1. LOGICA
1.1 Incominciare a pensare: da ciò che non posso non fare se penso, cioè incominciare dal fatto che se penso dico. Non posso pensare fuori dalla parola, non posso formulare alcun pensiero fuori dalla parola e pertanto fuori dalla parola non c’è alcun pensiero che possa essere pensato.
1.2 Non posso in nessun modo pensare un pensiero o qualunque altra cosa come fuori dalla parola se non attraverso il linguaggio, trovandomi dunque e comunque nella parola. Intendiamo con "linguaggio" la struttura grammaticale, logica e sintattica di cui è fatto l’atto di parola e senza cui la parola non potrebbe darsi.
1.3 Non c’è uscita dal linguaggio. Qualunque via tenti di praticare per farlo questa mi ricondurrà necessariamente al linguaggio attraverso cui ho pensato anche di potere uscire dal linguaggio. Negare questa proposizione comporta negare la possibilità stessa di negare o affermare alcunché, e pertanto non può farsi.
1.4 La parola non può dire nulla che sia fuori dalla parola se non nominando la forma della contraddizione che indichiamo con "qualcosa è fuori dalla parola", in quanto soltanto la parola consente di potere affermare che qualcosa è fuori dalla parola.
1.5 Con "parola" indichiamo soltanto l’atto attraverso cui e con cui gli umani possono dirsi tali e quindi pensarsi e dire, quindi anche pensare, qualunque altra cosa. È l’atto attraverso cui e con cui il linguaggio esiste.
1.6 Il linguaggio non può esistere senza l’atto di parola con cui soltanto diventa "linguaggio", né la parola può sussistere senza il linguaggio che ne costituisce la struttura. Ma in che modo queste affermazioni risultano "necessarie"? Occorre considerare che il linguaggio è, in prima istanza, un significante, un elemento linguistico che soltanto dicendosi stabilisce la propria esistenza, e ciò che si dice è un atto, un atto di parola. Il linguaggio può eseguire le proprie regole soltanto nel dirsi, cioè nell’atto di parola. La parola così risulta l’esecuzione del linguaggio che, nell’eseguire le proprie regole, si costituisce in quanto tale.
1.7 Allora, per quanto detto, non posso iniziare che dalla constatazione che non può non farsi e cioè che gli umani, in quanto parlanti, parlano. Detto altrimenti: se gli umani non possono non parlare, allora parlano. Questo comporta che qualunque affermazione possa farsi intorno e riguardo a qualunque cosa, questa sarà in prima istanza un’espressione linguistica. Ma che cosa dice un’espressione linguistica, se dice qualcosa? E che cos’è questo qualcosa? E che cos’è il "che cos’è" che vado cercando?
1.8 Si coglie immediatamente che questo percorso è sbarrato dal regresso all’infinito, che riporta alla considerazione che non c’è uscita dal linguaggio. Qualunque cosa cerchi, qualunque cosa trovi, sarà sempre necessariamente un’espressione linguistica o, per dirla altrimenti, qualunque cosa cerchi fuori dalla parola troverò sempre un’altra parola. Ciò che è pensato fuori dalla parola è ciò che dovrebbe garantire il criterio di verità della parola, il suo adeguamento a ciò di cui la parola è espressione. Questo "ciò" di cui la parola è espressione dovrebbe essere in definitiva il "quod quid erat esse", ciò che l’essere era, la sostanza delle cose, ciò che identificato dal termine "verità". Ma se con "verità" intendiamo ciò che non può non essere, il solo criterio di verità praticabile muoverà dalla inevitabile constatazione che si sta parlando nel fare queste considerazioni, e questo è ciò che non può non essere. Con verità allora intendiamo che qualunque cosa si faccia, questa è nella parola.
1.9 Qualunque altro criterio di verità possa pensarsi non potrà legittimarsi, incorrendo inevitabilmente o nel regresso all’infinito oppure nella petizione di principio, cioè o rincorrerà all’infinito la propria origine oppure si affermerà ripetendo semplicemente se stesso.
1.1O Perché provare che una affermazione è vera? E con quale criterio? Legge di natura o legge del linguaggio? Provare che una affermazione è vera è provare che non è negabile e, a fortiori, che necessariamente non è negabile, cioè il non accoglierla mi impedirebbe di potere proseguire a parlare.
1.11 Legge di natura: se prendo in mano un oggetto e lo lascio andare, questo, se non ha nessun altro vincolo, cadrà. Che cosa intendiamo quando diciamo che questa proposizione è vera cioè non è negabile? Evidentemente che si verificherà inevitabilmente ciò che ho affermato. Esattamente. Ciò che ho affermato. Ma ciò che ho affermato è la proposizione o il fatto che si è verificato? La questione si pone in questi termini: il "fatto" è nella parola o fuori dalla parola? Non c’è altro modo di porre la questione. Se è fuori dalla parola è nulla, se è nella parola è un fatto linguistico che esiste in quanto è nella parola.
1.12 Qualcuno mi colpisce inaspettatamente, questo "fatto" è nella parola o fuori dalla parola? Cosa mi sto chiedendo chiedendomi questo? Come posso pormi questa domanda fuori dalla parola? Fuori dalla parola tutto questo non c’è. Ma nella parola? Solo nella parola qualcuno mi colpisce inaspettatamente? Evidentemente si, occorre la parola perché possa dirsi una cosa del genere e quindi pensarsi, se non esiste nella parola non esiste in nessun modo, né ho alcun modo per farla esistere o pensarla esistente.
1.13 Occorre riflettere sulla nozione di esistenza. Quando parlo di esistenza di che cosa parlo o, più propriamente, che cosa faccio? In prima istanza parlo, e non ho nessun altro modo per riflettere sull’esistenza, in secondo luogo attribuisco a questo significante "esistenza" altri significanti, in accordo con il modo di costruire un significato, e utilizzando vari modi di inferenza. Dunque faccio rinviare il significante "esistenza" ad altri significanti. L’"esistenza" pertanto non sarebbe assolutamente nulla senza questi altri significanti, ma allora l’esistenza non "esiste" da sola, ha bisogno di altro per esistere. E questo altro di cui l’esistenza ha bisogno per esistere in che modo trae allora la propria esistenza? Il regresso all’infinito ci sbarra nuovamente il cammino e ci impedisce di proseguire in questa direzione. Non ci impedisce però di tenere conto di quanto abbiamo detto e trovato. Questo intoppo ci avverte di una cosa importante, e cioè che abbiamo considerato la nozione di esistenza come se fosse qualcosa fuori dalla parola.
1.14 L’esistenza è nella parola o è nulla. Dire che qualcosa esiste è dire che esiste nella parola e in quanto parola. Si tratta di considerare questo: se dico che qualcosa "è" o "esiste", sto dicendo in prima istanza che questo che sto dicendo esiste nel fatto che sto dicendo, e consiste di ciò che sto dicendo.
1.15 Dicendo "l’esistenza è nella parola" utilizziamo la "è" che ci rinvia immediatamente all’esistenza in quanto atto di parola. Dobbiamo allora dire che l’essere è l’atto di parola? O che altro?
1.16 Consideriamo ancora. In che modo ciò che andiamo dicendo risulta necessario, e cosa intendiamo con "necessario"? E perché procediamo in questo modo? Occorre tenere conto della questione da cui siamo partiti, vale a dire dall’esigenza di costruire delle proposizioni che risultino non negabili, cioè coerenti con la struttura del linguaggio. Questa esigenza è sorta dalla domanda che si chiedeva se fosse mai possibile affermare qualcosa che non risultasse totalmente arbitrario, cioè non procedesse da un criterio di verità arbitrario e quindi non necessario. Indichiamo dunque con "coerente" appunto questo: che non sia negabile. Se fossero negabili queste proposizioni, l’affermarle sarebbe totalmente arbitrario ed equivarrebbe ad affermare qualunque altra cosa o il suo contrario in modo assolutamente indifferente. Qual è dunque il criterio che ci ha condotti ad affermare queste proposizioni?
1.17 Attenersi a ciò che non può né non ammettersi né non dirsi, se si sta parlando e se si intende proseguire a farlo. Soltanto questo. Se si sta parlando, abbiamo detto, ma esiste l’eventualità che sia possibile non farlo? Proviamo a considerare la questione. Per quanto detto più sopra non parlare varrebbe a essere fuori dalla parola, perché questo intendiamo. Consideriamo anche che il "tacere" non sia affatto fuori dalla parola, poiché se non c’è pensiero, cioè se non c’è parola non c’è nulla, e se c’è pensiero allora c’è parola, ma non c’è modo che mi possa trovare fuori dalla parola. Mi trovo allora costretto a considerare questo: nulla è fuori dalla parola.
1.18 Lungo tutto questo percorso non è stata formulata alcuna ipotesi ma si è seguito un percorso deduttivo. Una deduzione la cui premessa risulti necessaria consente di procedere senza aggiungere nulla che non risulti altrettanto necessario, e pertanto se non è confutabile la premessa allora non sarà confutabile ciò che ne segue. Con questo "ciò che ne segue" intendiamo ciò che non può non dirsi se si dice la premessa. Ma che cosa non può non dirsi se non che si è detta la premessa? Allora ciò che segue affermerà che ho fatto qualcosa dicendo la premessa. Seguendo il criterio che abbiamo indicato soltanto questo possiamo affermare. Ma affermare questo è non aggiungere nulla a ciò che si sta dicendo. Tutte le obiezioni alla deduzione giungono infatti a questa considerazione: la deduzione è un criterio rigoroso ma non ci dice nulla più di quanto già sappiamo.
1.19 Si tratta di considerare se è proprio così, oppure se la deduzione ci consente di fare qualcosa di più. Per esempio non farci aggiungere nulla che non sia necessario rispetto alla premessa e condurci a proseguire attenendoci a ciò che non può non dirsi data la premessa. In altri termini, ci indica continuamente che non possiamo uscire dal linguaggio mostrandoci che cosa, ciascuna volta, risulta strettamente necessario affermare oppure no, impedendomi di credere che qualcosa sia necessario quando in nessun modo posso stabilirlo. Potremmo allora affermare che tutto ciò che non procede dalla deduzione, nell’accezione indicata più sopra, è arbitrario, con tutto ciò che comporta e cioè, in prima istanza, l’impossibilità di dare un assenso incondizionato appunto perché si tratta di affermazioni arbitrarie e quindi, ancora una volta, non necessarie.
1.2O Consideriamo ora l’ipotesi. Intendiamo qui con ipotesi, o abduzione, l’accezione peirceana del termine, vale a dire un’inferenza tale per cui, da casi particolari che mi si prospettano traggo una considerazione generale che accolgo appunto come ipotesi. Che cos’è un’ipotesi che non può essere verificata, cioè in assenza di un criterio di verità?
1.21 L’attesa della scoperta della verità si pone necessariamente come l’obiettivo finale e necessario di qualunque ipotesi, se questo non si desse, l’ipotesi come tale cesserebbe di esistere.
1.22 Il criterio di verità, per quanto riguarda l’ipotesi, risulta introvabile (regresso all’infinito) e indefinibile (definizione per accidente), quindi inconoscibile e pertanto la verità dell’ipotesi resta non raggiungibile, se consideriamo che la verità per potere essere accolta come tale deve potere essere conosciuta e definita.
1.23 L’ipotesi risulta allora logicamente non utilizzabile perché indifferentemente e inevitabilmente vera o falsa o nulla del tutto.
1.24 Se prendiamo un termine di cui non possiamo stabilire con certezza il significato perché il contesto in cui è inserito non ce lo consente (è in questo caso un sincretismo), allora l’eliminazione del sincretismo equivarrà a reperire il significato che stiamo cercando. L’eliminazione del sincretismo avviene attraverso l’inserimento dell’elemento linguistico in un contesto che ci permetta di sapere qual è il significato di quell’elemento; questo procedimento che i linguisti chiamano "encatalisi" avviene selezionando la sua espressione o il suo contenuto e considerando i termini con cui è in relazione semantica. Tuttavia in assenza dell’ultimo termine l’encatalisi rimane sospesa, e il sincretismo permane. Permanendo il sincretismo l’ipotesi è nulla.
1.25 La definizione idem per idem, o tautologia, non definisce propriamente ma attesta e stabilisce ciò che si sta dicendo, rinviando a ciò stesso che consente di rinviare, cioè all’antecedente. La proposizione "se p allora p" indica allora che nell’eventualità che p si dica, allora p esiste necessariamente. È possibile accogliere la nozione di segno in questi termini, cioè che un elemento, dicendosi, rinvia al fatto che nel dirsi esiste necessariamente.
1.26 Indichiamo ancora con "esistenza" la parola che dicendosi stabilisce se stessa in quanto parola. Qualcosa esiste in quanto "dico" che esiste, in quanto posso dirlo, se non potessi fare questo non si darebbe la parola "esiste", non potendo dirla non esisterebbe alcunché, non potrebbe in alcun modo porsi neppure la questione. Salvo porre l’esistenza fuori dalla parola, ma posta fuori dalla parola è nulla. Anche "nulla" è nella parola, ma indica la contraddittorietà insita nell’affermazione che qualcosa sia fuori dalla parola.
1.27 La proposizione "che io dica" implica necessariamente il "qualcosa" che segue, così come affermare che sto dicendo implica necessariamente che stia dicendo qualcosa, cioè che stia "facendo" qualcosa nell’affermare che sto dicendo.
1.28 Indichiamo allora la nozione di definizione come un segno in cui il conseguente sia conseguente di un antecedente necessario, dove con necessario si intenda ciò che non può non essere, vale a dire, per esempio, la proposizione che afferma che nulla è fuori dalla parola. Risulta annotata con "segno" la struttura stessa dell’implicazione, cioè la considerazione che se dico, dico necessariamente qualcosa.
1.29 Nell’implicazione "se p allora p" ciò che è necessario è unicamente il connettivo che dice soltanto che se c’è l’antecedente allora c’è il conseguente. Cioè, ancora, "che io dica" implica necessariamente che dica qualcosa.
1.3O Il vantaggio dell’utilizzo di simboli connettivali è peraltro da verificare. Il connettivo "se... allora" non offre alcun vantaggio se, nell’utilizzarlo, non posso non tradurlo comunque in una espressione linguistica di cui devo necessariamente pensare che tutte le varianti contenute nella sostanza del contenuto (cioè ciò che penso che sia, l’idea che ne ho) siano encatalizzate. Si tratta di verificare se tale encatalisi possa effettivamente darsi oppure se tutta la logica cosiddetta formale sia una costruzione totalmente inutile, dove l’elemento che si suppone encatalizzato risulta tale soltanto per autoaffermazione, una petizione di principio che in nessun modo può rendere conto di sé. Se il connettivo rimane un sincretismo l’implicazione non sarà mai definita, rimanendo l’implicazione stessa una variante, e si perderebbe la certezza che il significato del simbolo connettivale sia definitivamente dato e stabilito.
1.31 Se i connettivi delle proposizioni sono varianti risulta arduo supporre che il calcolo dei predicati, così come quello proposizionale attuati dalla logica formale, possano condurre a risultati di cui possa pensarsi qualche attendibilità che non sia, come nel calcolo numerico, una semplice rilevazione dell’uso corretto di regole inferenziali o di procedure, e cioè un gioco.
1.32 La demolizione di ogni asserzione che ponga se stessa fuori dalla parola non elimina la possibilità di pensare ma soltanto l’eventualità di credere che qualcosa possa darsi fuori dalla parola, come l’idea che la parola possa giungere a farsi oggetto, possa quindi obiettivarsi laddove si ponga come interpretante logico finale, come l’ultimo rinvio del segno, quello che rinvia necessariamente alla verità delle cose di cui il segno sarebbe, in questo caso, definitivamente segno senza più nessun regresso all’infinito. L’interpretante logico finale sarebbe pertanto l’elemento fuori dalla parola che garantisce che tutta la catena segnica non sia totalmente e irrimediabilmente priva di senso. Ma qualunque affermazione che si ponga fuori dalla parola è, necessariamente, contraddittoria.
1.33 Indichiamo con la proposizione "qualcosa è fuori dalla parola" la forma stessa della contraddizione, vale a dire qualcosa che nega se stessa nell’atto in cui si afferma; indichiamo con l’espressione "nulla" ciò che è fuori dalla parola.
1.34 Ciò che è stato affermato nelle proposizioni precedenti ci fornisce un criterio sufficientemente articolato per potere proseguire una riflessione teorica che non necessiti di affermazioni arbitrarie, affermazioni cioè che non seguano necessariamente dalla premessa. Non lo è infatti nemmeno questa che stiamo facendo poiché ciò che si sta dicendo è che continuiamo ad attenerci al criterio stabilito in precedenza.
1.35 Perché un criterio non negabile, e quale vantaggio offre? Soltanto quello di potere proseguire senza dovere aggiungere elementi di cui possiamo dire che sono indifferentemente veri o falsi. Qualunque cosa venga affermata in assenza di un criterio di verità necessario sarà inevitabilmente non decidibile e di conseguenza vera e falsa allo stesso tempo. In altri termini, a quali condizioni posso affermare di qualcosa che è vero? Con quale nozione di verità lo confronterò? È esattamente a questo che rispondono le proposizioni avanzate più sopra: nella più totale e irreversibile assenza di tale criterio di verità la sola cosa che possiamo considerare è ciò stesso che ci consente di considerare, e cioè che tale considerazione necessita, per potersi fare, della parola. Al di là di ogni possibile criterio di verità, dal momento che questa non può risultare altro che una produzione linguistica, nonostante che possa pensarsi come un termine che renda conto di qualcosa che è fuori dalla parola, ma il fatto stesso che lo si possa pensare, ci riconduce alle questioni avanzate in precedenza.
1.36 Importa qui tenere conto che continuiamo a parlare del fatto che stiamo parlando, come se costringessimo il linguaggio a riflettere su se stesso mentre si attua, cioè mentre "parla". Occorre considerare se le questioni avanzate fino ad ora siano oppure no questioni metalinguistiche. Stiamo riflettendo intorno al linguaggio ma non usciamo affatto dal linguaggio che stiamo considerando, vale a dire che teniamo conto che riflettendo intorno al linguaggio, è il linguaggio stesso che ci consente di fare queste considerazioni. Risulta allora improprio parlare di metalinguaggio poiché il "linguaggio oggetto" non si distingue in nessun modo dal linguaggio con cui consideriamo. Un metalinguaggio deve potere essere sempre traducibile nel "linguaggio oggetto", deve cioè essere sempre una semiotica; se non fosse traducibile non sarebbe un metalinguaggio, ma se è traducibile allora non c’è nessuna proposizione che non possa dirsi nel "linguaggio oggetto". Ma il linguaggio può farsi oggetto di se stesso, cioè dirsi senza tenere conto di sé? Evidentemente no, perché dovrebbe parlarsi in un altro linguaggio, ma quest’ultimo, se è traducibile rientra nello stesso linguaggio e se non è traducibile di che cosa parlerà?
1.37 Di che cosa parlo quando parlo del linguaggio, quando parlo cioè di ciò stesso che mi sta consentendo di parlare? Occorre considerare che parlando del linguaggio metto in atto ciò di cui parlo compiendo un atto illocutorio, per cui parlando "faccio" qualcosa.
1.38 Indichiamo con "linguaggio" una struttura organizzata di procedure che costruiscono se stesse e che si organizzano attraverso tali procedure.
1.39 Questo indica soltanto che non è possibile in alcun modo isolare il linguaggio dalle regole e dalle procedure di cui è fatto. Non esiste il linguaggio senza queste regole, e le regole senza il linguaggio non hanno alcuna modalità di esistenza.
1.40 Che cosa fa il linguaggio? E che cosa muove a parlare? Parlando produco espressioni linguistiche che producono altre espressioni linguistiche, come se le parole producessero continuamente altre parole. Le parole sono state considerate spesso come segno o espressione di qualche cosa d’altro rispetto a se stesse, ma come potere affermare una cosa simile, che cosa consente di pensare questo? Evidentemente l’idea che qualcosa sia fuori dalla parola, e che da questo altrove mi chiami a parlare.
1.41 È trovandomi nel linguaggio che ho l’occasione di proseguire a parlare? Parrebbe di si, dal momento che fuori dal linguaggio non potrei neppure pensare di proseguire o non proseguire. Ma se questa è la condizione ne è anche lo scopo, cioè parlare per proseguire a parlare? Questione non del tutto marginale se si considera che per reperire uno scopo, qualunque esso sia, devo rimettermi a parlare. È come se ciascuna volta trovassi una sorta di pretesto per proseguire a parlare. Se parlo per descrivere un evento, parrebbe che sia l’intenzione di fare questo a muovermi a parlare, ma questa "intenzione" dove si trova se non nel linguaggio? Posso naturalmente pensare che si trovi ovunque, ma qualunque posto io scelga sarà sempre in prima istanza un’espressione linguistica che mi consentirà di pensarlo. Ma se l’intenzione è nel linguaggio sarà inevitabilmente implicata da un’altra espressione linguistica, si troverà inserita in una catena segnica. Un segno dunque, ma un segno che non rinvia ad altro se non al segno che precede e così via. Stiamo considerando l’eventualità che il "motivo" per cui si parla non sia fuori dalla parola, ma nella stessa struttura della parola.
1.42 Consideriamo la struttura grammaticale: se dico "prima" alludo o implico un "dopo" per cui posso dire che non c’è un dopo senza che ci sia un prima. Ciò su cui stiamo riflettendo è che il "prima" implichi solo grammaticalmente il "dopo" e non ontologicamente o in qualunque altro modo lo si voglia considerare, perché se l’implicazione non fosse solo grammaticale, cioè una regola del linguaggio che consente di proseguire a parlare, occorrerebbe andare a cercarla fuori dal linguaggio, ma con che cosa? Che cosa dovremmo utilizzare per cercarla?
1.43 L’implicazione di cui stiamo parlando si configura qui come la necessità che se si dice qualcosa allora si sta facendo qualcosa, e che questo qualcosa che si sta facendo imponga se stesso come qualcosa che segue al fatto di dire. Seguendo in parte Austin, potremmo dire che l’atto illocutorio aggiunge qualcosa all’atto locutorio, cioè ciò che si sta facendo dicendo qualcosa implica necessariamente l’esecuzione di un’espressione linguistica. Dicendo questo inincominciamo a considerare che sia nella struttura della parola la necessità che a questa ne segua un’altra e così via, tenendo conto che l’intenzione di parlare, qualunque essa sia, non sia altro che un’espressione linguistica.
1.44 Consideriamo l’atto linguistico. Che cosa consente in prima istanza? La formulazione di un altro atto linguistico, questo solo per ora possiamo dire. E cioè a un atto linguistico ne segue un altro, qualunque esso sia, poiché all’atto locutorio segue l’atto illocutorio cioè un altro atto. Ma questo "segue" comporta che qualunque cosa dica questa ne implicherà necessariamente un’altra. Abbiamo sintetizzato qui una struttura necessaria nell’atto di parola, necessaria in quanto non può darsi un atto locutorio senza un atto illocutorio: non può avvenire che io dica senza che dica qualcosa. Perché non può avvenire? Ci troviamo di fronte alla questione accennata prima e cioè alla constatazione dell’esistenza di regole linguistiche di cui è fatto il linguaggio e che impongono delle procedure. Non posso dire che si dia un "dopo" senza un "prima", salvo precisarne l’accezione, vale a dire prendendo atto della regola linguistica a cui faccio seguire una metalessi, una variazione semantica che si configura come variazione unicamente per l’esistenza di una regola linguistica di cui ho già preso atto.
1.45 Abbiamo così iniziato a riflettere su questo: ciascun elemento linguistico non esiste se non in relazione a un altro, considerazione sicuramente non nuova ma ciò che stiamo dicendo è che tale relazione è, in prima istanza, tra il "che io dica" e il fatto che sto dicendo, cioè che l’atto illocutorio segue all’atto locutorio e che pertanto la relazione è tra questi due elementi. Ciascuna parola allora, in quanto atto linguistico, dicendosi implica necessariamente l’avvio e quindi l’esistenza di un altro atto linguistico di cui non può fare a meno per la sua stessa esistenza.
1.46 Consideriamo una qualunque proposizione p. Dicendo p faccio qualcosa e cioè dico p. Può un elemento linguistico non essere in una struttura linguistica? Evidentemente no perché se è in una struttura linguistica è perché a questo elemento è connesso un altro elemento, se non lo fosse sarebbe isolato e cioè sarebbe fuori dalla struttura linguistica, ma se fosse fuori dalla struttura linguistica non sarebbe un elemento linguistico. Allora se p è un elemento linguistico, allora "se p allora q", cioè un altro elemento linguistico. La proposizione che abbiamo introdotta precedentemente che afferma che dicendo p allora faccio necessariamente qualcosa, cioè dico p, indica la forma più radicale di questa implicazione, dove si dice che se dico p, questo esiste soltanto in quanto è inserito in una struttura linguistica per cui dicendo p dico (faccio), necessariamente qualcosa, vale a dire che constato l’esistenza di una struttura linguistica che mi consente di dire p; in caso contrario, dicendo p, non farei assolutamente nulla.
1.47 Torniamo alla questione iniziale, e cioè che cosa muove il linguaggio e che cosa fa. Quanto detto fino ad ora sembra condurci a rispondere alla prima questione affermando che il linguaggio è mosso dalle sue stesse regole e procedure. Possiamo chiederci chi muove tali regole? Possiamo chiedercelo, ma non usciremmo in nessun modo dalle stesse regole e procedure che ci consentono di chiedercelo. Abbiamo già considerato che interrogarci su qualcosa fuori dal linguaggio non ci porta da nessuna parte o, più propriamente, ci riconduce al linguaggio con cui stiamo considerando. Ma allora le parole non vengono da altro che da se stesse? Riflettiamo ora su che cosa fa il linguaggio. Occorre considerare intanto se fa qualcosa o se invece non fa nulla. Ma se non fa nulla questo comporta che non si dica nulla, perché se si dice qualcosa allora fa qualcosa e allora il linguaggio sta facendo qualcosa. Ma è questo "qualcosa" che il linguaggio fa che ci interroga. Potremmo dire che riproduce soltanto se stesso, e fino ad ora non possiamo aggiungere molto di più perché non abbiamo ancora elementi sufficienti per affrontare la domanda circa il modo in cui qualcosa si fa. Occorre riflettere ancora.
1.48 Se il linguaggio riproduce se stesso, potremmo dire che ciascuno è parlato dal linguaggio. Affermazione che rischia di porre il linguaggio come una sorta di entità extralinguistica messa al posto di dio o di qualunque altra causa prima piaccia pensare. Affermare che ciascuno è parlato dal linguaggio non significa nulla perché sarebbe come affermare che questo ciascuno è fuori dal linguaggio che lo parla; oppure il "ciascuno" è un’espressione del linguaggio e allora dire che ciascuno è parlato dal linguaggio è una ridondanza, è parlato dal linguaggio come ciascun’altra cosa. Ma, di nuovo, quest’altra cosa dovrebbe essere fuori dal linguaggio da cui è parlata e questo non può darsi.
1.49 Il linguaggio parla? Questione bizzarra che taluni hanno fatta propria e che, come si diceva, pone il linguaggio come un’entità extralinguistica. L’affermare che il linguaggio parla mostra la stessa attendibilità dell’affermare che le piante parlano, che l’universo parla o che qualunque altra cosa parla.
1.50 Occorre tornare a una considerazione precedente e riflettere intorno al fatto che la parola è tanto un atto locutorio quanto un atto illocutorio, e che pertanto pronunciando il significante "parola", diciamo anche una parola. Ci troviamo qui in una situazione in cui non possiamo fare altro che affermare che parla soltanto chi parla, e cioè chi può effettivamente dire che sta parlando. Con "effettivamente" intendiamo questo: che sia possibile compiere non soltanto un atto locutorio, ma anche un atto illocutorio e cioè non soltanto pronunciare un significante, ma anche dire che pronunciandolo faccio qualcosa.
1.51 Stiamo dicendo che le parole producono se stesse (le parole cioè ciò che ci sta consentendo di dire ciò che stiamo dicendo), e che non abbiamo altri elementi per potere affermare qualcosa di differente da ciò che stiamo affermando. Le parole producono se stesse in questo senso, che ciascun atto di parola, dicendosi, produce qualcosa, per esempio il fatto che sto dicendo qualcosa e il fatto che sto dicendo qualcosa è un altro atto di parola. In questo senso diciamo che sono le parole a produrre altre parole senza bisogno di elementi esterni alla parola.
1.52 Quanto detto ci consente di fare un passo ulteriore e considerare in termini più precisi che null’altro fuori dalla parola sembra potere produrre altre parole. Detto altrimenti, solo la parola, dicendosi, produce un’altra parola col solo fatto di dirsi. In quale altro modo potremmo dire? Che le parole sono prodotte dal pensiero? Ma il pensiero non può darsi senza le parole, fuori dal linguaggio non esiste. Oppure le parole sono prodotte da sensazioni e allora le sensazioni precedono le parole, sono fuori dalle parole e finché non si dicono restano fuori dalle parole. Che cosa è fuori dalla parola? Nulla. Un animale ha delle sensazioni? In che modo posso pormi questa domanda? Che cosa mi sto chiedendo esattamente con questo? Ciò che io chiamo "sensazione" posso attribuirlo a qualcuno? Posso certamente, ma c’è l’eventualità che facendo questo faccia qualcosa di assolutamente arbitrario e cioè attribuisca a qualcosa ciò che per me, e soltanto nella parola è "sensazione". La questione occorre porla in questi termini: che cos’è una sensazione fuori dalla parola, è qualcosa o è nulla? Se è qualcosa come lo so? Se rispondo "attraverso ciò che sento" non posso non rimandarmi la questione e chiedermi come lo so che lo sento, e così via all’infinito. Da questa via non possiamo passare.
1.53 Con questo non possiamo non considerare che le "vie" di cui stiamo parlando non sono altro che le regole e le procedure del linguaggio attraverso cui stiamo parlando e che, sole, ci consentono di fare queste considerazioni. Abbiamo già riflettuto intorno all’impossibilità di reperire altri criteri a cui attenerci per procedere.
1.54 Riprendiamo la questione precedente e vediamo se è possibile trovare un’altra via. La sensazione dunque. Qualunque cosa io intenda con "sensazione" mi si impone come atto di parola in prima istanza, e la questione è che non ho nessun altro modo per potere dirne qualcosa e quindi farne qualcosa e, soprattutto, saperne qualcosa. Sapere anche che esiste. Fuori dalla parola la sensazione non esiste così come non esiste alcunché se non posso parlarne, la "via" di cui abbiamo detto me lo vieta.
1.55 Se, come abbiamo prospettato sono le parole a produrre altre parole, allora è l’apertura della parola verso un’altra parola ciò che insiste in ciascun atto come "domanda" e ne impedisce la chiusura? Con "domanda" intendiamo qui qualcosa di strutturale all’atto di parola, vale a dire il rinviare del dire al fatto che dicendo faccio qualcosa. Un’apertura quindi tra il dire e ciò che si fa dicendo.
1.56 Si impone qui un’altra riflessione, poiché non va affatto da sé che nell’implicazione di cui stiamo facendo largo uso, la connessione tra l’antecedente e il conseguente sia necessaria. Tuttavia consideriamo sempre che il criterio di cui ci stiamo avvalendo è unicamente quello che ci impongono le regole e le procedure del linguaggio che ci consentono di dire ciò che stiamo dicendo, e che pertanto risulta necessario che se dico, dica inevitabilmente qualcosa. Dunque, dicendo "se... allora", dico che dato l’antecedente non posso non ammettere il conseguente, perché la non ammissione del conseguente annullerebbe anche l’antecedente. Questo è il criterio di implicazione seguito fino ad ora e che intendiamo continuare a seguire.
1.57 Stabilito questo possiamo riconsiderare ciò che ci stava interrogando precedentemente, e cioè l’apertura che si produce nella parola dicendosi. Che cosa comporta questa apertura? Per quanto detto prima non è forse proprio questa apertura che consente alle parole di proseguire producendo altre parole? Forse allora possiamo stabilire la nozione di domanda in termini strutturali, e cioè come questa apertura che la parola, dicendosi, instaura nella stessa parola. Stiamo qui considerando la questione in termini non molto distanti da quelli posti da Derrida, tenendo conto della differente, in quanto più marcata considerazione da parte nostra della parola come atto costitutivo non solo degli umani ma anche di se stessa.
1.58 Fino a questo punto abbiamo forniti elementi di riflessione intorno alla parola e alla sua produzione non inserendo in alcun modo elementi esterni alla parola, cosa che ci consente di affermare la possibilità di parlare della parola senza usare metalinguaggi di sorta. Lungo questo percorso, in altri termini, abbiamo rilevato soltanto ciò che non possiamo non dire parlando dalla parola, abbiamo rilevati cioè soltanto quegli elementi che ci consentono di proseguire a parlare. Siamo riusciti, almeno così ci pare, ad astenerci fino a questo punto dal formulare giudizi sintetici, da atti di fede e da qualunque affermazione possa risultare gratuita, cioè non necessaria nell’accezione data più sopra di necessario. Se siamo riusciti in questo abbiamo compiuto un passo importante perché saremmo riusciti a procedere senza acconsentire a nulla che non ci fosse necessario per proseguire a dire, stabilendo così un criterio che non chieda di essere verificato da nessuna prova di verità in quanto la stessa prova di verità, qualunque essa sia, necessita dello stesso criterio per dirsi, se non fosse così, sarebbe fuori dalla parola e non potremmo proseguire a parlare.
1.59 La domanda dunque. La domanda come ciò che interroga nel dire, che interroga strutturalmente in quanto apertura che si apre tra ciò che dico e il fatto che dico, che sto dicendo. La domanda allora come ciò per cui non posso arrestare la parola che, aprendosi, produce un’altra parola. È questo che costringe gli umani a parlare? Cioè la domanda che si produce nell’atto stesso di parlare? O che altro? E possono gli umani fermare la parola? Fermare la parola varrebbe a un controllo sulla parola nel senso che potrei uscirne o entrarci a mio piacimento, ma uscirne sembra che non sia possibile, non resta dunque che proseguire.
1.60 La domanda di cui stiamo parlando risulta, da quanto detto, senza risposta, se con risposta intendiamo la chiusura della domanda per quanto provvisoria o parziale possa pensarsi. Chiudere la domanda varrebbe qui alla cancellazione totale della possibilità stessa di parlare perché la parola non potrebbe più rinviare a nulla, dunque nemmeno a se stessa e non potrebbe stabilirsi in nessun modo. Se il "che dico", non implica necessariamente che dica qualcosa allora dicendo non faccio nulla, ma se non faccio nulla allora non parlo neppure e quindi non sussiste nemmeno il "che dico", cioè non dico nulla, non sto facendo nulla. Tutto questo sarebbe fuori dalla parola, ma siccome questo non può avvenire (fuori dalla parola non potremmo porre nessuna di queste questioni) la domanda non può togliersi dalla parola: in questo senso diciamo che è strutturale. Allora, rispondere alla domanda non è altro che accogliere ciò la domanda produce, produzione che ovviamente non toglie affatto la domanda ma che anzi deve la sua esistenza alla domanda. Esattamente come l’antecedente deve la sua esistenza al conseguente e viceversa, per una semplice quanto inevitabile regola del linguaggio che ci costringe, se parliamo di antecedente a porre l’esistenza, nel linguaggio, del conseguente. Con "risposta" allora intendiamo soltanto ciò che è necessariamente implicato da ciò che si sta dicendo, vale a dire, in altri termini, che la risposta segue alla domanda così come il conseguente segue all’antecedente. Parrebbe che anche in questo caso la risposta si ponga in termini strutturali. D’altra parte, ciò che ci muove è soltanto la considerazione delle regole e delle procedure del linguaggio così come ci si impongono per potere proseguire a dire le cose che stiamo dicendo, e pertanto non possiamo che accogliere ciò che ci si impone, eventualmente considerando in modo più radicale termini dell’uso comune del linguaggio (per uso comune s’intenda per ora quello del vocabolario di una qualunque lingua). Va da sé che occorrerà considerare la nozione di "uso" del linguaggio in termini più precisi.
1.61 In quali termini possiamo parlare a questo punto di uso del linguaggio, di che cosa parliamo ponendoci questa domanda? Forse il solo modo in cui possiamo parlarne, almeno per quanto ci interessa in questa ricerca, è intendere con "uso" l’inevitabile occorrenza in ciò che si dice delle regole e delle procedure del linguaggio, quindi l’uso del linguaggio non è altro che la sua applicazione, ma la sua applicazione è la sua stessa esistenza in quanto atto di parola. In questo senso usare il linguaggio è altrettanto impossibile quanto il non usarlo perché se lo uso già dicendo di usarlo non posso non usarlo, e se non lo uso non posso nemmeno dire che non lo uso. Potrei dire che lo uso necessariamente, ma questo è già implicito nel fatto che sto dicendo e pertanto non aggiungo nulla.
1.62 Un’ultima considerazione riguarda la totale assenza di dimostrazioni in tutto il percorso che abbiamo fatto. Per quanto detto infatti non è possibile stabilire alcun criterio che consenta di dimostrare alcunché dal momento che anche la dimostrazione, essendo una procedura di inferenze, dovrebbe potere mostrare il criterio scelto per potere utilizzare il criterio di verità, e così via all’infinito. Ci siamo attenuti pertanto all’affermare solo ciò che non può essere negato in alcun modo ma che in nessun modo può essere dimostrato. Non può essere dimostrato per le ragioni dette prima, e cioè che si trova fuori da ogni possibile criterio di verità in quanto qualunque criterio di verità è costruito da proposizioni che o sono necessariamente vere, oppure credo, spero o voglio che lo siano, ma risultano comunque negabili. Ma se sono necessariamente vere questo comporta che siano non negabili in alcun modo, e questo è esattamente il criterio che ci ha condotti fino al punto in cui siamo arrivati.
1.63 Ci sembra di avere illustrato, seppure in modo molto stringato, la questione da cui siamo partiti e cioè da dove incominciare a pensare, vale a dire da ciò che non possiamo non fare se pensiamo e quindi dalla parola. Ma le questioni che sorgono a questo punto sono molte, prima fra tutte cosa farne di tutto questo. Domanda legittima anche se, fra le righe, forse è affiorata una risposta. Risposta che non riguarda più soltanto la logica della parola ma la retorica della parola. In altri termini si tratta di affrontare ciò che necessariamente segue a quanto detto in tutto ciò che precede con particolare attenzione a un aspetto, e cioè da dove viene ciò che dico. Se non può venire che dalle parole, è lì che dovremo cercare