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2. RETORICA             

 

 

2.1 Da dove vengono le parole in cui mi trovo quotidianamente, da che cosa si producono, come le incontro? Questo ci sta interrogando e su questo rifletteremo. Le considerazioni intorno alla logica ci hanno fornito un criterio a cui ci atterremo in questo percorso perché ci consentono di proseguire senza dovere accogliere nulla che non risulti "necessario" nell’accezione indicata nella sezione precedente. Qui si tratta dunque di affrontare la domanda: che cosa faccio quando parlo? Quali cose succedono nel trovarsi esposti alla parola?

2.2 Ciascuna volta che parlo la mia parola produce un’attesa della parola che seguirà poiché ciò che dico apre a ciò che segue in modo che ciò che dico è sempre proiettato verso ciò che segue. Questo "ciò che segue" è ciò che mi chiama incessantemente a dire, chiamata a cui non posso sottrarmi perché avviene prima ancora che io possa decidere di sottrarmi in quanto è già in ciò che sto dicendo. Tale chiamata ha non soltanto la prerogativa di costringermi a proseguire, ma è ciò che mi consente anche di constatare, cioè di dire, una distanza tra ciò che dico e ciò che faccio dicendo. In questo varco situo ciò che ho indicato come "chiamata".

2.3 Ora, in che modo ciò che faccio dicendo interviene in ciò che dico? Che io faccia qualcosa comporta qualcosa o non comporta nulla in ciò che segue? Se non comportasse nulla allora non farei nulla, ma se non facessi nulla allora anche ciò che dico sarebbe nulla; se faccio qualcosa, questo qualcosa in che modo interviene?

2.4 Se dicendo faccio qualcosa, e questo qualcosa è ciò per cui esiste il fatto che sto dicendo, allora ciò che faccio dicendo interverrà almeno nel fare esistere il "dicendo", ma non soltanto, poiché ciò che mi aspetto nel dire qualcosa non potrà non tenere conto di ciò che si "aspetta" quello che faccio dicendo. Fare, dicendo, è propriamente una figura retorica nota come ipotiposi, dove dicendo qualcosa, esibisco ciò che dico, lo mostro.

2.5 Dicendo esibisco ciò che faccio dicendo. Esibendolo lo faccio esistere e mi trovo pertanto di fronte a qualcosa che esiste, ma ciò che esiste esiste necessariamente. Incomincio a questo punto a rendermi conto di come avvenga che io creda ciò che dico, perché se lo credo lo so e se lo so è perché esiste, e se esiste è reale e quindi vero, cioè è un mondo possibile, vale a dire una proposizione costruibile.

2.6 Consideriamo ora qualcosa che apparentemente ha poco a che fare con la retorica e cioè un teorema inventato da un matematico, Kurt Gödel, che ha illustrato un metodo per inserire, all’interno delle proposizioni costruibili utilizzando le procedure aritmetiche, una proposizione che afferma di se stessa che non è dimostrabile. Dire che le procedure aritmetiche consentono la costruzione di tale proposizione vale a dire che tutto il sistema è indecidibile, e se tale proposizione non viene accolta all’interno di tale sistema allora il sistema risulta incompleto. Dunque o incompleto oppure indecidibile. In che modo tutto ciò ci interessa? Ci interessa questo, l’eventualità che in qualunque proposizione sia possibile, dagli assiomi di partenza, dedurre proposizioni che negano ciò che si è affermato e, torniamo a ripetere, in qualunque proposizione.

2.7 Allora la domanda circa il che cosa faccio quando parlo ci costringe a considerare che ciò che faccio non è sottoponibile a un criterio di verità poiché la costruzione di un criterio di verità sarà necessariamente un insieme di proposizioni che a loro volta richiedono di essere vere, ma non soltanto questo. Sarà sempre possibile all’interno di tale sistema inserire un’altra proposizione che afferma, per esempio, che il sistema non è decidibile, deducendo tale proposizione dagli assiomi che sono stati stabiliti.

2.8 Che cosa faccio allora quando mi chiedo se qualcosa è vero o credo che qualche cosa sia vero? E perché credo che ciò che affermo sia vero? Occorre che sappia che cos’è "vero" e che disponga di un criterio tale per cui possa provare che "vero" è vero, e che quest’ultimo sia vero, e così via. E allora che cosa faccio esattamente quando dico che ciò che sto dicendo è vero? Che cosa sto credendo? Che "vero" corrisponda a qualcosa? Ma a che cosa? E se pensassi che è vero ciò che corrisponde alla realtà che vedo che cosa direi con questo? Soltanto che attribuisco il significante "vero" a ciò che vedo, per cui se dico ciò che vedo, allora posso dire che questo è vero. A una condizione naturalmente, e cioè che possa dire ciò che vedo, e come posso farlo? Dicendolo, naturalmente, ma questa particella pronominale "lo" che cosa indica esattamente? Indica forse ciò che vedo? Ma come ne veniamo fuori?

2.9 Abbiamo già incontrato un problema simile nella sezione precedente, considerando che cosa accade quando immagino che qualcosa sia fuori dalla parola, e cioè che le parole si rincorrono senza mai afferrare nulla che non sia un’altra parola fino ad accorgerci che non c’è uscita dalla parola. Ma se ciò che vedo è nella parola questo che cosa comporta? Soltanto questo, che non posso porlo a garanzia della parola perché questa garanzia è una proposizione, un’espressione linguistica, e siamo daccapo. In questo senso dire che è vero ciò che vedo non significa assolutamente nulla, in quanto con "vero" non intendo nulla. Più propriamente nulla che non sia negabile, e se è negabile può affermarsi qualunque altra cosa e sarà altrettanto "vera".

2.10 Tutto questo ci ha ricondotti alla questione iniziale, e cioè che cosa faccio quando dico di qualcosa che è vero. Dico qualcosa che credo, parrebbe, ma che cosa credo? Si tratta qui di affrontare la questione centrale in ciò che andiamo dicendo, e cioè che cosa mi muove a dire ciò che dico.

2.11 Indichiamo con "credere" l’attribuire a una qualunque cosa un’esistenza fuori dalla parola e pertanto diciamo che credo che tutto ciò che immagino sia garantito da se stesso, in quanto esistente di per sé. Curiosa formulazione questa, perché non posso dire che "qualcosa esiste di per sé" senza dirlo e quindi facendolo esistere in quanto e mentre lo dico. Comunque sia, ciò che sembra imporsi a questo punto è che credere vero qualcosa sia attribuirgli un’esistenza fuori dalla parola, una garanzia autogarantita, credere in definitiva a dio in quanto primum movens, o a qualunque altra cosa a cui si attribuiscano tali prerogative.

2.12 Allora affermare che la proposizione p è vera è affermare che è garantita da dio? O che altro? Dicendo che p è vera sto dicendo che credo p, nient’altro che questo. Sto facendo un atto di fede. Credere una qualunque cosa o credere in dio è lo stesso. Ma che cosa mi costringe a un atto di fede? E se fossi senza fede, cosa accadrebbe? È la struttura della parola a costringermi a un atto di fede? E come potrebbe? Forse occorre considerare ancora che cosa si attende in ciò che si dice, per saperne di più su che cosa si fa.

2.13 Se ciò che attende ciò che si dice è un rinvio, questo non può non essere a ciò che si fa dicendo, vale a dire a ciò che constato esistere in ciò che dico in quanto altro da ciò che sto dicendo. Alterità che si costruisce in questa distanza e per questa distanza che le procedure grammaticali mi costringono a considerare (non posso dire, senza dire necessariamente qualcosa). Ma a questo punto, ciò che faccio dicendo, l’ipotiposi, costringe ciò che dico a tenerne conto dando a ciò che segue una direzione precisa in cui mi trovo, volente oppure no, parlando. Di questa direzione si occupa la retorica.

2.14 Ciò che si è considerato più sopra ci fornisce un elemento importante per proseguire perché ci indica che la direzione che il discorso segue è quella che gli impone ciò che all’interno del discorso è ritenuto vero, ma è ritenuto vero propriamente ciò che si afferma, e pertanto saranno le affermazioni che si costruiscono una dall’altra a costruire il discorso e a fare esistere le cose. In altri termini, esattamente come nel discorso scientifico, risulta vero ciò che le mie affermazioni rendono possibile costruire. La costruzione avviene, ovviamente, utilizzando le regole e le procedure grammaticali, si tratta soltanto di stabilire che cosa si accoglie come punto di partenza, quali sono gli assiomi da cui decido di muovere, assiomi che ritengo, per definizione, veri. La questione che può sorgere è che oltre che a ritenerli veri per definizione li posso considerare anche veri perché necessari, cioè non negabili per via dell’ipotiposi che, come dicevamo, fa "esistere" ciò che dico. E può accadere di pensare questa esistenza come qualcosa fuori dalla parola. In questo caso avviene che ciò che è prodotto dalla parola divenga invece ciò che la produce.

2.15 Supponiamo che affermi che "p afferma x", può una proposizione affermare qualcosa se questa non è costruibile dal linguaggio, cioè non è pensabile? Evidentemente no, per cui se può costruirla allora esiste, e se esiste allora p può affermare x perché allora x esiste. Si è costruito in questo modo il criterio di esistenza per qualunque elemento si dia nella parola, la questione è che tale criterio è nella parola e l’esistenza che costruisce è ovviamente nella parola.

2.16 Abbiamo già intravisto come possa accadere che possa pensarsi che ciò che si dice sia fuori dalla parola riflettendo intorno all’ipotiposi. Possiamo dire che quanto affermato nella sezione precedente potrebbe impedirlo?

2.17 Ma che ne è di ciò che si costruisce parlando se non posso non considerarlo una produzione linguistica? Posso credere che sia fuori dalla parola? Evidentemente no, poiché il credere mi è impedito in quanto considero lo stesso credere una produzione linguistica e non un fatto che accada di per sé. E se lo considero invece nella parola? Allora ciò che dico è soltanto la produzione di un antecedente di cui ciò che sto dicendo è il conseguente? Forse. Ma consideriamo meglio.

2.18 Riflettiamo ancora su quanto affermato nella proposizione 2.5. Lì dicevamo in che modo mi trovi a pensare reale, cioè vero, ciò che dico. Ma è la sola via che posso prendere parlando? Forse proprio lì accade qualcosa per cui si decide quale sarà la direzione che prenderà non soltanto il mio discorso ma il mio modo di pensare. Riprendiamone i termini essenziali: "Dicendo, esibisco ciò che faccio dicendo, esibendolo lo faccio esistere, e mi trovo pertanto di fronte a qualcosa che esiste, ma ciò che esiste, esiste necessariamente", sta qui la questione, proprio in questo "ma ciò che esiste, esiste necessariamente" perché è come dire che non posso non accoglierlo; ma accoglierlo come fatto extralinguistico o come atto di parola? Dipende in definitiva da ciò che intendo con "necessariamente", e pertanto occorrerà riflettere ancora su questa nozione.

2.19 Abbiamo indicato precedentemente con "necessario" ciò che non può non essere e ciò che non può non essere è il fatto che stia parlando nel dire queste cose. Questo è quanto può dirsi di non negabile, perché negarlo equivarrebbe a trovarsi nella condizione di non potere negarlo. In questa accezione, qualunque altra affermazione è negabile e pertanto non necessaria. Probabilmente tutto ciò che qualunque discorso produce non è, in questa accezione, necessario. Pertanto tutto questo non può certamente essere utilizzato come criterio per costruire proposizioni di qualunque sorta perché un simile criterio annullerebbe qualunque formulazione. Tuttavia a questo punto abbiamo qualche elemento in più anche per potere rispondere alla domanda sorta nella proposizione 1.61, dove ci si chiedeva che cosa fare di tutto ciò.

2.20 Se dunque il criterio di "necessario" avanzato nella sezione precedente non può essere utilizzato per la costruzione di alcunché, tuttavia è lo strumento più potente che possa pensarsi, non per la costruzione di proposizioni, ma nella costruzione di proposizioni. Intendiamo dire con questo che è l’unico strumento che consenta di costruire proposizioni che non possano pensarsi come fuori dalla parola. Questione tutt’altro che indifferente poiché fare questo è trovarsi nell’impossibilità di pensare che qualunque qualcosa si stia dicendo, questa possa essere isolabile dalla parola cioè dalla combinatoria in cui è inserita e per cui esiste.

2.21 Tenere conto di tutto questo può sembrare arduo, forse lo è, tuttavia è un esercizio intellettuale che permette di accogliere qualunque cosa possa avvenire essenzialmente come una espressione linguistica, vale a dire come qualcosa che esiste unicamente perché inserita in una combinatoria linguistica che, in definitiva, mi costituisce così come accada che sia.

2.22 Il "come accada che sia" è stabilito allora da ciò che penso, dal modo di pensare, che mi costituisce in questo senso: a ciascun termine che interviene nel discorso si connette un altro termine a cui quello precedente è associato dal mio modo di pensare.

2.23 Da che cosa è costituito questo modo di pensare, e come si costituisce? Ci troviamo qui di fronte a una questione di notevole complessità. Vale a dire come accade che ciascuno si trovi a pensare quello che pensa.

2.24 Riprendiamo quanto detto nella proposizione 2.5: "Dicendo, esibisco ciò che faccio dicendo, esibendolo lo faccio esistere, e mi trovo pertanto di fronte a qualcosa che esiste, ma ciò che esiste, esiste necessariamente". Allora, se affermo x, come abbiamo detto precedentemente, allora x esiste e esistendo mi si impone non soltanto come x, ma come una x che esiste. Mi trovo così di fronte all’esistenza di ciò che, dicendo, ho fatto esistere. Accolgo cioè la sua esistenza come un’esistenza di fatto, ma che ne è di ciò che ho accolto nei termini che abbiamo indicati? Che ne è di questa x?

2.25 Parrebbe che il modo di pensare di cui abbiamo parlato si costruisca registrando ciascuna cosa che faccio esistere, e proceda sempre tenendo conto di ciò che è stato registrato precedentemente per decidere se ciò che segue esiste oppure no, cioè se deve essere a sua volta registrato oppure no. Intorno a che cosa dia l’avvio a tali registrazioni non possiamo dire alcunché, perché sarebbe come chiederci da dove viene il linguaggio, e questo non possiamo farlo per i motivi su esposti, vale a dire che non possiamo chiederci da dove viene ciò che stiamo dicendo se utilizziamo, per farlo, ciò stesso che stiamo dicendo, incorreremmo o nella petizione di principio che ci costringe a fermarci affermando semplicemente che è così perché è così oppure in un’inarrestabile regresso all’infinito. Intendiamo con il termine "registrazione" qualcosa di molto prossimo all’utilizzo che fa Hjelmslev di questo termine, e cioè la constatazione di un evento linguistico all’interno della catena linguistica.

2.26 Se dunque la domanda "da dove viene il linguaggio" è barrata, la cosa migliore che possa farsi è chiedersi come funziona il mio modo di pensare, quali sono i termini che funzionano in ciò che dico. Giocando sulla scia di Cantor, supponiamo che al termine x sia connesso soltanto il termine y, allora ciascuna volta che interverrà x interverrà sempre e soltanto y, ma se a x potessi connettere anche y1, y2, y3,... e così via, cosa accadrebbe? Un modo di pensare infinito, anzi, transfinito e, proseguendo lungo questa via, posso sempre prendere tutte le possibili y1, y2,... yN, chiamare questo insieme M e comporre un nuovo modo di pensare G, i cui sottoinsiemi siano costituiti da M1, M2,... MN.

2.27 Tutto questo per indicare ciò di cui si tratta nella ricerca che stiamo compiendo e cioè reperire ciò che può consentire di cessare di credere, e la modalità sembra porsi in questi termini: potere connettere ciascun elemento che interviene nel discorso a una quantità infinita di altri termini per cui risulti impossibile arrestarsi a qualcosa che si imponga come l’ultimo termine.

2.28 Resta da intendere la questione retorica in ciò che si è detto. Che cosa dobbiamo intendere con "retorica"? Ciò a cui siamo giunti ci consente di formulare una definizione che ci serva per potere proseguire, sempre attenendoci al criterio da cui abbiamo preso l’avvio. Se la retorica è costituita dall’insieme di tutte le varianti possibili del discorso che producono un effetto in chi le accoglie, tale per cui viene avvertita la variante come provvista di senso allora, se chiamiamo queste varianti figure, possiamo dire che la retorica è l’insieme di tutte le figure pensabili, cioè costruibili dal linguaggio.

2.29 Proviamo a considerare la nozione di variante avvalendoci ancora dell’elaborazione teorica di Hjelmslev che definisce le varianti come correlati con reciproca sostituzione, vale a dire elementi linguistici aperti la cui encatalisi non è attuata (Cfr. 1.24) e che pertanto mostrano una possibile sostituzione con altri elementi linguistici, mentre le invarianti no in quanto encatalizzate. Come si pone allora qui la variante? Non è forse proprio la nozione di figura retorica di cui dicevamo, cioè un elemento del quale rilevo che è stato sostituito con un altro e del quale registro tale sostituzione? L’invariante allora è quell’elemento linguistico che non posso in alcun modo sostituire. Non lo posso sostituire perché è l’esecuzione stessa dell’atto linguistico e non posso dire simultaneamente due cose, posso dirne soltanto una alla volta. Considerazione molto banale, che tuttavia mostra che l’atto locutorio non può essere sostituibile né sostituito in quanto è da sempre già avvenuto, già attuato nell’esecuzione di ciò che sto dicendo.

2.30 Che io dica qualcosa, qualunque cosa sia, resta registrato come atto locutorio, come invariante, qualcosa che permane e che in nessun modo può essere sostituito o cancellato. Si impone come ciò che non posso negare. Se dico non posso negare che sto dicendo se non affermando ciò che intendo negare. Poniamo qui l’invariante come il gesto iniziale, originario ciascuna volta in ciascun atto linguistico, ciò da cui muovo per proseguire a dire. Potrei muovere da altro rispetto a ciò che sto dicendo? E in che modo? Se potessi muovere da altro rispetto a ciò che sto dicendo mi troverei a utilizzare un elemento che non sto dicendo, ma se non stessi dicendo quello che dico allora ne starei dicendo un altro, e quindi muoverei da quello e quindi, in ogni caso, muoverei da ciò che sto dicendo.

2.31 Constatiamo a questo punto che ciò che andiamo facendo instaura qualcosa di cui possiamo dire che è assolutamente certo, cioè non negabile, e pertanto instaura un elemento che non è dubitabile né aggirabile in alcun modo. Ciò che la metafisica ha sempre cercato, vale a dire un elemento che non potesse non darsi, è stato reperito qui in termini straordinariamente semplici, considerando soltanto ciò che si dà ciascuna volta in cui si parla. Ponendoci tuttavia a una distanza infinita dalla metafisica così come è comunemente intesa, in quanto abbiamo posto come non esistente tutto ciò che non è nella parola.

2.32 Ma riprendiamo la questione. Stiamo dicendo che l’invariante è la condizione della variante, cioè di ciò che faccio dicendo, così come dicevamo più sopra che l’atto locutorio è la condizione dell’atto illocutorio, pur permanendo che in assenza di atto illocutorio non esiste l’atto locutorio, perché se non faccio qualcosa parlando allora non faccio nulla, nemmeno parlare.

2.33 La retorica si occupa delle varianti, di ciò che avviene parlando, mostrando ciascuna volta che la variante segue necessariamente un’invariante da cui procede, di cui si pone come il conseguente. Indicando la variante come figura retorica abbiamo soltanto detto che quest’ultima prevede necessariamente un elemento che la precede e che non può non esserci perché la variante risulti tale.

2.34 Occorre riflettere su che cosa debba intendersi con "registrazione di una variante", questione tutt’altro che marginale rispetto a ciò che andiamo dicendo. Se consideriamo quanto detto più sopra, la registrazione di una variante sarà la considerazione del fatto che ciascun elemento che interviene nel linguaggio comporterà che un qualunque elemento y esisterà in connessione con y1, y2, y3,... yN, poiché nulla chiude la sequenza delle y non essendoci alcun interpretante logico finale che, in questo caso, dovrebbe porsi inevitabilmente come una yN1. La variante si costituisce così come insieme aperto, e pertanto non definibile, poiché sarà sempre possibile costruire una qualunque yN1+1 che rilanci la questione impedendo in questo modo una qualunque possibile definizione. Questo comporta che nessuna variante, o figura retorica, potrà encatalizzare un’invariante o, per dirla altrimenti, nessuna figura retorica potrà "dire" o decidere un’invariante, nessun atto illocutorio potrà sovrapporsi a un atto locutorio.

2.35 Se diciamo che nessuna figura retorica può decidere di un’invariante, questo comporta che ciò che faccio dicendo non potrà mai sovrapporsi al dire e che pertanto mi troverò sempre di fronte a qualcosa che non posso né controllare né prevedere né decidere in alcun modo. Esattamente questo intendiamo con retorica, ciò che varia parlando.

2.36 Resta annotato da quanto detto che la retorica è strutturale all’atto di parola costituendone la variante. In definitiva l’atto retorico si costituisce come atto illocutorio e questo ci induce a pensare che se la logica si pone come la stessa condizione dell’articolabilità della retorica, quest’ultima instaura l’esistenza della logica. In altri termini, la logica dice a quali condizioni esiste la parola, ma non che cosa dice la parola, a questa domanda risponde la retorica considerando ciò che accade esistendo la parola. Ma cosa accade? Propriamente questo, l’essere condotti inevitabilmente verso la parola successiva che, instaurando l’esistenza di quella precedente, costruisce la pensabilità e quindi l’esistenza di ciò che si sta producendo.

2.37 Consideriamo ancora l’ipotiposi, lì avviene qualcosa di sorprendente e cioè si produce l’esistenza di ciò che si dice in un modo molto particolare, perché induce a pensare ciò che si dice come se fosse l’espressione di qualcosa che è altro rispetto a ciò che si dice. Come se ciò che si dice, cioè l’atto illocutorio, si immobilizzasse agganciandosi a un elemento extralinguistico. Questo aggancio produce ciò che potremmo chiamare "discorso religioso", vale a dire il discorso che suppone la possibilità di ancorare l’espressione linguistica alla sua produzione considerando il significante come una funzione a un solo argomento, dove pertanto non si producano varianti se non come "errori" di trascrizione delle invarianti. Detto altrimenti, si tratta di un discorso che immagina encatalizzabili tutte le varianti perché provviste di un interpretante logico finale che ne garantisca la stabilità e l’invarianza. Rimane implicita la sovrapposizione tra l’interpretante logico finale e dio, come garanzia dell’equazione tra verità e realtà poste come entità extralinguistiche.

2.38 A questo punto occorre riflettere su che cosa consenta di immaginare non negabile ciò che è assolutamente negabile, che cosa in definitiva consenta la produzione di un discorso religioso o, se si preferisce, la costituzione di un criterio di verità qualunque esso sia. Per proseguire dobbiamo riprendere questioni considerate in precedenza, vale a dire le nozioni di esistenza e di necessario.

2.39 Supponiamo che affermi una qualunque proposizione p, come può avvenire che possa pensare che esista qualcosa nella proposizione p che esista fuori dalla proposizione p? Supponiamo ancora che creda che la proposizione p affermi l’esistenza di qualcosa che esiste fuori dalla proposizione p, facendo questo, posso immaginare la proposizione p come una sorta di indicatore, un indice che indica qualcosa che è fuori dalla proposizione p. Ora, o questo qualcosa si trova in un’altra proposizione, oppure è fuori dalla parola. Se è fuori dalla parola è nulla, se è in un’altra proposizione allora la proposizione p indica un’altra proposizione che si troverebbe fuori dalla proposizione p. Dunque la proposizione p parlerebbe della proposizione q, ma è la proposizione p a parlare della proposizione q. Questo vuol dire che la proposizione q si trova inserita nella proposizione p? Ciò che sappiamo è che è p che ne sta parlando, ma allora l’esistenza di q è l’esistenza stessa della proposizione p? Ma la proposizione q può esistere anche senza la proposizione p? Ma allora chi dirà la proposizione q? Può una proposizione dire se stessa? Che cosa ci stiamo chiedendo chiedendoci questo?

2.40 Riflettiamo ancora. Ciascun elemento linguistico risulta tale in quanto inserito in una catena linguistica che ne sta dicendo, e indichiamo la catena linguistica, o stringa, che sta dicendo qualcosa circa l’individuo x con "proposizione". Allora, tenendo conto di questo, dicendo che la proposizione p parla della proposizione q dico che la proposizione q di cui si tratta esiste solo e unicamente nella proposizione p che ne sta parlando, perché se esistesse altrove, allora la proposizione q sarebbe detta da una proposizione r. La questione che si pone è se la proposizione r possa dire, oppure no, esattamente ciò che dice la proposizione p. Questione importante, perché se la risposta è affermativa allora un qualunque individuo x rimane identico qualunque sia la stringa in cui è inserito, vale a dire che è individuabile in quanto tale, e non dalla proposizione in cui è inserito, cioè esiste al di fuori della proposizione che lo dice.

2.41 Che cosa mi consente di definire un individuo x? Una proposizione parrebbe, e dunque un individuo x è definito dalla proposizione in cui è inserito, ma potrebbe essere definito altrimenti, cioè da un’altra proposizione? Se non posso definirlo che attraverso una proposizione allora sarà questa proposizione a farlo esistere così come mi si impone nel discorso, e quindi dovrà necessariamente la sua esistenza alla proposizione in cui è inserito. Ma se p è differente da q, che cosa mi fa pensare che l’individuo x, inserito in p, rimanga lo stesso se inserito in q? Quale criterio mi consentirà di stabilire l’uguaglianza che vado cercando? Se l’individuo x deve la sua esistenza alla proposizione p, se lo tolgo dalla proposizione p cessa di esistere, e ciò che considererò nella proposizione q sarà un’altra cosa, un altro individuo y che trae la sua esistenza dalla proposizione q e che esiste unicamente nella proposizione q. La questione può porsi più semplicemente in questi termini: posso dire l’individuo x senza dire la proposizione p in cui è inserito o, più propriamente, da cui è detto? Posso dire qualcosa senza dirlo? No. E dire x fuori da p equivarrebbe appunto a dire qualcosa senza dirla, giacché non posso dire nulla se questo che dico non è inserito in una stringa linguistica, in una proposizione. Allora, se dico x, allora necessariamente dico p che lo afferma.

2.42 Siamo giunti così alla questione centrale nella riflessione intorno alla retorica, vale a dire alla considerazione che ciò che si dice è tale perché inserito nella proposizione che lo sta dicendo, e che lo fa esistere così come si impone nel discorso.

2.43 Ma allora segue che, qualunque cosa possa dirsi, questa non sarà nulla fuori dalla proposizione in cui è inserita, e pertanto se voglio sapere ciò che ho detto (ciò che ho fatto), dovrò necessariamente considerare la proposizione con cui ho detto ciò che ho detto. Se dico x, ciò che faccio è dire p, la proposizione in cui x esiste. Facciamo un esempio. Supponiamo che affermi che la tale persona è interessante. Ciò che ho detto è: "la tale persona è interessante". Proponiamo di chiamare x la proposizione "la tale persona è interessante". Allora, per quanto detto precedentemente, affermare x è dire la proposizione p in cui x è inserita e per cui esiste. Qual è la proposizione p? È questa la questione retorica che stiamo considerando dicendo che è possibile affermare x soltanto se esiste la proposizione p.

2.44 Affermare "la tale persona è interessante" non è, pertanto, l’indicazione di uno stato di fatto, per quanto soggettivo, parziale, provvisorio o aleatorio possa pensarsi, perché lo stato di fatto di cui si sta parlando, cioè che la tale persona è interessante, è soltanto la formulazione di un atto locutorio che esiste in quanto produce un atto illocutorio (cioè "fa" qualcosa) che la fa esistere. Più semplicemente, l’affermare che la tale persona è interessante non si limita a indicare uno stato di cose come se le parole fossero segni dell’affezione dell’anima, ma produce un discorso da cui e per cui l’affermazione che la tale persona è interessante diventa "qualcosa" anziché essere nulla. È soltanto diventando "qualcosa", che esiste, e esistendo mi chiama, e chiamandomi mi fa proseguire a dire.

2.45 La conseguenza immediata di tutto ciò è che dicendo qualcosa questo qualcosa non mi rinvierà alla "cosa " di cui sto parlando, ma alla considerazione che sto dicendo qualcosa, ponendomi dunque di fronte a ciò che mi sta muovendo a dire, cioè al discorso (o proposizione) in cui ciò che sto dicendo è inserito. È questo che abbiamo inteso dire nella proposizione 2.27, cioè l’eventualità di potere "disporre" di un numero illimitato di elementi di rinvio in ciascun atto di parola, per cui ciascun significante non si pone come una funzione a un solo argomento ma l’argomento risulta una variante non definibile né decidibile. Questo comporta che non sia mai possibile credere che a un significante sia associabile soltanto un solo altro elemento linguistico, e pertanto l’impossibilità stessa di credere alcunché.

2.46 Consideriamo ancora l’esempio precedente e cioè l’affermare che la tale persona è interessante. Per quanto detto, questa affermazione presa di per sé non significa nulla ma diventa qualcosa soltanto quando mi accorgo di ciò che sto facendo dicendola. Con "accorgersi" intendiamo qui il prendere atto che la proposizione "la tale persona è interessante" non ha propriamente un unico rinvio a qualcosa di già stabilito, ma rinvia a una indefinibile quantità di elementi e che pertanto la proposizione non è decidibile. Non essendo decidibile lascia in sospeso qualunque possibilità di attribuire a questa proposizione un qualunque significato che possa stabilirsi in quanto tale, e allora non potrò non considerare che ciò che faccio dicendo x, e cioè dire che la tale persona è interessante, posso farlo perché esiste la proposizione p. In altri termini, ciò che mi si pone è che "x se e soltanto se p" e, d’altra parte, "se q allora y", cioè se l’elemento x è inserito in un’altra proposizione questo sarà necessariamente un’altra cosa, cioè dirò un’altra cosa.

2.47 È esattamente questo che impedisce di "credere", cioè l’imbattersi nella considerazione che ciò che sto dicendo è tale soltanto perché inserito nel discorso che sto facendo, e lo stesso possiamo dire del discorso che lo sta facendo naturalmente, da qui l’impossibilità di attribuire un significato a cui possa credere, credere come se fosse l’interpretante logico finale che, per definizione, dovrebbe costringere a credere perché necessariamente vero, o reale, che è lo stesso.

2.48 Tutto ciò che non è ciò che non posso non accogliere si pone dunque nei termini su esposti, vale a dire come ciò che non posso credere. Non posso crede nulla naturalmente, ma questo a maggior ragione. Da qui la considerazione che quanto dico, se non segue necessariamente da ciò che non posso non accogliere se parlo, e se mi sto ponendo queste questioni è perché evidentemente parlo, allora non mi costringe in nessun modo ad alcun assenso, ma mi "costringe" a confrontarmi con ciò che sto dicendo poiché non ho più alcun referente fuori dalla parola che mi consenta di supporre che ciò che sto dicendo non sia una produzione del mio discorso. Ciò che intendiamo esattamente con "produzione" lo definiremo nella sezione seguente, dedicata alla questione poetica. Ma proseguiamo e consideriamo più attentamente ciò che stiamo dicendo. Abbiamo parlato di confronto con ciò che si dice, ma di che cosa si tratta esattamente?

2.49 Consideriamo una qualunque proposizione p che dice x, dicendola, per quanto detto fino ad ora, mi imbatto necessariamente nella serie transfinita delle connessioni con cui e per cui esiste e che mi impediscono di arrestarmi su qualunque significato io voglia attestare. Ora, di fronte all’inarrestabilità della stringa in cui è inserita x come potrò deciderla? Che cosa mi troverò di fronte se non ciò che faccio in ciò che sto dicendo, e cioè dire qualcosa la cui encatalisi rimarrà sospesa rinviandomi così incessantemente, non alla "cosa" che dico, ma al fatto che sto dicendo? In altri termini, non esistendo tale x fuori dalla proposizione p che la dice sarò rinviato continuamente alla proposizione p, che non farà altro che rinviarmi a un’altra proposizione di cui la proposizione p costituisce l’elemento x e così via.

2.50 Mi trovo allora nell’impossibilità di attestarmi a un qualunque significato possa incontrare se intendiamo con "significato" l’encatalisi di una variante. Forse possiamo a questo punto avanzare una nozione di "significato" differente, e cioè potremmo dire che il "significato" di x è la proposizione p che la afferma e in cui x è inserita e da cui trae la propria esistenza.

2.51 Dicendo che il significato di x è p, diciamo che ciascuna volta che si dice x si dice necessariamente p, ma così come x è "detta" da p, allo stesso modo p è detta dalla proposizione che dice p. La proposizione che dice p la chiameremo p1. La proposizione p in questo caso diventa un elemento inserito in un’altra proposizione che non potrà essere p ma un’altra proposizione, p1 appunto. p non può dire se stessa perché dicendosi dice p1, fa qualcosa che è altro rispetto a sé.

2.52 La questione del significato è complessa, e comporta alcuni paradossi. Infatti è impossibile reperire il significato di una parola, ma per potere fare questa affermazione devo già utilizzare il significato. Se questo è un paradosso, allora un paradosso deve avere un significato oppure no? Se non ha alcun significato allora è nulla e pertanto non c’è nessun paradosso. Ma non soltanto. Se il significato non può stabilirsi in nessun modo poiché non posso risalire all’infinito fino al primo significato, allora non potrò mai stabilire il significato di nulla, se non posso stabilirlo come posso sapere che cos’è un significato, se non posso saperlo come posso sapere che non c’è? Saprei che non c’è che cosa esattamente? Ma se ne sto parlando allora qualcosa c’è evidentemente, se ne sto parlando lo sto usando, ma che cosa? Il significato? Non so che cosa sia, né posso saperlo in alcun modo. Ma ne sto parlando. Domandarsi che cosa sia qualunque cosa è forse domandarsi qual è il rinvio necessario di questa cosa? Sappiamo che ciascuna cosa non può non avere un rinvio perché se no non sarebbe qualcosa, sarebbe nulla. Dunque ha un rinvio, ma quale? Uno qualunque? No, perché se così fosse non sarebbe distinguibile, sarebbe tutti i significati e quindi sarebbe nulla e non sarebbe utilizzabile in alcun modo, non potremmo neppure parlare di significato perché parlandone non faremmo nulla, non ci direbbe assolutamente nulla. Ma se parlo di qualcosa di cui non posso stabilire nessun significato, come posso dire che sto parlando di quella cosa, di quale cosa sto parlando a questo punto, come so che sto parlando di qualche cosa? Ma ne sto parlando. Ma la particella pronominale "ne" sarebbe vuota, non starebbe al posto di nulla. È possibile domandarsi qual è il significato del significato? Ci stiamo domandando: il linguaggio ci consente di fare questo? Per potere dire che non c’è significato dobbiamo utilizzarlo, e non c’è altro modo di considerare la questione. Per potere parlare dobbiamo utilizzare il significato, cioè dobbiamo sapere che cosa stiamo dicendo, se stiamo dicendo qualcosa. Per potere dire "Per potere parlare dobbiamo utilizzare il significato, cioè dobbiamo sapere che cosa stiamo dicendo" abbiamo già compiuta un’operazione che prevede necessariamente l’uso di qualcosa che chiamiamo significato, cioè l’uso di significanti e non di altri, perché? Che cosa ci costringe a usare questi significanti e non altri? Il loro significato, cioè per potere dire esattamente che "Per potere parlare dobbiamo utilizzare il significato, cioè dobbiamo sapere che cosa stiamo dicendo" sono costretto a usare quei significanti e non altri soltanto perché così è fatto il gioco del linguaggio e queste sono le sue regole? Allora, in questo caso, il significato è effettivamente l’uso che il linguaggio impone per un certo significante, e non l’uso che ne fa il parlante, ma il parlante è il linguaggio e pertanto non può trasgredirne l’uso, non può perché per poterlo trasgredire deve averlo già riconosciuto, e se lo ha riconosciuto è perché è già in ciò che vuole trasgredire ma non solo, per potere trasgredire deve utilizzare ciò che vuole trasgredire, e non c’è via di uscita. Questa trasgressione si pone come figura retorica. Ma l’uso del linguaggio deve potere essere partecipabile, per definizione, poiché in caso contrario nemmeno chi parla, cioè il linguaggio, potrebbe esistere. Non potrebbe perché nessun elemento sarebbe riconoscibile e soltanto il significato consente il riconoscimento, pertanto non potrebbe essere utilizzato. I significati sono delle regole per giocare il gioco del linguaggio? Che cosa si deve intendere allora con significato? L’invariante che mi consente di riflettere su questa nozione? Ma quale invariante, se fosse invariante potrebbe essere identificata, ma abbiamo visto che non può perché non è possibile risalire al significato ultimo, o primo, come si preferisce. Che si parli, è un’invariante, perché in nessun modo posso non farlo, quindi è, necessariamente. Il significato è necessario? Parrebbe di si, è necessario che sia, ma parrebbe non essere necessario sapere che cosa sia. Ma se non fosse qualcosa di determinato non sarebbe più un significato. Allora è necessario che sia e che sia qualcosa di determinato. Ma come determinarlo? Che cosa non possiamo non dire del significato? Che il significato è ciò che la parola non può non dire, per dire qualunque cosa possa dirsi? In questo caso il significato sarebbe strutturale all’atto di parola, nel senso che senza tale significato la parola non potrebbe darsi, ma a questo punto possiamo distinguere la parola dal significato? E come? Ma allora la parola non ha un significato, è un significato. L’atto di parola è tale perché è un significato, essere un significato è dire. Non possiamo dire altrimenti, la sua stessa "esistenza" è un significato. Il dirsi di una parola è il suo significato. Dicendosi rinvia a un’altra, apre a un’altra, esiste per un’altra. Perché sia parola occorre che sia inserita nel sistema chiuso di cui parla De Saussure. Se mi chiedo come un significato sia trasmissibile, come una parola possa ripetersi, mi chiedo come lo so, cioè come posso saperlo, ma se me lo chiedo allora posso farlo. Il significato è il potere fare questo. Non posso ripetere due volte un fonema: come lo so? Perché la disposizione dei fonemi è la stessa? Nell’iposema "matita", i sei fonemi di cui è composto non sono ripetibili allo stesso modo due volte. Cosa vuol dire allo stesso modo? Che riconosco una disposizione dei suoni? Con molta approssimazione. Ma approssimazione a che cosa se non c’è mai stato nulla a cui approssimarsi? La parola "matita" produce la matita, e questo è il suo significato: produrre la matita. Senza la parola "matita", ciò che io penso immagino e uso non esisterebbe, non posso chiedermi qual è il significato del significato così come non posso chiedermi qual è la parola della parola, la parola dice se stessa, ciascun’altra è un’altra parola e non sarà quella di prima. Per esempio, si misura muovendo dall’idea di misurabilità? Senza questa idea non potrei misurare nulla. L’impossibilità a misurare procede dal fare funzionare questa parola rispetto a sé, come se la misura dovesse misurare se stessa, o la parola parlare se stessa. La parola non può parlare se stessa, perché dicendosi una parola è già un’altra perché non è ripetibile la combinatoria in cui e per cui esiste. Tutto ciò ricorda la teoria dei tipi di Russell, la differenza sta nel fatto che Russell vuole eliminare i paradossi, qui indicano invece che la parola non è fondabile da altro che da ciò che produce dicendosi, e che non ha nulla che la garantisca. La parola "misura" è la misura? Si, perché è questa parola che significa la misura e la fa esistere in quanto tale. Questa parola è il significato di "misura", significando la misura, è la misura. Occorre riflettere ancora sulla nozione di rinvio. Ciascuna parola deve potere rinviare a se stessa per potere essere tale, cioè essere una parola. Se così non fosse ciascuna parola non esisterebbe ma svanirebbe nel nulla, cioè non sarebbe mai esistita. Una parola rinvia a se stessa in quanto dicendosi si ascolta, cioè dicendosi si fa esistere, nel senso che rinviandosi può dirsi. Questo "può dirsi" instaura il linguaggio in quanto tale, dicendo che "può dirsi" stiamo dicendo che il linguaggio è questo. Allora questo rinviare non è altro che il dirsi della parola. Ma il dirsi della parola è anche il suo significato? Con significato dovremmo intendere allora il dirsi della parola, infatti dicendosi è già un significato, in caso contrario non potrebbe "dirsi". Ma cosa distingue il significato dalla parola? Nulla parrebbe, la parola è tale perché dice qualcosa, se non dicesse nulla non sarebbe una parola, potremmo dire per definizione. Allora il significato è la parola in quanto dice qualcosa, cioè in quanto è parola. Stabilire il significato sarebbe qui stabilire la parola, individuarla, ma l’individuarla già comporta che la parola possa rinviare a se stessa, e dunque per potere stabilirla devo potere rinviarla a se stessa. Con significato allora intendiamo la parola che si dice, che si sta dicendo. Per dirsi ciascuna parola dunque occorre che rinvii a se stessa e quindi che possa stabilirsi proprio per questo rinvio: si stabilisce rinviandosi, cioè dicendosi, in quanto dicendosi dice se stessa e dicendo se stessa significa, si fa segno di sé, si fa segno per sé. Che la parola si dica è il significato, perché dicendosi la parola si individua, si fa quello che è. Allora il significato è ciò che la parola dice, ma per dirsi è già significato, ma quale? La lingua è un sistema chiuso in quanto non c’è uscita dal linguaggio. Essendo un sistema chiuso ciascun elemento deve la sua esistenza all’esistenza di ciascun altro, una minima variazione in un elemento comporta una variazione in tutto il sistema. Allora ciascun elemento è ciò che gli altri comportano che sia, ciascun elemento significa ciò che gli altri elementi comportano che significhi. Per stabilire il significato di un elemento occorrerebbe stabilire quello di ciascun altro elemento della lingua, in un rinvio infinito. Questo è l’intoppo che inevitabilmente si incontra nel tentativo di stabilire il significato di un elemento linguistico, e cioè che tale significato deve la sua esistenza a quello di tutti gli altri componenti della lingua cui appartiene il significato che si intende considerare. Dicendo che il significato è la parola stessa diciamo appunto che la parola, per esistere come tale, deve essere un significato, cioè deve dire qualcosa ma soprattutto deve potere dire se stessa. Questo può farlo soltanto se è un significato, cioè se rinvia a se stessa. Ma questo rinvio non è altro che la parola che si dice, come affermato più sopra, ma per dirsi devono esistere anche tutte le altre parole, quindi rinvia a se stesa se e soltanto se rinvia anche a tutte le altre parole. In altri termini, una parola è se stessa se e soltanto se è anche, simultaneamente, tutte le altre parole, se da queste altre parole riceve non soltanto il significato ma anche la possibilità che esista il significato. Ma allora il significato pertiene alla langue o alla parole, al sistema o alla sua esecuzione? Evidentemente non può distinguersi la questione in questi termini, tuttavia è una domanda che occorre farsi poiché dall’impossibilità connessa con questa domanda può trarsi una riflessione: in nessun modo può distinguersi la parola dal significato in cui e per cui esiste. Con questo non diciamo nulla più di quanto abbiamo già detto, ma stabiliamo qualcosa che non possiamo non dire. Ma che cosa possiamo dire? Che stiamo dicendo naturalmente, e con questo diciamo il significato di ciò che stiamo dicendo, in quanto se diciamo queste parole è perché esistono queste parole, e quindi esiste il significato che non è altro che queste parole. Dire che esiste una parola e dire che esiste in quanto significato è la stessa cosa.

2.53 In conclusione, ciò a cui siamo giunti ci consente di aggiungere un elemento alla nostra riflessione, e cioè che nulla mi autorizza a pensare che esista fuori dalla parola ciò che sto dicendo. Questione non del tutto marginale se si tiene conto che tutto il discorso occidentale si sostiene generalmente proprio sull’idea che ciò che si dice sia soltanto l’espressione di qualcosa che è fuori da ciò che si sta dicendo. Abbiamo obiettato a questo che è possibile ipotizzare l’esistenza di qualcosa che esista fuori dalla parola così come è possibile ipotizzare l’esistenza di qualunque altra cosa, ma che non possiamo dire altro che ciò che il linguaggio, la sua struttura, ci consente di dire, impedendoci allo stesso tempo di uscirne perché uscendone non potrei formulare nessuna proposizione di nessun tipo. Dire che il linguaggio non esisterebbe se non ci fosse qualcosa di cui il linguaggio parla non ci dice nient’altro che ciò che stiamo facendo, cioè parlare di qualcosa, rinviandoci di nuovo al linguaggio che stiamo utilizzando per fare queste o altre considerazioni. Occorre tenere conto di ciò che ha mosso le nostre riflessioni, e cioè la costruzione di un insieme di asserzioni che risultasse costruibile unicamente tenendo conto della grammatica e delle procedure del linguaggio, e non negabile per la stessa struttura del linguaggio. Tenere conto di questo è valso a considerare soltanto ciò che la struttura della parola rende necessario accogliere in quanto negandolo mi troverei nell’impossibilità di proseguire. Qualunque altra cosa è stata volutamente non considerata perché negabile, cioè non "necessaria" nell’accezione indicata più sopra.

2.54 Le cose che abbiamo incontrate ci hanno condotti alla considerazione che dicendo qualcosa, qualunque cosa sia, non posso non confrontarmi con questo qualcosa nei termini che abbiamo detti, e cioè come ciò che continua a interrogarmi incessantemente, rinviando continuamente ciò che dico a ciò che sto facendo nel dirlo, e che pertanto con questo dovrò confrontarmi ciascuna volta. Confrontarsi con ciò che si sta dicendo apre alla questione poetica, dove si tratta appunto di intendere ciò che si produce dal confrontarsi con ciò che si dice.