3. POETICA
3.1 Quanto affermato nelle sezioni precedenti ci induce a considerare quanto avviene parlando in un modo particolare, e cioè tenendo conto del fatto che qualunque cosa dica, questa ha degli effetti su ciò che seguirà, e ciò che seguirà avrà effetti su ciò che tutto questo produce, cioè me che parlo. Supponiamo che io dica x, questa x che ho detta produrrà effetti in ciò che seguirà la x, ma in che modo? Da quanto detto in precedenza non potrà non tenere conto della proposizione che dice x, dunque x sarà ciò che la proposizione che la dice, dice. x sarà ciò che p dirà che x è.
3.2 Abbiamo introdotta una questione nuova rispetto a quanto detto in precedenza, e cioè me che parlo come effetto di ciò che dico. Che cosa so di me? Tutto ciò che so è ciò che posso dire. E le sensazioni che avverto? La gioia, la paura, la fame e l’infinità di altre cose che avverto? Tutto questo può dirsi che esiste soltanto nella parola? Se teniamo conto di quanto detto nelle ultime proposizioni intorno alla retorica dovremmo dire di si. Consideriamo per esempio la gioia, se non posso dirne, nel senso che è fuori dalla parola, è "gioia"? Se non posso dirlo non è "gioia" né nessun’altra cosa. Lo stesso vale per ciò che posso intendere con "provare" la gioia. Che cos’è provare qualcosa fuori dalla parola? È nulla, perché fuori dalla parola non c’è nessun "provare", ma nel senso che non c’è il significante "provare"? E se non c’è il significante "provare" allora non posso provare nulla? Parrebbe. Per quanto bizzarra possa apparire la questione non abbiamo altro modo di affrontarla, sempre tenendo conto che ci siamo rifiutati fin dall’inizio di compiere atti di fede, grazie ai quali possiamo invece affermare che fuori dalla parola provo qualunque cosa e il suo contrario. Ciò che non posso non accogliere è soltanto che qualunque cosa avverta, provi o esperisca, non posso saperne nulla fuori dalla parola non potendone dire nulla e che, pertanto, è nulla.
3.3 Tutto ciò potrebbe sembrare una questione squisitamente nominalista, poiché l’uso delle virgolette allude all’utilizzo di un termine in quanto termine, in quanto elemento linguistico, mentre lo stesso termine, senza virgolette, dovrebbe indicare la cosa che è detta dal termine e nella nostra riflessione non abbiamo tenuto conto di questa differenza, utilizzando indifferentemente un termine e il suo nome. Ma esiste davvero questa differenza? Consideriamo se è sostenibile la proposizione che la afferma.
3.4 Dunque che cosa distingue il nome e il nominato, può il nominato essere fuori dalla parola? Non sarebbe né il nominato né qualunque altra cosa, sarebbe nulla. Si dice che "mangiare" non sia un verbo performativo, cioè non fa ciò che dice, nel senso che non mi sfamo dicendo che mangio, dunque il nome non è il nominato, se con "nominato" intendo ciò che mi sfama. La questione è posta in modo tale da ingannare, richiamando il "ciò che mi sfama" come qualcosa di assolutamente indubitabile. Ma consideriamola più attentamente. Posso dire "mangio" fuori dalla parola? Di nuovo stiamo utilizzando le virgolette, ma questa volta affrontiamo la questione in termini più radicali. Togliamo le virgolette: posso dire che mangio fuori dalla parola? Se si, che cosa dico dicendo questo? Nulla evidentemente, perché abbiamo detto di essere fuori dalla parola e quindi non posso dire nulla. Dunque non dico nulla. Però mi sfamo, potremmo dire di rimando. Ma lo sfamarmi è di nuovo un significante, se dico qualcosa, se no non dico nulla e siamo daccapo.
3.5 Consideriamo ancora il nome e il nominato. Il nome è il nome di qualcosa o è il nome di nulla? Se è il nome di nulla è nulla, se è il nome di qualcosa questo qualcosa sarà il nominato. Parrebbe, in questi termini, che non possa parlarsi di nome senza il nominato non essendo il nominato senza nome nulla neppure lui, poiché per essere nominato deve essere, per definizione, nominato da un nome, senza il quale non è nominato. Allora la distinzione fra nome e nominato è grammaticale anziché ontologica, non esiste il nome fuori dalla parola e quindi fuori dalla struttura linguistica che mi consente di parlarne, lo stesso vale per il nominato, evidentemente. La disputa intorno agli universali ha tentato, di volta in volta, di attribuire l’esistenza di qualcosa al suo nome o alla cosa stessa, ponendo sia in un caso che nell’altro il nome o il nominato fuori dall’atto linguistico, come ipostasi tra loro contrapposte. Non è pensabile il nome senza il nominato perché le procedure linguistiche me lo vietano. Tutto qui.
3.6 Considerando le nozioni di nome e di nominato abbiamo sfiorata la questione estetica, cioè chiedendoci se ciò che sento sia, oppure no, fuori dalla parola. Abbiamo affermato che ciò che sento lo sento perché inserito nella struttura linguistica e abbiamo visto che non potrebbe essere altrimenti, perché in caso contrario non sarebbe nulla e nemmeno potremmo porre la questione se sia oppure no nella parola. Non abbiamo inteso liquidare la questione estetica in queste poche battute, ma semplicemente ne abbiamo considerato soltanto l’aspetto che ci interessa per affrontare la questione poetica.
3.7 Torniamo dunque a quanto detto in apertura, e cioè a ciò che si produce parlando, ai suoi effetti. Abbiamo affermato che io che sto dicendo sono l’effetto di ciò che dico. In che modo? Dobbiamo tenere conto di tutto ciò che abbiamo detto in precedenza per potere proseguire in termini precisi e senza aggiungere nulla che non sia strettamente necessario affermare. Allora diciamo che "io" è in prima istanza un significante, un elemento linguistico che ha una funzione grammaticale precisa, indica il parlante, cioè me in questo caso. Cosa vuol dire che indica il parlante? Che il parlante può dire o pensare di essere tale solo parlando? Evidentemente si, e considerare questo comporta considerare l’io come un operatore deittico, un operatore linguistico che indica la direzione del discorso, indica cioè, di volta in volta, in quale direzione sto procedendo. L’"io" di cui stiamo parlando indica che la direzione di ciò che sto dicendo riporta necessariamente alla, o alle proposizioni che hanno consentito di dire ciò che si sta dicendo. In altri termini impone al discorso il rinvio a ciò che sta costruendo ciò che si sta dicendo.
3.8 Ponendo l’"io" come istanza grammaticale, più precisamente come operatore deittico, abbiamo sbarazzato l’io da ogni attribuzione ontologica o psicologistica, dicendo soltanto che è un operatore che consente di svolgere delle operazioni linguistiche. Il fatto che questo operatore consenta l’operazione suddetta, e cioè imporre al discorso il rinvio a ciò che sta costruendo ciò che si sta dicendo, può comportate la costruzione di un altro elemento, e cioè quello che afferma che ciò che costruisce ciò che si sta dicendo non è un elemento linguistico ma ciò che costruisce anche il linguaggio, facendosene in questo modo padrone, e pertanto immaginandosi fuori dalla parola. Si tratta allora di tenere conto che tutto questo pensiero non potrebbe avvenire senza una struttura linguistica che me lo consenta o, per dirla altrimenti, che non posso uscire dal linguaggio in nessun modo. Tenuto conto di questo il pensiero suddetto cessa di potere essere creduto fuori dalla parola e può riprendere a interrogare senza essere costretto a compiere atti di fede nei confronti di ciò che la parola costruisce.
3.9 Questione importante questa, perché è in buona parte intorno a questo che gioca il discorso occidentale, immaginando il linguaggio come lo strumento di chi lo usa senza pensare che questo "chi" sia lui stesso un effetto dell’uso del linguaggio che sta "usando". Non considerare questo è l’unico modo per potere pensarsi l’autore del linguaggio, e pensare l’io come soggetto ontologico.
3.10 Allora dicendo "io" dico soltanto che le parole che sto dicendo sono le stesse per cui esisto? Parrebbe, se io sono l’effetto di ciò che si sta dicendo nel discorso in cui mi trovo, allora occorrerà considerare con una certa attenzione questo discorso dal momento che, letteralmente, mi costituisce. Dunque se dovessi pensare a che cosa il linguaggio fa esattamente, dovrei rispondere che mi costituisce.
3.11 Ma cosa stiamo dicendo, dicendo questo? Che non esisterei se non parlassi, se fossi fuori dalla parola? Certamente anche questo, ma non solo. Ciò a cui ci stiamo avvicinando è la considerazione che parlando mi costruisco. Parlando. Riprendiamo una proposizione formulata poco più sopra tratta dalla considerazioni precedenti fatte intorno alla retorica, dove abbiamo affermato quanto segue: "Supponiamo che io dica x, questa x che ho detta produrrà effetti in ciò che seguirà la x, ma in che modo? \ ...\ non potrà non tenere conto della proposizione che dice x, dunque x sarà ciò che la proposizione che la dice, dice. x sarà ciò che p dirà che x è". Ci troviamo di fronte a qualcosa di sorprendente: se dico qualcosa, questo qualcosa non soltanto costruisce ciò che segue, ma costruisce anche me in quanto sono ciò che si sta dicendo nel discorso che si va facendo. Potrebbe apparire che in tutto ciò io non abbia nessuna autonomia, come una sorta di burattino nelle mani della parola, ma tra me e la parola, che differenza c’è?
3.12 Se non c’è differenza (considereremo in seguito la nozione di differenza) allora, effettivamente, la questione non ha nessun senso cioè non posso pormi la questione senza incontrare un rinvio all’infinito, ma se c’è differenza in che cosa consiste? Come mi distinguerò da ciò che dico? Attraverso quale criterio che non comporti necessariamente una struttura linguistica rinviandomi di conseguenza e immediatamente alla considerazione inevitabile che soltanto attraverso ciò che dico posso distinguermi da qualunque cosa, così come posso anche pensare di non distinguermi, ma torneremmo al punto di partenza. Pare che ci troviamo costretti a considerare che, ciò che sono, non possa distinguersi da ciò che sto dicendo.
3.13 Non c’è alcun dubbio che tutte le proposizioni che siamo andati dicendo siano sofismi. Un sofisma è, in questo senso, la formulazione di una proposizione che non può essere negata perché la sua negazione comporterebbe immediatamente la negazione della stessa possibilità di negare alcunché. Un sofisma ha pertanto questo carattere di costrizione poiché si avvale solo e unicamente delle regole e delle procedure linguistiche, che non possono essere negate se si sta parlando. Detto questo, proseguiamo.
3.14 Qualunque cosa io dica, se tengo conto di quanto siamo andati affermando nelle pagine precedenti è necessariamente un sofisma oppure no? Se io dico qualcosa e pongo ciò che dico nella parola, ne considererò gli effetti nelle parole che seguiranno, e ciò che sto dicendo sarà "significato" soltanto da ciò che dice ciò che sto dicendo, dalla proposizione in cui è inserito ciò che sto dicendo. Pertanto non avrò alcun riferimento fuori dalla parola per potere stabilire, per esempio, se ciò che sto dicendo sia giusto oppure no, se sia vero oppure no. Allora ciò che dico rimarrà sospeso a ciò che si sta dicendo, a ciò che sto facendo dicendo ciò che dico. Rimanendo sospeso in tale maniera mi costringerà a confrontarmi con ciò che ho dinanzi, se questo non è garantito da nulla che sia fuori dalla parola. Ma confrontarmi con ciò che sto dicendo comporta immediatamente che consideri la proposizione in cui mi trovo, e pertanto l’accoglierla come ciò che mi costituisce. Costituzione non eterna, ovviamente, è sufficiente che la proposizione si trasformi in un’altra, cosa che non può non avvenire, perché io sia assolutamente differente da ciò che la proposizione precedente aveva imposto.
3.15 Perché non può non avvenire che una proposizione si trasformi in un’altra? Riprendiamo una proposizione fatta in precedenza, precisamente al punto 1.46, lì abbiamo affermato che "… dicendo p faccio qualcosa, e cioè dico p. Può un elemento linguistico non essere in una struttura linguistica? Evidentemente no, se è in una struttura linguistica è perché a questo elemento è connesso un altro elemento, se non lo fosse sarebbe isolato, cioè fuori dalla struttura linguistica, ma se fosse fuori dalla struttura linguistica non sarebbe un elemento linguistico. Allora, se p è un elemento linguistico, allora "se p allora q", cioè un altro elemento linguistico". Allora, una qualunque proposizione p che afferma x, comporterà un’altra proposizione q a cui la proposizione p che afferma x rimanda, e dalla quale è rinviata, nel senso che la proposizione q sarà il significato della proposizione p, essendone il significato dirà ciò che p è, facendo esistere p in quanto p.
3.16 Dunque qualunque proposizione dica questa, dicendosi, farà qualcosa che non è più la proposizione p ma sarà la proposizione q, perché è attraverso la proposizione q (che è il significato della proposizione p) che io posso conoscere la proposizione p, cioè posso dirla. In altri termini, dicendo p dico già necessariamente q, cioè non posso isolare p da q. Tenendo conto di quanto affermato nella proposizione 2.51, dobbiamo precisare che l’atto illocutorio, che abbiamo indicato come la proposizione p1, si pone come significato di p (ciò che p fa dicendosi), ma p1 non può non rinviare a un’altra proposizione, q appunto, perché p1 non esiste fuori dalla parola, ma rinvia a un’altra proposizione per cui esiste. Per questo abbiamo affermato che ciascuna proposizione, dicendosi, non è più la stessa proposizione ma si trasforma nello stesso dirsi in un’altra proposizione.
3.17 Se sono l’effetto delle cose che dico, cioè delle proposizioni che intervengono nel mio discorso, c’è l’eventualità che mi trasformi allo stesso modo? Perché non dovrebbe accadere? E cosa vuol dire che mi trasformo parlando? Si tratta di considerare che ciascuna volta che mi trovo a parlare (o a pensare), ciò che si produce dalle mie parole costituisca il solo elemento che mi consente di pensare che esisto, e non ne ho altri, per cui non ho nessun altro modo di pensarmi in altro modo, e pertanto mi trovo a pensare di essere esattamente nei termini in cui sto parlando. Questo, e soltanto questo "so" di essere: ciò che sto dicendo, che lo sappia oppure no, che lo voglia oppure no.
3.18 Questo ci conduce a pensare che non sono "io" a produrre il discorso, dicendo ciò che voglio dire, ma che mi sto producendo insieme con il discorso. Non che sia parlato dal linguaggio, ma parlando esisto, e esisto parlando. Ciò che "voglio" non è altro che ciò che la proposizione che mi costituisce mi impone all’esistenza, cioè ciò che non posso non considerare in quanto ciò che mi chiama a dire. A continuare a dire.
3.19 Affrontando la questione poetica, cioè ciò che si produce nell’atto di parola, abbiamo incontrate alcune questioni alle quali abbiamo risposto dicendo ciò che non possiamo non dire. In altri termini, ciò che non posso non sapere è che sto parlando, è la sola cosa di cui posso dire con assoluta certezza perché, come abbiamo indicato in più occasioni, non posso negarla in nessun modo. Quando Wittgenstein si pone l’interrogazione circa la certezza affronta le questioni essenziali della parola. Scrive dunque Wittgenstein: "Se volessi mettere in dubbio che questa è la mia mano, come potrei fare a meno di dubitare che la parola "mano" abbia un qualsiasi significato? Sembra dunque che questo lo sappia di sicuro. Ma per meglio dire. Il fatto che io usi senza alcuno scrupolo la parola "mano" e tutte le restanti parole della mia proposizione; si, il fatto che non appena volessi anche solo provarmi a dubitarne mi troverei di fronte al nulla, mostra che l’assenza del dubbio fa parte dell’essenza del gioco linguistico, che la domanda "Come faccio a sapere che..." tira per le lunghe il gioco linguistico, o addirittura lo toglie via". Sta dicendo qui una cosa che ci interessa, e cioè che se non accolgo il gioco linguistico (se non gioco il gioco del linguaggio), allora non c’è nulla. Ma non soltanto, aggiunge infatti che porsi delle domande intorno al perché del gioco linguistico riporta inevitabilmente al gioco linguistico che non posso non accogliere nel momento stesso in cui mi pongo queste domande.
3.20 Perché non dubito che questa sia una mano? Perché dubitarne non mi direbbe assolutamente niente, è come se mi mettessi a giocare un altro gioco per il quale è prevista un’altra grammatica, non quella in cui mi trovo, non quella che sto utilizzando, per questo non mi direbbe assolutamente niente. Se incominciassi a dubitare di chiamarmi Luciano allora dovrei incominciare a dubitare di ogni cosa, e allora non ci sarebbe più assolutamente nulla di cui dubitare, e lo stesso dubitare del fatto che mi chiamo in un certo modo a questo punto non avrebbe più nessun senso, perché non ci sarebbe più nulla di sicuro rispetto a cui dubitare.
3.21 Ciò di cui non posso dubitare è il gioco linguistico. Non posso dubitarne perché il linguaggio stesso me lo vieta dicendomi che non posso dubitare di parlare nel momento stesso in cui parlo. Perché è un divieto? Che cosa intendiamo con "divieto"? Una procedura grammaticale si pone, in un certo senso, come un comando che dice ciò che devo fare per potere proseguire, e pertanto impedisce quelle proposizioni che arresterebbero la parola. Se per esempio affermassi che A è vera e simultaneamente che A è falsa, allora sarebbe come se arrestassi la direzione del discorso, il senso, e mi troverei di fronte all’impossibilità di prendere una direzione, e ciò che dico non avrebbe, letteralmente, nessun "senso". Non essendoci direzione, "senso", come proseguire, in quale direzione? Il divieto di cui si diceva consiste soltanto nell’impedire che la parola si arresti affermando di se stessa di non essere se stessa, che è la forma della contraddizione di cui abbiamo detto nelle sezioni precedenti. La contraddizione dice appunto che la proposizione in questione non può formularsi se si intende proseguire a parlare. Ma è possibile non intendere proseguire a parlare? Se mi dico di non proseguire, già dicendolo sto proseguendo e quindi sono daccapo. E se smetto di parlare? Questa intenzione è formulabile soltanto all’interno di procedure linguistiche senza le quali non potrei in nessun modo formulare questa intenzione. E se sto tacendo? Fuori dalla parola non posso sapere se sto tacendo o se sto parlando dunque, di nuovo, la questione non esisterebbe perché non potrebbe dirsi e se non potesse dirsi non potrei saperne nulla. Ciò di cui non posso sapere nulla è nulla, perché non può darsi né nel pensiero né altrove.
3.22 La questione poetica di cui stiamo parlando testimonia propriamente questo, che se c’è produzione allora si stanno seguendo le regole linguistiche, perché in caso contrario non ci sarebbe nessuna produzione. Posta nei termini di produzione linguistica, la poetica pare essere strutturale all’atto di parola, cioè se c’è atto di parola allora c’è poetica.
3.23 Da quanto detto sembra porsi necessariamente questo, che le parole si producano per via delle procedure linguistiche e che io pertanto sia l’effetto di procedure linguistiche. Potrebbe essere altrimenti? No, se dicendo "io" sono già inserito in procedure linguistiche che stanno operando nel mio dire "io" e che, sole, mi consentono di fare tutto questo.
3.24 Ma dicendo che sono l’effetto delle procedure linguistiche del mio discorso non dico ancora che, in qualche modo, sarebbe possibile per me distinguermi da quello che dico? Ma come potrebbe avvenire? Abbiamo già incontrata tale difficoltà, si tratta ora di intendere che cosa comporta questa impossibilità di distinguermi da ciò che dico. È facilmente avvertibile la portata di tale affermazione: lo scardinamento più radicale della possibilità di potere proseguire a pensare nei termini stabiliti dal discorso religioso. Intendiamo con discorso religioso qualunque discorso che creda di sé di essere garantito o di potere essere garantito da qualcosa posta fuori dalla parola, e cioè dio, l’armonia cosmica, le leggi della natura o qualunque altra cosa piaccia pensare.
3.25 Stiamo considerando in queste pagine la possibilità che si dia l’eventualità di cessare di pensare in termini religiosi, e cioè nei termini per cui è credibile l’esistenza di un criterio di verità, qualunque esso sia, tale che mi consenta di pensare di dire il vero oppure il falso, con tutto ciò che questo comporta. E che cosa comporta? Qualcosa di straordinariamente rilevante, vale a dire il mio modo di pensare e quindi di fare, di decidere, di credere e un’infinità di altre cose di non minore importanza.
3.26 Che cosa produce un criterio di verità che si supponga garantito nei termini che abbiamo indicati prima? La possibilità di credere, in prima istanza. Cosa non da poco se si considera che tutto ciò che ciascuno fa tiene conto di ciò che crede. Né potrebbe essere altrimenti, se crede. Consideriamo ora più attentamente il credere, avvalendoci ancora una volta di alcune riflessioni di Wittgenstein. Scrive nel saggio Della certezza, nella proposizione 103 e seguenti: "E se ora dicessi: è mia incrollabile convinzione che, ecc., anche nel nostro caso questo significa che alla convinzione non sono arrivato consapevolmente, attraverso giri di pensiero ben definiti, ma che essa è ancorata in tutte le mie domande e in tutte le mie risposte, in modo tale che non posso toccarla. \ .\ Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di un’assunzione, hanno luogo già all’interno di un sistema. E precisamente, questo sistema non è un punto di partenza più o meno arbitrario, o più o meno dubbio, di tutte le nostre argomentazioni, ma appartiene all’essenza di quello che noi chiamiamo argomentazione. Il sistema non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto l’elemento vitale dell’argomentazione. \ .\ Il bambino impara a credere a un sacco di cose. Cioè impara, ad esempio, ad agire secondo questa credenza. Poco alla volta, con quello che crede, si costruisce un sistema e in questo sistema alcune cose sono ferme e incrollabili, altre sono più o meno mobili. Quello che è stabile, non è stabile perché sia in sé chiaro o di per sé evidente, ma perché è mantenuto tale da ciò che gli sta intorno. \ .\ Si vuol dire: tutte le mie esperienze mostrano che è così. Ma come fanno? A sua volta, infatti, quella proposizione, che mostrano, fa parte di una loro particolare interpretazione. \ .\ Un bambino potrebbe dire a un altro: io so che la Terra esiste già da molte centinaia di anni, e questo vorrebbe dire: io l’ho imparato. \ .\ La difficoltà consiste nel riuscire a vedere l’infondatezza della nostra credenza." Dice dunque Wittgenstein che la difficoltà consiste nel non riuscire a vedere l’infondatezza della nostra credenza. Cosa impedisce di vederla? Lo ha detto prima, ciò che metto in atto per vederla è, per così dire, fatto dello stesso materiale. Vale a dire che è quel sistema di credenze, proposizioni, immagini, tutto ciò che in definitiva costituisce il mio modo di pensare che mi impedisce di distinguere fra ciò che credo e le cose che incontro, ciò che credo non è soltanto una cosa determinata, precisa, ciò che credo fa parte del modo in cui penso, è il modo stesso che ho di pensare, la mia grammatica.
3.27 Dunque, è questo che produce un criterio di verità, ciò che penso essere la realtà che mi circonda? Parrebbe. Che differenza c’è fra ciò che credo che la realtà sia e ciò che so che la realtà sia? Nessuna. Ciò che so è ciò che credo che sia perché non posso credere vero ciò che so non essere vero, la struttura del linguaggio me lo vieta. Se accolgo la regola grammaticale connessa con la nozione di vero non posso credere vero ciò che so essere falso. E se non accogliessi questa regola allora non potrei pensare al "vero", se non l’accogliessi allora starei giocando un altro gioco. Posso inserire delle varianti nel gioco linguistico, e ce ne siamo occupati nella sezione dedicata alla retorica, ma sono varianti rispetto a regole e procedure che, sole, mi consentono la formulazione delle varianti. Pertanto, il non accoglimento delle procedure linguistiche necessita delle procedure linguistiche non soltanto per potere farsi, ma anche per potere pensarsi.
3.28 Da tutto quanto detto si configura una nozione di poetica particolare, una nozione che indica prevalentemente quanto si produce dal porsi in atto delle procedure linguistiche, cioè dalla parola, e che abbiamo indicata appunto come l’attuarsi delle procedure linguistiche. Tutto questo potrebbe apparire lontano da ciò che la letteratura spesso intende con discorso poetico, ma forse non è proprio così. Se intendiamo con discorso poetico il porsi della parola a confronto con sé, con ciò che produce, con tutto ciò che fa esistere, allora quanto detto fino a questo punto risulta una riflessione che non può non farsi, in quanto segue necessariamente da quanto affermato in precedenza, vale a dire che se gli umani in quanto parlanti parlano, allora fanno necessariamente qualcosa parlando, e la poetica si occupa propriamente di questo qualcosa che, come abbiamo visto, è tutt’altro che marginale, perché decide di ciò che gli umani generalmente chiamano il loro destino, pensando forse di essere mossi da qualcosa di più di quello che dicono.
3.29 Eppure, quanto siamo andati considerando non ci lascia la possibilità di pensare altrimenti, e pertanto ci costringe anche a fare e a agire nella direzione che il nostro discorso ha mano a mano acquistata, portandoci sempre più lontani dal pensiero religioso e costringendoci al confronto, inevitabile a questo punto, con ciò che si fa parlando e soprattutto con ciò che "si diviene" parlando. Abbiamo anche considerate le obiezioni circa l’avere posto il linguaggio come una sorta di padrone assoluto, obiezione di nessun interesse dal momento che per farsi necessita della stessa condizione che intende denunciare, e cioè l’esistenza del linguaggio come condizione per potere fare o pensare qualunque cosa, anche un ingenua obiezione.
3.30 Non resta a questo punto che affrontare la questione più interessante che possa trarsi da quanto considerato fino ad ora. Appena accennata in precedenza, riguarda le implicazioni nel fare, nell’agire, poiché come abbiamo appena detto sono ciò che non posso non pensare, mi muovo necessariamente in quella direzione, non posso non tenerne conto, che lo voglia oppure no, che lo sappia oppure no. Esattamente così come non posso credere vero ciò che so essere falso. Qui non si tratta più di questo ovviamente, ma la struttura linguistica è la stessa, i divieti gli stessi, le procedure le stesse, soltanto non posso più fare come se non sapessi di essere mosso da ciò che dico, ciascun istante, in ciascuna condizione perché ciò che non posso non accogliere diventa parte integrante della mia grammatica. A tutto questo diamo il nome di "politica".