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4. POLITICA             

                                                       

4.1 Che cosa intendiamo con politica? Intendiamo propriamente ciò che stabilisce per ciascuno le condizioni che fanno muovere, pensare e dire nel modo in cui avviene che questo si faccia. Abbiamo avanzata questa nozione perché qualunque definizione possa darsi di "politica", questa implicherà necessariamente quella da noi stabilita, nel senso che qualunque cosa possa pensarsi che la politica sia questa comporterà necessariamente le condizioni che si danno perché ciascuno si muova e pensi nel modo in cui questo avviene. Come tutte le definizioni inevitabili, anche questa dice molto poco, tuttavia può suggerirci una direzione lungo cui muovere senza necessariamente dovere dare per acquisite cose che potrebbero non esserlo affatto.

4.2 Ciò che faccio tiene conto di ciò che so? Se si in che modo? Proviamo a considerare questo: se mi muovo in una direzione, cioè faccio qualcosa, questo qualcosa che faccio è mosso da qualcosa o è mosso da nulla? Vogliamo dire, ciò che faccio o mi trovo a fare è inserito in una combinatoria linguistica, o è fuori dalla parola? Affermare che sia fuori dalla parola non ci porta molto lontani, anzi, ci arresta immediatamente perché ci troveremmo di fronte a aporie e affermazioni contraddittorie che abbiamo già considerate in precedenza e che ci impedirebbero di proseguire a parlare, dicendoci che non stiamo parlando nel momento stesso in cui facciamo questa affermazione. Allora dobbiamo considerare che ciò che faccio non è fuori dalla parola, e che pertanto ciò che faccio è mosso dalla parola. Questo lo dobbiamo accogliere necessariamente, qualunque altra cosa, no. Dunque sono mosso da ciò che dico. Ciò che dico tiene conto di ciò che so? Che cosa so? Ciò che le proposizioni che affermo costruiscono (Cfr. 2.14). Se una proposizione è costruibile dalle regole del linguaggio allora fa esistere ciò che dice per il solo fatto di essere costruibile: è costruibile dunque è "possibile", dunque necessariamente esiste in qualche "mondo possibile".

4.3 Allora ciò che so è soltanto ciò che le mie proposizioni costruiscono? Ma potrei sapere ciò che le mie proposizioni non possono costruire, e in che modo? Se una proposizione non è costruibile nel linguaggio che cos’è esattamente? È nulla? Sarebbe fuori dal linguaggio, fuori dalla parola, e quindi sarebbe nulla né potrei saperne nulla in alcun modo. Ciò di cui non posso sapere nulla è nulla, perché non potrei in nessun modo dire che cos’è, essendo nulla.

4.4 Tutto questo ci indica che ciò che io penso di essere, o di non essere, è ciò che le proposizioni in cui mi trovo costruiscono e che, letteralmente, mi producono. Potremmo anche dire che non c’è libertà fuori dalla parola, qualunque sia la nozione di libertà che si voglia accogliere, poiché fuori dalla parola non posso né pensare né dire nulla intorno alla libertà che, pertanto, sarebbe nulla. Detto questo consideriamo ciò che più ci interessa, cioè cosa mi muove a dire, a pensare e a fare.

4.5 Se in nessun modo posso pensarmi fuori dalla parola, allora evidentemente mi penso attraverso la parola. Abbiamo visto che risulta straordinariamente difficile distinguere ciò che dico da ciò che "sono", e che ciò che "sono" è tale unicamente per via di ciò che dico. Dicendo questo stabiliamo soltanto che ciò che ciascuna volta mi trovo a dire, qualunque cosa sia, merita di essere considerata in un modo differente da come la considera il discorso religioso, merita cioè di essere accolta come ciò attraverso cui e per cui esisto. In altri termini, ciò che dico è la sola cosa di cui posso disporre per accorgermi di esistere, con tutto ciò che questo comporta. Se io dico una qualunque cosa x, questa produrrà effetti su quanto seguirà, effetti che costituiranno non soltanto ciò che dirò, ma anche e soprattutto ciò che farò, essendo ciò che dirò la condizione di ciò che farò. Ma come avviene tutto questo?

4.6 Abbiamo considerato più sopra che il significato di un elemento x sia la proposizione p che l’afferma (Cfr. 2.50), in questi termini possiamo aggiungere che l’attribuzione di un significato a un elemento x lo fa esistere in quanto tale, ma possiamo anche aggiungere che la proposizione p che lo afferma, lo denota anche in modo assolutamente preciso. Preciso perché inserito nella proposizione p, non perché il significato sia decidibile o isolabile, naturalmente. Questa precisione non è altro che il prendere atto che l’elemento x è significato dalla proposizione p, soltanto questo. Questo mi costringe a considerare l’elemento x unicamente tenendo conto della proposizione p, e pertanto che il significato che attribuisco a x, qualunque esso sia, fa esistere x. Se x esistesse prima del significato che gli si attribuisce allora x sarebbe la garanzia di esistenza per la proposizione p che l’afferma, e tutto il linguaggio sarebbe garantito da questo. Occorre considerare se accade così nel discorso religioso, perché se così fosse allora sarebbe possibile intendere come funzionano effettivamente e precisamente il pensiero religioso e tutte le credenze che questo produce.

4.7 Dunque immaginare che ciò che dico sia l’espressione di qualcosa che esista prima di ciò che dico. È questa la questione che occorre considerare, poiché è soltanto questo che mi consente di credere all’esistenza delle cose in quanto tali, in quanto fuori dalla parola. Il fatto che si sia prevalentemente pensato in questi termini non significa molto, né ci esime dal proseguire a riflettere. Che qualcosa esista fuori dalla parola, o prima della parola, posso pensarlo ma non posso dimostrarlo perché non posso dimostrare la dimostrazione né la dimostrazione della dimostrazione e così via. Ma se dico che qualcosa esiste fuori dalla parola sono costretto a dimostrarlo, perché invoco, in ciò che dico, la verità della mia asserzione e la invoco perché so che non potrebbe essere altrimenti e non potrebbe essere altrimenti perché, in caso contrario, ciò che affermo sarebbe soltanto un opinione, e qualunque opinione o ipotesi che sia, non è nulla se ciò che opino, o ciò che ipotizzo non ha come referente la verità cioè, in questo caso, un ultimo elemento della catena a cui arrestarmi, e posso arrestarmi soltanto se ciò che affermo coincide con l’ultimo elemento, e l’ultimo elemento è, appunto, la verità, o la realtà delle cose, come si preferisce. Adaequatio rei et intellectus. Adeguamento a cui non è possibile sottrarsi se si intende stabilire l’esistenza o la verità di un’asserzione, qualunque essa sia, poiché se affermo qualcosa, qualunque cosa, non potrò credere che questa affermazione sia necessariamente falsa, non lo posso per una questione grammaticale, che mi impedisce di affermare come vero qualcosa che so necessariamente falso. Non posso perché non potrei proseguire, non s’instaurerebbe nessuna direzione nel discorso, che pertanto, non avendo nessuna proposizione p che possa affermarlo non avrebbe, per quanto detto prima, nessun significato. Non direbbe nulla, non dicendo nulla sarebbe nulla.

4.8 Allora ci si trova qui in una condizione difficile, perché se affermo che qualcosa esiste fuori dalla parola devo dimostrarlo, ma non posso dimostrarlo perché la dimostrazione non esiste fuori dalla parola, pertanto non esiste nulla fuori dalla parola, e questo sono costretto ad affermarlo proprio per la stessa struttura di quel discorso che voleva affermare che esiste qualcosa fuori dalla parola. Utilizzando lo stesso criterio di quel discorso, quel discorso fallisce. La nota crisi dei fondamenti dice in definitiva proprio questo, che nulla è fondabile né dimostrabile se si utilizza un criterio di dimostrabilità che trae la sua garanzia da qualcosa posta fuori dalla parola. Ciò che può fare una dimostrazione è affermare che ci si è correttamente attenuti alle regole stabilite per dimostrare, soltanto questo.

4.9 Occorre a questo punto notare che ciò che stiamo chiamando discorso religioso non è soltanto il discorso della religione, ma il discorso della fisica, della filosofia, delle scienze in generale, cioè di ciascun discorso che immagini di potere dire qualcosa di vero, di potere fare affermazioni vere, o credibili. In questi termini, con discorso religioso si intende il discorso più accreditato, quello di cui ciascuno in definitiva si avvale per affermare ciò che afferma. Ed è questa la questione politica di cui stiamo parlando, la struttura del discorso di cui ciascuno si avvale, che lo sappia oppure no. Ma se il discorso religioso non è né sostenibile né dimostrabile, come accade che sia accreditato come l’unico possibile? Non sappiamo se possiamo rispondere a questa domanda. Tuttavia ciò che possiamo dire è soltanto che la struttura del linguaggio consente la costruzione di proposizioni che negano se stesse cioè, come in questo caso, negano di essere nella parola. Ciò che risulta inevitabilmente da questa posizione è che l’affermare questo comporta credere inevitabilmente a ciò che questo sta affermando, e cioè che esiste qualcosa fuori dalla parola, e quindi comporta agire in questa direzione. Cosa dice questa direzione? Dice che se le cose stanno così allora non è possibile né ammissibile che vi sia qualcuno che, ragionevolmente, affermi il contrario, se lo fa, o è in malafede oppure deve essere ricondotto a ciò che la ragione afferma, a ciò che è naturalmente evidente, a ciò che, in definitiva, tutti accolgono come evidente, o come reale, che è la stessa cosa.

4.10 Emerge qui una notevole prossimità tra il discorso religioso e il discorso terroristico, quello che deve ricondurre ciascuna cosa alla ragione, cioè a ciò che deve essere, a ciò che occorre che sia, che è meglio che sia. È evidente che con "ragione" può intendersi qualunque cosa piaccia pensare. Ciò che a noi interessa è che ciascun discorso tende a costituirsi, necessariamente, come l’unico possibile, l’unico ragionevole. Se così non fosse allora questo discorso si porrebbe come opinabile e quindi potenzialmente falso. Dovrebbe cioè considerare l’eventualità di essere falso. Ma se credo che ciò che sto dicendo possa essere falso, posso ancora crederlo vero? È una questione complessa, che merita di essere considerata attentamente.

4.11 Supponiamo che io affermi x e che creda che affermare x sia falso. Allora posso affermare che x è falsa solo perché so che x è falsa e, allo stesso modo, sapendo che è vera, potrei affermare che x è falsa soltanto perché so che è vera, quindi sapendo di affermare una cosa falsa, e so che è falsa perché so che la sua negazione è vera. Devo, in ogni caso, sapere che una delle due è vera per potere affermare che l’altra è falsa. Considerazione molto banale che tuttavia pone una questione di notevole interesse per ciò che stiamo considerando. Infatti posso mentire se e soltanto se so qual è la verità, esattamente come avviene per una figura retorica che può porsi come variante, quindi essere colta come figura retorica, soltanto se esiste qualcosa che non è una figura retorica. Eppure, nonostante tutto questo possa sembrare insolito, per potere fare una figura retorica occorre che qualcosa non lo sia. Per potere mentire occorre che qualcosa non sia menzogna. Ma tutto questo è qualcosa che abbiamo già incontrato in precedenza, e cioè una considerazione intorno alle regole del linguaggio che vietano formulazioni che affermano di negare se stesse perché senza significato. Dire che per mentire occorre qualcosa che sia menzogna è rilevare una regola linguistica.

4.12 Ma se non fosse soltanto una regola linguistica? Allora la regola linguistica avrebbe qualcosa che la precede, e questo qualcosa avrebbe stabilita una regola linguistica in base a un criterio di verità preesistente alla regola linguistica. È possibile negare questa affermazione? È possibile negandola, cioè dicendo semplicemente che non è così. La nostra negazione non avrebbe migliore possibilità di essere dimostrata di quanto ne abbia la sua contraria, e con questo non andremo molto lontani. Tutto questo ci sta dicendo che possiamo affermare qualunque cosa o il suo contrario con uguale legittimità, poiché né l’una cosa né l’altra potranno essere dimostrate vere. Se allora il mio assenso all’una cosa o all’altra non può essere sorretto da alcun criterio fondato, che cosa deciderà il mio assenso? Lo deciderà ciò che credo. È questa la questione politica, perché ciò che credo è ciò che dico, quindi è di ciò che dico che occorre che tenga conto per sapere ciò che credo.

4.13 Ma come può avvenire che tenga conto di ciò che dico? Occorre che tenga conto in prima istanza del fatto che sto dicendo, e che ciò che sto dicendo si produce nel linguaggio e non altrove, che non c’è, in altri termini, nessun referente fuori da qualunque parola che possa pensare o dire. A questo valgono le proposizioni affermate precedentemente riguardo al vero, perché ciò che mi impedisce di tenere conto del fatto che sto parlando, e che cioè le cose che dico si stanno producendo nella parola, è proprio l’esistenza del criterio di verità di cui, sapendolo oppure no, mi avvalgo per dire ciò che dico. In assenza di tale criterio non riuscirei a stabilire che qualcosa è così come penso o credo che sia, ma resterebbe solo e soltanto un elemento linguistico che attende di essere interrogato da ciò che segue e da ciò che fa dicendosi. Né potrei, affermando una qualunque cosa, pensare di avere affermato qualcosa sub specie aeternitate, qualcosa di eternamente vero.

4.14 È pur vero che generalmente non è in questi termini che ciascuno afferma ciò che afferma. Tuttavia se consideriamo con più attenzione, rileviamo che spesso affermare qualcosa è crederlo vero, o potenzialmente vero, che è la stessa cosa. È la stessa cosa per un motivo straordinariamente semplice, e cioè che se non pensassi che potesse essere vero non potrei sostenerlo, perché l’ho affermato vero, e se lo considero vero escludo che sia falso, fino a prova contraria. Ma l’eventuale prova contraria non sposta in nessun modo la questione poiché, di nuovo, crederei vera l’altra cosa, con la stessa certezza e con lo stesso criterio, cioè do il mio assenso soltanto a ciò che credo vero, nel modo in cui so che è vero, o in cui posso verificarlo tale.

4.15 Ma da dove viene ciò che credo? C’è una condizione perché io possa credere vero qualcosa? Lo abbiamo appena visto, la condizione è che creda che qualcosa possa essere fuori dalla parola. Ma come posso pensare che qualcosa sia fuori dalla parola? E perché? Del come possa pensarsi qualcosa fuori dalla parola abbiamo detto in precedenza, ma è il perché che ci interroga ora. Che cos’è un perché? Se è la chiusura della domanda, allora non possiamo farne nulla, ma forse possiamo considerarlo un rinvio, un’altra formulazione della questione. In questi termini allora il "perché" ci consente di riflettere ancora, di aggiungere ancora, nel senso che la domanda circa il perché indica soltanto quanto possa ancora aggiungersi a quanto detto, quanto possa necessariamente trarsi da quanto detto, accogliendo che ciò che è stato detto "significa" ciò in cui è inserito: letteralmente, ciò che lo dice. Posta in questi termini la domanda relativa al come possa pensarsi qualcosa fuori dalla parola cessa di cercare la "ragione", la causa alla quale il fenomeno debba ricondursi, causa che non può intendersi allora se non nel gioco linguistico cioè sapendo perfettamente che la "causa" che posso reperire non è che un altro rinvio della domanda all’interno del gioco linguistico, prodotta dal gioco linguistico.

4.16 A questo punto che cosa ci stiamo chiedendo chiedendoci perché pensare qualcosa fuori dalla parola? Che cosa non posso non dirne? Nulla. C’è l’eventualità che non ci stiamo chiedendo nulla. E questo è quanto abbiamo appreso lungo la ricerca che abbiamo compiuta fino a questo punto. Non possiamo dirne nulla perché non è possibile reperire la catena linguistica che produce questo pensiero, possiamo soltanto prendere atto di ciò che si sta pensando.

4.17 Tuttavia, se chiedendoci questo perché non ci stiamo chiedendo nulla, qualcosa pure facciamo dicendolo, e propriamente facciamo esistere la possibilità di porre questa domanda. Ma diamo anche per acquisito che se esiste la domanda allora questa ha necessariamente una risposta, per il solo fatto che esista la domanda? Se mi domando qualcosa, potrebbe dirsi, allora la formulazione della domanda è possibile, nel senso che posso costruirla, e se posso costruirla allora esiste, ma se la risposta deve essere ciò che la domanda comporta allora anche la risposta necessariamente esiste, da qualche parte, in qualche "mondo possibile". Naturalmente questo discorso immagina che qualunque "mondo possibile" abbia un’esistenza fuori dalla parola, e che pertanto se posso pensare che qualcosa esista allora posso anche credere che esista fuori dalla parola, poiché penso che la stessa esistenza sia magicamente esistente.

4.18 Se non lo fosse, magicamente esistente, allora la parola, ciascun discorso, non potrebbero pensarsi garantiti da qualcosa che necessariamente è. Ma se ciò che necessariamente è, è soltanto il fatto che sto parlando, qualunque cosa faccia o non faccia, quale garanzia potrò cercare se non quella che ciò che sto dicendo è nella parola, è nella struttura del linguaggio? E questo cosa garantisce? Soltanto che proseguo, parlando, a parlare.

4.19 Che cosa cerco cercando una garanzia fuori dalla parola? Evidentemente qualcosa che si faccia carico di ciò che dico, di ciò che faccio. Farsi carico è qui il farsi carico degli effetti della parola, di ciò che la parola produce. Ciò che la parola produce non può essere inserito in nessun ordinamento, in nessuna gerarchia, poiché ciascuna volta effetto di ciò che segue. Ma ciò che segue è prevedibile? Questa domanda, al pari di quella intorno al perché pensare che esista qualcosa fuori dalla parola, non può farsi. Non può farsi nel senso che comporterebbe la possibilità dell’esistenza di qualcosa che, fuori dalla parola, sia in attesa di essere detta, dunque già esistente di per sé e accessibile alla parola. Ma la parola non può accedere a ciò che è fuori dalla parola. Come potrebbe, attraverso che cosa, con quali mezzi?

4.20 Quanto detto più sopra annuncia una questione di un certo interesse, vale a dire la considerazione della parola come strutturalmente anarchica, senza origine, senza padroni, senza finalità. Strutturata in modo tale da impedire l’accesso a ciò che ne è fuori, ma strutturata in modo tale da poterlo pensare senza tuttavia poterne uscire. Curiosa questione. Gli umani si sono interrogati da sempre intorno a questo: che cosa c’è fuori dalla parola. Qui ci siamo interrogati intorno a cosa comporti il fatto che non possa darsi un fuori dalla parola, e che cosa comporti l’affermare questo tenendo conto di trovarsi nella parola. Considerare la parola come strutturalmente anarchica induce a riflettere su aspetti che inevitabilmente si pongono, e cioè l’impossibilità della comunicazione, e la solitudine.

4.21 Dell’impossibilità della comunicazione possiamo dire che è strutturale alla parola, e che pertanto non può né togliersi né aggirarsi. Non può togliersi in quanto se io mi produco parlando allora ciò che si produce non può né essere riprodotto né può essere gestito. Più sopra, abbiamo considerato la questione in questi termini: "Perché non può non avvenire che una proposizione si trasformi in un’altra? Consideriamo la proposizione p, dicendo p faccio qualcosa, e cioè dico p. Può un elemento linguistico non essere in una struttura linguistica? Evidentemente no, se è in una struttura linguistica è perché a questo elemento è connesso un altro elemento, se non lo fosse, sarebbe isolato, cioè fuori dalla struttura linguistica, ma se fosse fuori dalla struttura linguistica non sarebbe un elemento linguistico. Allora, se p è un elemento linguistico, allora "se p allora q", cioè un altro elemento linguistico. Allora, una qualunque proposizione p che afferma x, comporterà un’altra proposizione q a cui la proposizione p che afferma x rimanda e dalla quale è rinviata, nel senso che la proposizione q sarà il significato della proposizione p, essendone il significato dirà ciò che p è, facendo esistere p in quanto p. Dunque, qualunque proposizione dica, questa, dicendosi, farà qualcosa che non è più la proposizione p ma sarà la proposizione q, perché è attraverso la proposizione q (che è il significato della proposizione p), che io posso conoscere la proposizione p, cioè posso dirla. In altri termini, dicendo p, dico già necessariamente q, cioè non posso isolare p da q. Per questo abbiamo affermato che ciascuna proposizione, dicendosi, non è più la stessa proposizione ma si trasforma, nello stesso dirsi, in un’altra proposizione". Abbiamo ripreso questo lungo passo perché illustra esattamente quanto intendiamo dire dicendo che la comunicazione è strutturalmente impossibile, e cioè che ciò che si dice non è riproducibile né isolabile né trasmissibile. Da qui, ciò che abbiamo indicato come solitudine risulta la condizione in cui ciascuno necessariamente si trova e da cui trae le condizioni per proseguire a parlare, e quindi a esistere. Ma che cosa intendiamo con comunicazione? Ma dire che la comunicazione è impossibile non è una formulazione paradossale? Se non fosse possibile cosa staremmo dicendo, e in che modo potremmo dire, e dicendo questo non stiamo forse comunicando che la comunicazione è impossibile? Se qualcosa fosse, non sarebbe comunicabile, diceva Gorgia di Lentini enunciando uno tra i più formidabili paradossi del discorso occidentale. Ma che cosa intendiamo con comunicazione? La trasmissione di qualcosa a qualcuno, cioè un rinvio, un rinvio di questo significante "comunicazione" ad altri significanti e questi ad altri ancora e così via all’infinito. Ma ponendo la comunicazione come una procedura linguistica dico soltanto che questo significante ha una funzione, che è appunto quella di rinviare ad altri significanti cui è connesso dall’uso che il linguaggio impone per esistere. Il significato di "comunicazione" è il fatto che questo significante posso dirlo, che cioè esiste in quanto rinvia necessariamente ad altri. Essendo chiuso, il sistema di cui stiamo parlando e che stiamo usando, nel domandarci qual è la funzione del significante "comunicazione" incontriamo l’impossibilità di stabilirlo perché il farlo ci rinvierebbe ad altri significanti. Chiederci se possiamo stabilire, nel senso di provare il significante "comunicazione", non ha allora nessun senso, salvo quello di costringerci a considerare che lo stiamo usando come una procedura linguistica.

4.22 La questione politica si configura qui in un modo insolito, vale a dire come la questione della solitudine strutturale a ciascuno, e dei modi e dei termini per mezzo dei quali ciascuno possa trarre, da questa solitudine, la sola garanzia della propria esistenza. Con questo non stiamo dicendo che cosa la politica dovrebbe essere, ma ciò che la politica (se con politica si intende ciò che abbiamo indicato più sopra) non può non essere, e cioè il più straordinario esercizio intellettuale.

4.23 Ma perché fare un esercizio intellettuale, e che cos’è? Compiere un esercizio intellettuale, tenuto conto di quanto abbiamo detto fino ad ora, non è altro che praticare la parola come atto costitutivo del parlante, cioè di chi la sta di fatto praticando e quindi reperendo mano a mano ciò che si produce, come ciò che lo produce. Accogliersi in quanto parlanti è allora accogliere quanto la parola produce dicendosi e, ancora, cessare necessariamente di potere credere a qualunque cosa ponga se stessa come fuori dalla parola.

4.24 Ma allora compiere questo esercizio intellettuale impedisce che io creda? Non potrebbe essere altrimenti, poiché praticare la parola nei modi e nei termini suindicati comporta necessariamente il trovarsi ciascuna volta in ciò che si dice, e mai fuori da ciò che si dice. Pertanto la sola garanzia di cui possa avvalermi è che ciò che dico sta producendo ciò che sto per dire, e che io sono esattamente questo.

4.25 Incomincia allora a intravedersi il motivo per cui può essere di un certo interesse fare questo esercizio intellettuale. Un motivo "politico", per cui compiendo questo esercizio interrompo la possibilità stessa di credere qualunque cosa. E se smetto di credere, che cosa succede? Succede una cosa terribile, e bella.

4.26 Proviamo a considerare questo aspetto. Se smetto di credere, qualunque cosa sia, allora tutto ciò che mi si impone nel discorso non è, evidentemente, credibile, e se non è credibile allora non posso dare il mio assenso, se non posso dare il mio assenso allora lo considero soltanto un fatto linguistico. Se lo considero soltanto un fatto linguistico lo interrogo o, più propriamente, lascio che questo elemento linguistico interroghi il discorso in cui mi sto trovando. Lasciando che interroghi il discorso in cui mi sto trovando reperisco il significato (nell’accezione data più sopra a questo termine) di ciò che sto dicendo, reperisco cioè che cosa faccio dicendo ciò che dico. Ciò che faccio dicendo ciò che dico si costituisce allora come rinvio, ciò che mi consente di proseguire a parlare. Nessun criterio di verità in tutto questo, nessun elemento credibile o creduto vero, soltanto una catena linguistica dove si produce ciò che sono.

4.27 Dal momento che inevitabilmente mi trovo in ciò che dico, qual è la qualità di ciò che dico? La sua risorsa? Se non posso attestarmi su nessun termine posto come l’ultimo della catena allora sono assolutamente libero di aggiungere altro a ciò che si dice, nulla me lo impedisce. Aggiungere altro a ciò che si dice vale a interrogarlo come un altro elemento linguistico. Presa in uno spostamento continuo, la parola può attestare soltanto se stessa in quanto dicentesi. Che io dica, resta stabilito dal fatto che dico qualcosa, dicendo.

4.28 Se non posso credere, ciò che mi troverò a fare, a pensare, come terrà conto di questo? Potrò muovermi, pensare come se credessi? Abbiamo esclusa questa possibilità, esattamente come abbiamo esclusa la possibilità di potere credere vero ciò che so essere falso. Ma allora non soltanto penserò in un altro modo ma mi muoverò anche necessariamente in un altro modo, poiché abbiamo visto che non posso fare altro che ciò che dico, anche se non necessariamente lo credo. Infatti, non credendo, faccio, ma che cosa faccio?

4.29 Posso credere che dio esista, credere di avere l’angoscia, posso credere alla legge di gravità, all’armonia cosmica, al bene, al giusto, al vero, credere all’inconscio, credere che le cose esistano, credere a qualunque cosa. Ma che cos’hanno in comune queste affermazioni? Affermano la stessa cosa?

4.30 Se non le credessi vere potrei affermarle? Abbiamo considerata precedentemente l’impossibilità di questa operazione, non resta che considerare che se credo qualcosa lo credo anche vero necessariamente, e che pertanto credo anche che essendo vero esista, seppure come possibilità. Ma questa possibilità deve potere essere vera, perché altrimenti sarebbe necessariamente falsa, e io non potrei in nessun modo crederla vera, né potrebbe esserlo. Dunque non potendo crederla vera non la crederei. Allora affermare, per esempio, che le cose esistono, comporta credere questa affermazione vera, necessariamente vera. Le affermazioni che abbiamo elencate precedentemente hanno in comune la necessità di essere vere per potere essere credute, ma siccome sono credute, sono necessariamente vere.

4.31 Chiedersi se le cose, qualunque esse siano, esistano, o siano vere, che cosa comporta, che senso ha? Che senso ha qualunque domanda io mi ponga? Consideriamo due aspetti: la domanda che mi pongo, qualunque essa sia, immagina, o sa, che ciò che chiede sia qualcosa che attende dalla risposta la conferma che ciò che crede sia credibile e quindi per i motivi detti prima, vero o potenzialmente vero. Potenzialmente, ma abbiamo visto che ciò che credo essere potenzialmente deve, necessariamente, essere pensato vero. Potenzialmente vero indica infatti che se non fosse vero allora sarebbe necessariamente falso. L’essere in potenza infatti attende di essere in atto perché solo in questo trae la sua esistenza, se l’atto non la facesse esistere allora la potenza sarebbe nulla. Ancora una questione grammaticale, perché se indico che qualcosa "può" qualcosa indico anche, necessariamente, che esiste qualcosa che la potenza può, in caso contrario la potenza è nulla. Ma allora la domanda posta in questi termini pone ciò che domanda come necessariamente esistente? Parrebbe, poiché se così non fosse la domanda non attenderebbe nulla dalla risposta, meno che mai la conferma di esistere in quanto tale, fuori dalla parola. In altri termini, la domanda, così come la stiamo considerando, cioè nei termini del discorso religioso, pensa la risposta come proveniente da un luogo dove le cose necessariamente esistono in quanto tali, dando per acquisito che tutto sia fuori dalla parola, fuori dal gioco linguistico.

4.32 Fuori dal gioco linguistico, abbiamo detto, ma che senso ha una domanda fuori dal gioco linguistico? Posso chiedermi qualcosa fuori dalla parola? Evidentemente no, ma c’è l’eventualità che qualunque domanda possa pormi questa abbia la stessa forma e lo stesso senso della domanda: come so che questa è la mia mano? Domanda che non ha nessuna risposta, come abbiamo già visto, perché domandarselo è vietato dalle regole del linguaggio che mi impediscono l’accesso all’origine del linguaggio barrandolo con la regressio ad infinitum in cui inevitabilmente mi troverei, e dunque non farei nulla. Che cosa faccio domandandomi se questa è la mia mano? Enuncio soltanto delle regole linguistiche? Certamente la domanda può formularsi unicamente per via di queste, ma è solo questo ciò che faccio? Dipende da che cosa mi aspetto dalla mia domanda.

4.33 Ponendomi una domanda non enuncio soltanto regole e procedure linguistiche, constato che mi trovo nel linguaggio e che tali regole e procedure funzionano in un certo modo, che è quello che incontro, quello attraverso cui parlo, e parlando posso fare anche quella domanda. Se qualunque domanda io mi ponga questa ha la struttura della domanda circa il sapere come so che questa è la mia mano, allora che cosa mi aspetto dalla domanda? Nulla, evidentemente ma, per esempio, ponendomi questa domanda ho l’occasione di riflettere su ciò che sto facendo, in questo caso nulla. Ma riscontrare che sto facendo nulla mi consente di accorgermi che la domanda, qualunque domanda, se si aspetta che qualcosa fuori dalla parola risponda, allora fa nulla, è nulla.

4.34 Considerare questo non è poco, anzi è qualcosa che non è consentito dal discorso religioso, che ponendo i termini che abbiamo posti non può in nessun modo proseguire a esistere, non può in nessun modo proseguire a pensarsi. E se non è più pensabile che succede? Nulla, semplicemente ciò che ciascuno fa non può in nessun modo essere confrontato con nessun criterio di verità, e pertanto non può muovere nessuno a difendere un’opinione, una credenza, una certezza, qualunque essa sia. Sarebbe, in altri termini, la totale assenza di "valori", che esistono unicamente perché si dà per acquisito che esista un criterio di verità che certifica ciò che "vale" e ciò che no, ciò a cui dare il proprio assenso oppure no. Soltanto questo: l’impossibilità di credere, qualunque cosa. Con questo siamo giunti alla questione centrale in ciò che andiamo dicendo. La questione politica si pone qui in tutta la sua portata, costringendoci a prendere le distanze da tutto ciò che comunemente viene creduto, accolto, considerato degno di muovere all’assenso.

4.35 Proviamo a fare un esempio, consideriamo la nozione di male. Per definirlo seguiremo ciò che abbiamo accolto in precedenza e cioè ciò che non può non dirsene. In questo caso si tratta di questo, della distanza instaurata, dalla parola, fra ciò che dico e ciò che si fa dicendo. In altri termini, il male è pensabile come ciò che allontana, da dio, dalla verità, dal giusto, dal bene, o da qualunque altra cosa piaccia pensare. Detto questo, consideriamo l’eventualità che tutto ciò non possa pensarsi, allora la distanza di cui abbiamo detto non è più il male, non è più nulla, se non l’effetto del dirsi delle cose e del loro trasformarsi dicendosi. Ma che ne è allora della possibilità della certezza del criterio di verità, quello accreditato al momento, qualunque esso sia. Come potere ancora acconsentire all’idea di giusto, di bene, di male o di qualunque altra cosa si tratti? L’obiezione che viene rivolta a questo punto è che in tali frangenti saremmo in balia del nulla, del caos, in definitiva della più totale e irreversibile ingestibilità delle cose. Obiezione non del tutto infondata, anche se un po’ terroristica perché anche se può pensarsi, tuttavia questo non ci dice assolutamente nulla se non che ci troviamo di fronte all’enunciazione di un’altra credenza, di un’altra assunzione di un criterio di verità del quale si richiede l’assenso e di cui, ci sembra, di avere già detto a sufficienza.

4.36 Abbiamo detto, dell’obiezione citata poco prima, che non è del tutto infondata e infatti non ha torto a affermare che nulla potrebbe essere gestito. Infatti ciò che stiamo avanzando è proprio questo, che le cose, cioè le parole, non siano gestibili, prevedibili, ma si seguano l’una l’altra producendo altre parole secondo una logica di cui posso sapere qualcosa soltanto dopo, cioè solo dopo che ho detto posso sapere che cosa sia intervenuto in ciò che ho detto, che cosa si sia prodotto, che cosa in definitiva abbia fatto parlando. Questo è quanto posso fare, qualunque altra cosa è totalmente arbitraria, si pone cioè fuori dalla parola come fosse il padrone del gioco linguistico, il padrone della parola, l’idea stessa di dio, prodotta a questo scopo: garantire che le cose, le parole non siano arbitrarie, non vengano da altre parole, da qualcosa che non può stabilirsi e che, anzi, impedisce di stabilire alcunché, ma da qualcosa di fermo, di ultimo, dall’ultima parola, da dio appunto, qualunque cosa piaccia possa pensare con questo significante.

4.37 Possiamo indicare con "dio" ciò che per Peirce è l’interpretante logico finale, per la scienza la realtà ultima delle cose, quella per cui è possibile sapere che si sta progredendo verso la verità e non andando in nessuna direzione, cioè assolutamente a caso, per Popper la verità del criterio di falsificabilità, e molte altre cose di cui non ci interessa fare l’elenco. Quindi una nozione di dio molto ampia. Diciamo che in questa occasione ci siamo avvalsi della più accreditata delle tradizioni. In principio era il verbo, recita la Bibbia, e alla fine? Domanda legittima, se si considera che individuando l’origine, la fine è già segnata. Come accade.

4.38 La politica della parola, avremmo potuto titolare questa sezione che sta volgendo al termine, poiché abbiamo considerato che non è necessario accreditare tutto ciò, ma è assolutamente arbitrario. Essendo opinabile non è necessario. Ma dobbiamo considerare soltanto ciò che risulta necessario, cioè non negabile? No, semplicemente ci siamo occupati soltanto di questo aspetto. Ma, già che abbiamo posta la questione consideriamo per un istante ciò che non è necessario. Una poesia, per esempio, non chiede di essere considerata vera o falsa, né lo richiede una frase musicale. Ma è proprio così?

4.39 Ciò che si afferma in una qualunque poesia, indipendentemente dal fatto che piaccia oppure no, procede da regole e procedure linguistiche oppure no? Evidentemente si, non esisterebbe in caso contrario. Queste regole e procedure stabiliscono il criterio entro cui può dirsi qualcosa, e dicono che ciò che il poeta sta dicendo non è altro da quello che sta dicendo, e cioè se sta dicendo che "il naufragar m’è dolce in questo mare" non sta dicendo che "il naufragar non m’è dolce in questo mare". Considerazione banalissima, che ci dice soltanto che ciò che si dice è quello, e non altro, e che non tiene in nessun conto di alcun criterio di verità, poiché non posso negare di dire mentre sto dicendo. Allora affermare che "il naufragar m’è dolce in questo mare" afferma qualcosa che mi interroga. Interrogandomi mi induce ad aggiungere altre parole, sempre differenti, sempre aperte ad altre parole, esattamente come accade fuori dal discorso religioso. La poesia, una frase musicale, non chiedono di essere verofunzionali, invitano all’ascolto. Ma possono farlo perché inserite in una combinatoria linguistica di cui sono fatte, e tenere conto di questo consente di accoglierle esattamente così come accade di accogliere ciascun discorso. Ciascun discorso è esattamente come una frase musicale, non "vuole" dire nulla, né richiede alcun consenso, non stabilisce nulla all’infuori di sé, all’infuori di quello che sta dicendo e di quello che sta facendo.

4.40 Siamo giunti così alla conclusione di questa sezione intorno alla politica, ricerca che ci ha condotti a considerazioni che riteniamo di un certo rilievo, e a instaurare, o almeno a proporre un modo di pensare non del tutto acquisito in precedenza. Il lavoro che occorre fare a questo punto è immenso, si tratta di affrontare la parola così come accade, considerarla nel suo dirsi, in ciascun atto, in ciascuna circostanza. Porsi al suo ascolto, con cui intendiamo l’acconsentire al farsi della parola, in ciascun atto linguistico, in ciascun atto cioè in cui si esiste.