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5.GIOCHI LINGUISTICI

 

 

Da quanto detto possiamo giungere a considerare l’eristica come l’arte del gioco linguistico. Praticare quest’arte è il gioco della Sofistica, il gioco della parola che considera se stessa e che si confronta con se stessa.

Giocare il gioco dell’eristica esclude necessariamente la possibilità della superstizione, cioè di un discorso che fondi se stesso fuori dalla parola ponendosi così magicamente necessario o necessarie le sue implicazioni.

In prima istanza che cosa non possiamo non dire della superstizione? Che è qualcosa che comporta la credenza, poiché potrebbe darsi una superstizione senza che qualcosa sia creduta? Parrebbe di no, ma non soltanto, potrebbe ciò che è creduto dalla superstizione essere messo in discussione? Finché è creduto no. Potremmo dire che l’oggetto della superstizione è necessariamente creduto, è implicito nella sua grammatica, cioè nel suo uso.

È molto importante potere definire ciascun elemento linguistico: per potere discutere intorno a qualunque cosa occorre che io sappia, per esempio, che cosa altri intenda con quell’elemento linguistico, solo a questa condizione potrò discuterne, in caso contrario c’è l’eventualità che parleremmo di cose totalmente differenti. Dunque intendiamo con "superstizione" il credere che qualcosa necessariamente sia fuori dalla parola, poiché abbiamo detto che se c’è superstizione, allora ciò che è creduto dalla superstizione non può essere messo in discussione, cioè non può essere esposto alla parola in quanto è considerato fuori dalla parola.

La superstizione è un tópos retorico? Si, ma un tópos retorico non è necessariamente una superstizione. Quali sono le cose in cui si crede? Sono le cose che si fanno o, più propriamente, quelle che fanno fare le cose che si fanno. Le cose in cui ciascuno crede sono il modo in cui agisce, né potrebbe essere altrimenti. Ma se le cose che si fanno sono giochi linguistici, allora ciò che si crede si fa e si dissolve continuamente. Ma allora, per definizione, non potremmo più parlare di "credere" ma di articolazione di giochi linguistici. Occorre confrontarsi con la questione delle sensazioni, sembra imprescindibile, ciascuna cosa pare volgersi sempre in quella direzione. Superstizione e sensazione, paiono essere i due termini essenziali a questo punto.

Che cosa si sta dicendo, dicendo di lasciarsi andare alle sensazioni? Perché sono piacevoli, quando sono piacevoli? Forse stiamo ponendo la questione malamente, così che la soluzione sia barrata dalla stessa formulazione della domanda, come talvolta accade. Che cosa dunque ci sta sbarrando il passo? Forse il considerare la sensazione come un quid, un qualche cosa che esista di per sé? Forse. E considerandola come una regola per giocare un certo gioco? Un particolare tópos retorico, cioè ciò che consente di potere dire e fare altre cose? Forse da questa via possiamo proseguire. La sensazione è una regola del gioco o è nulla (una regola, non una procedura, cfr. più sopra), cioè non può dirsene nulla nel senso che qualunque cosa possa dirsene questa rinvierà a ciò che opera nel discorso. Allora dire che si prova una sensazione è un tópos retorico che consente di potere proseguire a giocare un certo gioco.

Una sensazione potremmo porla come il conseguente di uno o più antecedenti. Un conseguente che segue un antecedente in modo da escludere qualunque altro possibile conseguente s’impone al discorso, è come se imponesse di essere considerato. Che sia questo ciò che si avverte come sensazione? Diciamo che è un tópos retorico perché imponendosi nel discorso "costringe" in una certa direzione, costringe, per esempio, a stabilire una connessione strettissima tra l’antecedente e il conseguente (Cfr. Anscombre e Ducrot a proposito dei tópoï).

La questione della superstizione deve riguardare l’attesa, l’attesa che si verifichi un evento che si aspetta: se mi aspetto che un evento accada, e questo evento accade, allora era vero ciò che mi aspettavo? Ciò che accade verifica una previsione, dunque la previsione è vera? In questo senso la proposizione "accadrà x" (1) è verificata dalla proposizione "accade x" (2). Ma che cosa vuole dire qui che " è verificata" se non che esiste una regola di cui è fatto il gioco della superstizione, per cui la (2) "necessariamente" verifica la (1), "necessariamente" perché è, appunto, una regola di quel gioco. Esattamente come nel poker, se ho una scala in colore allora batterò qualunque altra combinazione di carte prevista dalle regole del gioco del poker. La superstizione è un gioco linguistico, come qualunque altro, ma rappresenta un tipo di gioco che prevede, per essere tale, che non possa essere variata la sequenza che stabilisce la necessità che dato un certo antecedente A, a questo segua necessariamente il conseguente B. È questo che rende di notevole interesse la superstizione, il fatto che costituisca una sorta di paradigma di ogni possibile gioco che può giocarsi se e soltanto se non è posto come un gioco, un gioco dove invece il passaggio da un antecedente al conseguente è sempre assolutamente arbitrario. Come dire, in altri termini, che la superstizione costituisce il paradigma del discorso occidentale, che, anzi, il discorso occidentale sia, la superstizione. Questo renderebbe conto anche della difficoltà di elaborarne i termini.

Perché si dia superstizione occorre che la premessa maggiore del sillogismo che la sostiene sia inaccessibile all’argomentazione, non sia cioè possibile mettere in discussione la stessa superstizione. Si sostiene, in altri termini, su una sorta di circolo vizioso, per cui se c’è superstizione allora non può mettersi in discussione la maggiore, se è possibile allora non c’è superstizione.

Parlando ci si aspetta qualcosa dalle proprie parole o non ci si aspetta nulla? Che cosa intendiamo dire dicendo "ci si aspetta qualcosa"? Intanto che ci siano degli effetti, cioè che si produca qualcosa, e questo pare inevitabile, ma questi effetti, questa produzione come viene accolta? Questione centrale rispetto alla superstizione, poiché nella superstizione ciò che si produce come effetto è posto come necessario conseguente dell’antecedente.

Quando un qualunque discorso è strutturato dalla superstizione? Quando ritiene la connessione tra un evento A e un evento B necessaria, pur non ritenendo l’evento A necessario. La religione aggiunge un elemento, e cioè aggiunge la necessità dell’evento A. In questo senso è forse possibile distinguere la religione dalla superstizione. Non che una sia meglio dell’altra evidentemente, però hanno un elemento che le distingue. Riprendendo una questione precedente, potremmo dire che la religione ritiene necessaria la premessa maggiore, mentre la superstizione non la ritiene necessaria di per sé, ma necessaria soltanto se inserita nella superstizione stessa, cioè nella proposizione di cui è fatta la superstizione. Facciamo un esempio: se si crede che un oggetto x porti fortuna, questo non comporta che questo oggetto x esista necessariamente, ma quando compare nella proposizione della superstizione allora porta fortuna. Se fosse una religione allora quell’oggetto x esisterebbe necessariamente, cioè sarebbe assunto come necessario all’ordine dell’universo.

Stiamo dicendo che la superstizione è la struttura di ciascun discorso che si ponga come causa. Se si riflette sulla struttura del sillogismo, è facile notare che ciascun sillogismo scientifico, nell’accezione aristotelica del termine, comporta che la premessa maggiore proceda dall’esperienza, dalla percezione, o qualcosa del genere, cioè in altri termini da qualcosa che può essere mostrato ma non dimostrato. Qualunque teoria muove da un assunto non dimostrabile, pur ritenendo necessario dovere dimostrare qualche cosa. Ponendosi la maggiore come non dimostrabile, qualunque inferenza seguirà alla maggiore avrà un fondamento altrettanto arbitrario. Spesso un discorso avverte questo intoppo cercando altrove un fondamento che risulti affidabile e non assolutamente arbitrario: la superstizione risponde a questa esigenza, ma non trovando un fondamento, che non può trovare, ma dandolo come certo e vietandone la ricerca.

Tale divieto si manifesta perlopiù attraverso l’idea di violare le stesse regole del pensiero rendendolo impossibile, impraticabile, ma la questione è che è effettivamente tale, e pensare che una qualunque dimostrazione sia altro dall’applicazione di regole di un certo gioco linguistico, compreso ovviamente questo discorso, conduce appunto alla superstizione, anzi è la superstizione, che sorge a proteggere la premessa maggiore dalla minaccia dell’arbitrarietà in quanto impossibilità strutturale di potere stabilire il vero fuori dalle regole del gioco linguistico in cui è inserito. In altri termini ancora possiamo dire che la superstizione dà per certa la garanzia della premessa maggiore del sillogismo su cui si fonda.

Ma è possibile che tale struttura sia la stessa struttura del cosiddetto discorso scientifico, come di una qualunque altra teoria che possa pensarsi? Se con teoria intendiamo un insieme di proposizioni organizzate in modo tale da potere stabilire almeno una proposizione come necessaria allora si, qualunque teoria ha la struttura della superstizione. Porre una proposizione come necessaria è esattamente ciò che intendiamo con superstizione, poiché tale necessità può soltanto essere creduta, mostrata, ma non provata. E siccome la superstizione muove necessariamente da un procedimento inferenziale per potere giungere alla sua conclusione, allora per quello stesso procedimento inferenziale possiamo dire che tale proposizione è vera tanto legittimamente quanto lo sono la sua contraria e la sua contraddittoria.

Con questo intendiamo dire che ciascuna teoria è assolutamente arbitraria pur cercando di mostrare necessarie le sue conclusioni che, per quanto più o meno consequenziali rispetto alla premessa, risulteranno altrettanto arbitrarie quanto la premessa maggiore. In questo senso, attenendosi strettamente e rigorosamente alla struttura del linguaggio, cioè a ciò che necessariamente deve accogliersi poiché si parla, non è possibile, in nessun modo, credere ad alcuna affermazione, e cioè immaginare che tale affermazione descriva uno stato di cose, in quanto lo stato di cose è un’altra affermazione e cioè un’altra stringa di proposizioni, quindi sono proposizioni che parlano di altre proposizioni e così via all’infinito. Se siamo partiti da ciò che non può essere negato in quanto parlanti, è soltanto per giocare un gioco più sofisticato e meno ingenuo.

Merita una particolare attenzione la questione dell’esperienza, poiché costituisce perlopiù la giustificazione e la garanzia della premessa maggiore di ciascun sillogismo che si intenda porre come necessario. Qualunque cosa si voglia intendere con esperienza, questa sarà sempre strettamente connessa con la percezione, e pertanto queste due nozioni potranno essere considerate insieme.

Ciò che generalmente viene inteso come esperienza è una conoscenza immediata e personale di qualche cosa, quindi una conoscenza. Ma la conoscenza può essere immediata? Cioè può darsi fuori dalla parola oppure no? Se si desse fuori dalla parola attraverso che cosa conoscerei? Potrei sapere di conoscere, cioè potrei dirlo? Evidentemente no. Nella Sofistica abbiamo affrontata la questione della conoscenza in questi termini:

"8.4 Possiamo considerare a questo punto che la conoscenza si ponga come l’acquisizione di proposizioni che quelle precedenti consentono di stabilire, e cioè un modo di arricchire il numero di proposizioni che il linguaggio consente di produrre. Cosa non da poco, se si considera l’eventualità che la maggiore ricchezza di proposizioni costruite coincida con la maggiore ricchezza di colui che le acquisisce, in quanto potrà disporre di un numero maggiore di rinvii, qualunque sia l’elemento che si sta ponendo, non trovandosi così nella necessità di credere che ciò che ha incontrato sia il solo rinvio possibile e pertanto necessario, e in questo modo considerarlo un elemento indipendente dalla parola, come se fosse una garanzia della parola, il suo referente necessario o un’emanazione dell’oggetto. 8.5 Considerare la teoria dell’emanazione comporta una riflessione su quanto viene dato per acquisito dal discorso religioso, che per definizione accoglie la teoria dell’emanazione come l’unica in grado di rendere conto dell’esistenza delle cose. Si avverte qui una notevole prossimità tra il discorso scientifico e il discorso religioso, entrambi hanno la necessità di pensare che qualcosa esista necessariamente fuori dalla parola, e pertanto che questo qualcosa sia conoscibile non soltanto attraverso la parola (sarebbe in questo caso inevitabile il considerare qualunque cosa come un effetto, una produzione della parola), ma conoscibile perché la cosa esiste di per sé, e esistendo si impone alla conoscenza, o alla coscienza che è la stessa cosa (se parlo della conoscenza allora ho necessariamente coscienza della conoscenza, se no non potrei saperne in alcun modo, e se ho coscienza come lo so se non ne ho nessuna conoscenza?). In questo modo, sia il discorso scientifico sia il discorso religioso non potrebbero giustificare la propria esistenza senza la teoria dell’emanazione, che consente di mantenere la certezza che qualcosa esista fuori dalla parola, e che quindi non sia dipendente dalla parola. La teoria dell’emanazione afferma, è costretta ad affermare che la parola termina, deve avere un termine, perché se non lo avesse allora nulla sarebbe certificabile, nulla potrebbe essere creduto, né la scienza né la religione, qualunque essa sia, considerando che, forse, sono la stessa cosa."

In questa accezione l’esperienza si pone come conoscenza diretta, immediata dell’oggetto dell’esperienza a condizione che tale oggetto si conosca (si faccia conoscere) per emanazione. Ma nell’ipotesi che non si desideri credere a una simile cosa, allora occorrerà riflettere altrimenti.

È possibile, per esempio, considerare "i dati dell’esperienza" in quanto proposizioni e pertanto, in questo caso, acquisire esperienze sarà acquisire proposizioni che possono essere utilizzate dal discorso per costruire altre proposizioni. Ma ciò che più ci interessa è che l’esperienza può venire considerata talvolta come evento extralinguistico; come può avvenire? La questione risulta centrale in tutto questo lavoro, poiché potrà consentire di cogliere in termini precisi ciò che consente al discorso religioso di instaurarsi e di consolidarsi.

L’esperienza dunque può mostrarsi ma non dimostrarsi, questione importante perché pone l’accento su ciò che più ci interessa, e cioè il fatto che alla base di qualunque ragionamento deduttivo, o comunque inferenziale, risieda qualcosa che sarebbe fuori da ogni possibile inferenza, come se il dato esperienzale fosse l’antecedente necessario di qualunque attività di pensiero. Questione che ovviamente non può essere dimostrata in alcun modo, per definizione, ma che tuttavia occupa un posto di primo piano in tutto il discorso occidentale, potremmo dire che in questo senso l’esperienza è posta come la premessa maggiore necessaria di qualunque discorso possa farsi. Ma tale premessa maggiore necessaria non può in alcun modo essere provata, può dunque soltanto essere creduta. Una obiezione potrebbe riguardare il fatto che se non fosse creduta allora, in questo caso, nessuna attività umana potrebbe essere svolta poiché non vi sarebbe nulla che potrebbe essere esperito e dunque conosciuto. Ma forse non è proprio così, perché potrebbe non essere necessario che una qualunque cosa, per potere essere conosciuta, debba anche essere creduta vera, poiché può essere considerata, una qualunque cosa, unicamente come una produzione linguistica, così come è una produzione linguistica, e quindi un gioco linguistico, il discorso che si domanda se debba o possa esistere qualche cosa che non sia un gioco linguistico.

Esercitare il pensiero si configura qui come l’affrontare una questione, una qualunque questione, non arrestandosi a nessuna conclusione, in altri termini imporre al proprio discorso di attenersi unicamente a ciò che non può essere negato per il fatto stesso di parlare. A queste condizioni può avviarsi un discorso teoretico, cioè un discorso che non abdichi all’intelligenza per nessun motivo. Abdicare all’intelligenza vale qui a fermare le connessioni, le implicazioni, ritenendone almeno una come fuori dalla parola e quindi come l’ultima, quella cioè che costringe ad un assenso incondizionato.