguistica in cui esiste, la sola cosa che non potrà non essere è che sarà un elemento linguistico, cioè qualcosa che si sta dicendo. In questo senso diciamo che l’affermare che gli umani in quanto parlanti parlano è una affermazione che non può negarsi in quanto dice che ciò che sto dicendo lo sto dicendo, e negare questo non posso farlo perché non farei nulla. Allora dobbiamo dire che ciò che è necessario non possiamo dirlo perché è già in atto in ciò che stiamo dicendo? È esattamente questo che intendiamo dire, non posso dirlo in quanto non posso non dirlo nel dire qualunque cosa, e quindi chiedermi se posso dirlo oppure no non ha alcun senso, e non posso chiedermelo. Con questo resta annotato che parlare di grado zero non ha nessun senso, poiché la sola accezione in cui possa parlarsi è quella che abbiamo indicata, ma proprio questa non può porsi se non come già necessariamente posta nel dirlo. Stiamo dicendo esattamente questo, che nulla è necessario in ciò che dico salvo il fatto che lo sto dicendo. A questo punto non resta nulla se non ciò che dico, e ciò che faccio dicendo essendo qualunque altra cosa, nulla. Nulla nell’accezione indicata più sopra, e cioè che si pone come ornato, o giudizio sintetico, a priori o a posteriori che sia, come si preferisce.
9.12 Qualunque discorso si faccia, questo compreso, non ha nulla di necessario se non il fatto che si sta dicendo, pertanto anche questo vale quanto qualsiasi altro, una sola cosa possiamo dire eventualmente, e cioè che tiene conto delle procedure linguistiche di cui è fatto e quindi non può accreditare nessuna affermazione come "vera", ma semplicemente considerarne le implicazioni, le connessioni e le produzioni non aggiungendo nulla che la considerazione da cui siamo partiti non imponga come necessario dire. In altri termini stiamo riflettendo su ciò che non possiamo non dire parlando, ma il fatto che lo stiamo facendo non è affatto necessario, al pari di qualunque altra cosa. Ma che non sia necessario, nell’accezione di cui stiamo parlando, non ci dice ancora molto, perché di fatto in questi termini nulla è necessario, salvo ciò che abbiamo salvato, e pertanto occorrerà considerare ciò che non è necessario ma accade, e cioè ciò che di fatto si dice continuamente.
9.13 Ma con "ornato", intendiamo allora tutto ciò che non è necessario affermare, e quindi in definitiva tutto ciò che si dice? Parrebbe, perché ciò che non è necessario affermare risulta essere ciò che nulla mi costringe a dire, e quindi dirlo è totalmente arbitrario, non essendoci nulla che possa garantire l’esistenza di altro oltre a ciò che sto dicendo e a cui ciò che sto dicendo possa ricondursi, nulla fuori dalla parola. Ma l’ornato orna che cosa esattamente? Ciò che a questo punto ci questiona è se si dia l’eventualità che qualcosa esista fuori dall’ornato, cioè qualcosa si dia come isotopia, come il luogo dove le cose sono le stesse, identiche a sé. Abbiamo considerata la difficoltà di potere affermare una cosa del genere e anche l’impossibilità di non considerarla, nel senso che se non si desse isotopia non potremmo parlare di varianti e d’altra parte stabilire l’identità di un qualsiasi elemento non può farsi se non muovendo da un principio di identità che a sua volta necessita dell’identità per potere affermarsi. Abbiamo dunque già considerati questi aspetti in quanto procedure linguistiche. Si tratta ora di riflettere sul fatto che non possiamo non dire che ciascun discorso che si faccia, questo è un ornato, e nulla più di questo.
9.14 L’ornato è ciò che esiste senza necessità, e cioè non chiede di essere accolto come vero né di essere respinto come falso, è un ornamento nel senso che orna ciò che mano a mano si produce nel dire, lo orna cioè aggiunge elementi che non sono necessari, che non chiedono di esserlo. In altri termini intendiamo con ornato null’altro che la combinatoria significante in cui ciascuno si trova parlando, e diciamo con questo che ciò che si dice non ha né può avere alcun carattere di necessità. L’ornato è tale in quanto dice se stesso, né potrebbe dire altro. In questo senso sono un ornato tanto le poesie quanto le dimostrazioni scientifiche, tanto le affermazioni intorno alla realtà quanto le invocazioni ai santi. L’ornato è ciò che non soltanto non chiede di essere creduto ma non può essere creduto in quanto non ha questa funzione né questa prerogativa, non induce né costringe all’assenso, non chiede di porsi nei suoi confronti nei termini verofunzionali, esclude totalmente la questione.
9.15 Ma allora le nozioni di bene, di male, giusto, vero e tante altre sono soltanto un ornato? Perché non dovrebbero? A meno che esista un criterio verofunzionale superiore, al quale siamo costretti ad assentire, qualunque esso sia, il divino o il bene pubblico, la tradizione o la salvezza dell’umanità o qualunque altra cosa. C’è l’eventualità che tutto questo possa apparire una follia, ma qualunque cosa appaia non significa assolutamente nulla, non dice nulla, se non un richiamo a quel criterio superiore di cui si diceva, e del quale tutto sommato ci importa poco. Ci importa poco perché non ci dice nulla di cui possiamo avvalerci in questa ricerca, se dica per altri motivi, è un’altra questione.
9.16 Si delinea in modo sempre più chiaro che cosa stiamo intendendo con "sofista", abbiamo detto in precedenza che sofista è il discorso portato alle estreme conseguenze, e ciò di cui stiamo parlando è in effetti proprio questo, ciò che non possiamo non accogliere portando il linguaggio alle sue estreme conseguenze, cioè spingendolo fino al punto in cui mostra se stesso in atto, mostrando ciò di cui è fatto e ciò che fa. Ma resta una questione, forse la più importante in tutto ciò che abbiamo detto, e cioè se gli umani effettivamente non facciano altro, parlando, che produrre un ornato, per nulla.
9.17 Considerando questa eventualità quale sarebbe il problema, e soprattutto che cosa muterebbe? Perché qualcosa muterebbe, se non altro perché non si darebbe in nessun modo l’eventualità di credere che ciò che dico non sia altro che un ornato, ma abbiamo detto anche che il parlante è ciò che dice, e pertanto subirebbe la stessa sorte di assoluta non necessità, poiché la necessità è una procedura linguistica, e fuori dalla parola è nulla e dunque non può darsi alcuna finalità e nessuna meta. Ma questa finalità e questa meta non sono forse elementi linguistici, non sono forse nella parola, e allora pormi questa domanda non mi rinvia di nuovo a ciò che mi consente di pormi questa domanda? È una questione che forse merita di essere considerata se si tiene conto di ciò che il discorso occidentale ha da sempre evitato di considerare, e cioè che qualunque considerazione possa farsi questa sarà sempre in prima istanza una proposizione, e che da questo non c’è uscita.
9.18 Portare le cose alle estreme conseguenze non è altro che seguire esattamente le procedure linguistiche, così come si danno, così come esistono nella parola, nulla più di questo. Se si considera che le procedure linguistiche sono ciò di cui è fatto il linguaggio, cioè ciò per cui e attraverso cui esiste, allora si prenderà atto che qualunque cosa si intenda fare o dire potrà farsi soltanto attraverso tali procedure, che consentono anche di porre un’eventuale obiezione a questa affermazione, e che fuori di questo nulla è pensabile, nulla esiste, poiché la stessa nozione di esistenza, come abbiamo considerato in precedenza, è una proposizione, un’altra formulazione linguistica. Come trarre vantaggio da tutto questo? E soprattutto che cosa può intendersi a questo punto con "vantaggio"? Possiamo intendere questo, che ciò che siamo andati dicendo può consentire di pensare più rapidamente, e può farlo perché il discorso non è arrestato da nulla, cioè da nessuna credenza, da nessuna attestazione, da nulla che debba essere fissato come vero, da nulla che mi costringa a fermare il discorso su qualcosa che non debba essere ulteriormente considerato. È in definitiva una estrema libertà, sicuramente rapida a pensare, a cogliere le connessioni, le implicazioni in ciascun discorso, in ciascuna affermazione. Libertà dunque di potere considerare qualunque questione, qualunque affermazione possa intervenire nel discorso in cui mi trovo senza dovere ritrarmene per salvare una superstizione, una credenza, qualunque essa sia.
9.19 E se il discorso procede con tanta rapidità e con tanta rapidità può cogliere i paradossi, le petizioni di principio e tutto ciò che tenta di affermarsi come necessario o necessariamente vero senza potere in nessun modo provarsi, che cosa succede? Perché è esattamente questo che fa il sofista, cioè chi non può non trovarsi a praticare quanto di estremo c’è nella parola, in ciascun atto, in ciascun istante. L’estremo che incontra la parola è la sua non terminabilità, la sua non gestibilità, la sua non finalità né finalizzabilità. La parola, con tutto ciò che produce, è per niente. Ciascuno può cimentarsi a considerare altrimenti.