5. ETICA
5.1 L’etica, dunque. L’etica dice che il modo in cui mi muovo, ciò che faccio, è esattamente ciò che dico: ciò che dico, faccio. Ma in che modo? E poi, è proprio così?
5.2 Abbiamo detto nelle sezioni precedenti che dicendo faccio qualcosa, e cioè dico. Il fare è pertanto nella parola. Ma il fare è sempre nella parola oppure no? Potrebbe essere fuori dalla parola? Occorre stabilire con precisione che cosa si debba intendere con "fare", perché la questione sembra piuttosto complessa. Come distinguo ciò che faccio dicendo da ciò che faccio fuori dalla parola? Nel primo caso la questione pare svolgersi totalmente in termini linguistici, nel secondo invece il fare è pensato come il muoversi, o il muovere qualcosa, trasformare qualcosa che, almeno apparentemente, sembra fuori dalla parola e esterno a me che muovo. Vediamo se è proprio così.
5.3 Consideriamo il trasformare qualcosa. Cosa dobbiamo intendere propriamente con trasformare qualcosa, l’intervenire attivamente su qualcosa in modo che questo qualcosa, dopo sia differente da prima? Se è questo che dobbiamo intendere con "trasformare" allora occorre riflettere sulla nozione di intervento, poiché sembra che sia la questione centrale. Se intervengo su qualcosa, o in qualcosa, come si preferisce, e qualunque sia la nozione di intervento che piaccia accogliere allora effettivamente faccio qualcosa, ma cosa faccio? Per fare qualcosa occorre che sappia che sto facendo qualcosa oppure no? Se non lo so come posso dire che faccio qualcosa? Forse posso dirlo dopo, quando me ne accorgo, ma questo "accorgermene" che altro è se non venire a sapere che ho fatto qualcosa? Ma allora è soltanto quando so di fare che faccio qualcosa? Parrebbe, perché se non lo so come faccio a dire, quindi a sapere che faccio qualcosa? Posta in questi termini la questione sembra escludere l’eventualità che possa esistere il fare fuori dalla parola, che io possa "fare" fuori dalla parola. Fuori dalla parola pertanto non faccio nulla, non muovo nulla, non trasformo nulla.
5.4 Stiamo considerando l’eventualità che sapere qualcosa non sia altro che reperire un elemento linguistico nella relazione con altri elementi linguistici che l’elemento che "so", produce, e dai quali è prodotto e senza i quali non potrebbe esistere, e nemmeno essere pensato. Sapere qualcosa allora costituisce la "rete" di connessioni di cui ciascun elemento è fatto e di cui e per cui esiste non potendosi, questo elemento, in nessun modo reperire isolato dalla catena linguistica; fuori da tale catena semplicemente non esiste, non è mai esistito. In questo caso l’apprendere sarebbe acquisire gli elementi a cui occorre connettere l’elemento x per potere dirlo, e in effetti posso dirlo soltanto attraverso altri elementi che non sono x. Ma qui si apre una questione importante, poiché è da qui che procede l’addestramento a pensare, a pensare in un modo anziché in un altro. Stabilire queste connessioni è sapere "usare" il linguaggio, cioè, in definitiva, parlare. Ma posso apprendere questo "uso", o è l’uso che mi consente di apprendere?
5.5 Consideriamo la questione. Che senso ha pensare di apprendere l’uso del linguaggio se non ho già acquisito un linguaggio attraverso cui apprenderlo. Da questa via sembra che non possiamo procedere. D’altra parte sembra non essere una questione nuova, poiché è la struttura che si incontra inevitabilmente ciascuna volta in cui si pone una questione senza considerare le condizioni per cui può porsi, e cioè che sia già inserita nel linguaggio in cui necessariamente mi trovo facendo queste considerazioni. Dunque, se non c’è uscita dal linguaggio allora non posso apprendere il linguaggio ma soltanto constatarlo in atto, nel suo farsi, e in quanto sono prodotto dal suo farsi.
5.6 Detto questo, torniamo alla questione da cui siamo partiti, e cioè quella che afferma che faccio esattamente ciò che dico. Cosa accade quando faccio qualcosa? Come so che faccio qualcosa? Non possiamo certo rispondere che lo so perché me ne accorgo, perché saremmo esattamente al punto di partenza, dunque occorre trovare un’altra via. Abbiamo appena indicato il sapere come una rete di connessioni attraverso cui esiste ciò che dico di sapere, dunque sapere che faccio qualcosa è constatare tale rete di connessioni in atto. Se non so di fare, come so di fare? Cosa mi chiedo chiedendomi se faccio anche se non lo so? Mi chiedo se esista un fare fuori dalla parola e che esista di per sé, che io lo sappia oppure no? Posso chiedermi una cosa simile, ma che senso ha? Come so di esistere? Se dunque non so, quando non so, allora posso fare soltanto se so di fare, faccio qualcosa soltanto se so che sto facendo qualcosa. Pare una formulazione strana, ma non possiamo dire altrimenti se non intendiamo credere qualunque cosa ma soltanto accogliere ciò che non possiamo non accogliere.
5.7 Stiamo dicendo che qualunque cosa faccia questa è nella parola. Allora ciò che faccio procederà dalla parola o da altro? Sembra che non abbiamo alternativa, cioè dobbiamo dire che, essendo nella parola, procede necessariamente dalla parola, da ciò che dico. Ma in che modo? Supponiamo non più che creda, ma semplicemente che affermi x. Dicendo x faccio esistere x nella parola (abbiamo già considerato che il soggetto è sempre, necessariamente un soggetto grammaticale, una deissi, un indicatore linguistico), facendo questo mi trovo di fronte a qualcosa che prima non esisteva, ma che esiste adesso. Supponiamo ancora che la proposizione p che afferma x produca la proposizione q come suo significato, cioè come ciò che fa esistere p. Allora, per dirla rapidamente, dicendo p faccio q, e facendo q faccio esistere p. Tutto questo per avvicinarci alla questione che ci sta interrogando, e cioè in che modo faccio ciò che dico.
5.8 Il modo di cui si tratta consiste in questo, che dicendo qualcosa, non posso in nessun modo esimermi dal considerare ciò che dico, perché ciò che dico è la sola cosa che esiste in quel momento, dicendosi. Se esiste quello che dico, perché dicendolo lo faccio esistere, allora io, esistendo in quello che dico, non sono null’altro che ciò che dico e se ciò che faccio non è fuori dalla parola di quale parola si tratterà se non di quella che mi sta costituendo mentre si dice, mentre la dico? Allora, qualunque cosa faccia questa sarà necessariamente inserita nell’atto di parola che mi sta costituendo. Non potrebbe essere altrimenti poiché in caso contrario, se ciò che faccio fosse fuori dalla parola che mi sta costituendo (quella che sto dicendo), allora di ciò che faccio non potrei sapere nulla, perché sarebbe fuori dalla parola che mi costituisce e, non potendolo sapere, per quanto detto più sopra, non farei nulla.
5.9 Abbiamo affermato che ciò che faccio è inserito nella parola che mi sta costituendo dicendosi, e che non potrebbe essere altrimenti e che è la sola cosa che esista in quel momento, ma occorre considerare ancora. Perché è la sola cosa che esiste in quel momento? Come lo so? La questione è che la domanda andrebbe posta al contrario, e cioè come lo so quando esiste in un altro momento, come faccio a saperlo. Perché, se mentre sto dicendo so che sto dicendo per via del fatto che se dico allora, per una regola linguistica necessariamente dico qualcosa, allora come so che qualcosa esiste in un altro momento, cioè in un’altra parola, se questa parola non si sta dicendo. A meno che la dica, ma allora esiste in questa parola, e non in un’altra. Cioè esiste sempre, necessariamente, nella parola che si sta dicendo, che sta facendo qualcosa. Che esista altrove posso pensarlo, posso pensare qualunque cosa, ma lo sto pensando adesso, e non posso dire di saperlo se per poterlo dire devo dire come lo so. Se ci provo troverò dei divieti linguistici che mi impediscono di proseguire, come per esempio il regresso all’infinito o la petizione di principio, di fronte ai quali non posso procedere se non compiendo un atto di fede, cioè credere che sia così come penso che sia, come voglio che sia, ma abbiamo detto che preferiamo evitare atti di fede di qualunque tipo, e pertanto su questa via, non possiamo procedere.
5.10 Ci troviamo qui di fronte a una questione complessa che occorre considerare attentamente. Abbiamo affermato che ciò che non si sta dicendo non esiste, non esiste nella parola, non esistendo nella parola, non esiste in alcun modo. Quanto detto parrebbe andare contro l’evidenza, ma quale evidenza. Cos’è "evidente"? Ciò che non può non accogliersi? Se così è, allora ciò che non può non accogliersi è che parlo, necessariamente, e quindi qualunque cosa accada questa o è nella parola oppure è nulla. O quale altro criterio dobbiamo adottare? Se ne adottiamo uno qualunque allora andrà altrettanto bene un qualsiasi altro e, valga per tutti, quello che afferma che esiste ciò che mi pare e tanto basta. Ma, potrebbe obiettarsi, esiste ciò che per i più esiste. Allora, in questo caso, l’esistenza è frutto dell’opinione della maggioranza. Non è che sia un criterio migliore o peggiore di qualunque altro, è che non possiamo farcene nulla, non possiamo avvalercene in nessun modo per la ricerca che stiamo facendo. Al di là di questo, va bene come qualsiasi altro. Va bene nel senso che, al pari di qualunque altro, è assolutamente arbitrario.
5.11 Il termine "arbitrario" merita di essere considerato poiché potrebbe porsi la domanda se esista qualcosa che non sia arbitraria. Consideriamo infatti un’obiezione. Ciascuna volta, se ciò che dico non è derivabile né in alcun modo posso sapere di ciò che lo precede se non inserendo quest’ultimo nella parola che si dice adesso, allora, qualunque cosa dica sarà sempre, necessariamente arbitraria, cioè non potrà essere né giustificata, né dedotta da nulla, e in questo caso la stessa deduzione di cui ci siamo avvalsi fino a questo momento cesserebbe di essere un criterio valido e svanirebbe nel nulla. Ma non solo, in questo modo verrebbe vanificata la possibilità stessa di sapere alcunché, e quindi non si sarebbe potuta fare nessuna di queste riflessioni che stiamo facendo, se le stiamo facendo, allora qualcosa è derivabile, e la deduzione può farsi. Come uscire da questo intoppo in cui ci siamo messi?
5.12 Proviamo a riflettere ancora. Ci stiamo trovando di fronte a una formulazione paradossale, che afferma che ciò che si dice non può esistere in alcun modo non procedendo da nulla, come se fosse fuori dalla parola e, allo stesso tempo, afferma che questa affermazione non potrebbe farsi se non esistesse la deduzione, e la deduzione è un’inferenza che procede da ciò che precede, ma se ciò che precede non è nella parola che si sta dicendo, allora come posso dire ciò che sto dicendo? Allora so che esiste qualcosa che precede ciò che dico soltanto perché se così non fosse non potrei dire? In altri termini, so che è possibile la deduzione soltanto perché la sto usando come procedura linguistica? Parrebbe. Il fatto che utilizzi delle procedure linguistiche che cosa mi consente di dire di tali procedure, se non che le sto utilizzando nel chiedermi che cosa sono tali procedure? Il fatto che stia utilizzando una procedura linguistica, la deduzione per esempio, che cosa mi autorizza a dire se tengo conto che si tratta, appunto, di una procedura linguistica e non di un’entità posta fuori dalla parola? Mi consente di dire che se qualcosa procede da qualche cos’altro questo qualche cos’altro lo precede? Si, me lo consente, senza tuttavia dirmi assolutamente nulla circa il "ciò che precede", non mi dice nulla perché non può dirmi nulla. E come potrebbe senza violare la sua stessa struttura, e cioè mostrandomi ciò che non può mostrare, ciò che non può dire. La parola non può dire un’altra parola, se la dicesse allora sarebbe quell’altra parola, e sarebbe, comunque, sempre se stessa.
5.13 Detto questo, il paradosso di cui si diceva prima acquista un’altra forma, e cioè quella stessa forma della domanda che chiede come so che questa è la mia mano. In altri termini, chiedermi se so che ciò che procede da qualcosa è necessariamente preceduto da questo qualcosa è chiedermi se so le procedure linguistiche, e so le procedure linguistiche in quanto le sto usando, in quanto non posso non conoscerle se me lo chiedo, esattamente allo stesso modo in cui so che se dico "dopo", questo comporta un "prima", semplicemente per una procedura linguistica, niente più di questo. Non posso dire niente più di questo, ma non è poco, se si considera che dicendo questo dissolvo la possibilità stessa di pensare nei termini per cui è creduta la possibilità di una garanzia della parola fuori dalla parola.
5.14 Eppure, nonostante quanto detto la questione dell’arbitrarietà ci interroga ancora. Ciò che dico si impone come atto ciascuna volta originario, ma non derivabile da nulla. Mi trovo cioè di fronte a qualcosa di imprevisto, di inedito, di impensabile. Come di fronte alla prima parola scritta sul foglio bianco, qualcosa che interroga, perché già rinvia alla parola successiva, anzi, quella non esiste più, esiste soltanto questa. Ma che qualcosa si dica è la condizione perché tutto ciò che abbiamo detto fino ad ora possa esistere. Se non si dicesse ciascuna volta qualcosa non esisterebbe il linguaggio, non esisterebbe la parola in quanto atto, non esisterebbe nulla, e viceversa qualcosa può dirsi perché esiste il linguaggio che lo consente. Da qui, abbiamo visto che non possiamo uscire, ciononostante mi trovo ciascuna volta di fronte a qualcosa che si sta dicendo e che mi fa esistere.
5.15 È la parola ciò su cui stiamo riflettendo, la parola cioè l’atto in cui mi trovo, in cui esisto e per cui esisto, la parola che si dice e che ciascuna volta inaugura una catena, una stringa della quale non so ancora nulla. Parafrasando De Saussure potremmo dire che ciascuna volta in cui dico accade qualcosa di cui non posso più fare nulla, se non ascoltarne gli effetti, l’eco e quanto produce in ciò che ne segue. L’etica, nell’accezione di cui stiamo parlando, si occupa esattamente di questo, della parola in quanto atto che interviene a mostrarmi ciò che accade, ciò che esiste e, in definitiva, ciò a cui non posso sottrarmi. È su questo che occorrerà riflettere.
5.16 La parola accade. Potremmo dire che accade senza preavviso. Non derivabile né deducibile, instaura la possibilità della deduzione attraverso le regole e le procedure di cui è fatta e per cui esiste. Accade e non c’è alcun modo per prevederne gli effetti, le implicazioni. Ma quali implicazioni se la parola che seguirà non potrà non essere, in quanto un’altra parola e unica, tanto indeducibile quanto quella precedente? Non potremmo sapere di nessuna implicazione.
5.17 Cosa intendiamo con implicazione? Abbiamo accolta la nozione di implicazione unicamente come deduzione necessaria, cioè come ciò che non può non accogliersi date le premesse. Ma a questo punto sorge un problema perché sembra, da quanto abbiamo detto, e quanto abbiamo detto segue pure da qualcosa, che non possiamo accogliere nulla che segua da qualcosa poiché da qualcosa non segue nulla in quanto ciascuna volta ci si trova di fronte a una parola che non è mai esistita prima e che non esisterà, una volta posta in atto, mai più. Cioè, per dire deduciamo delle cose, ma queste deduzioni, e queste cose non esistono, non sono mai esistite.
5.18 Come abbiamo già avuto modo di constatare in precedenza, ciascuna volta in cui ci troviamo di fronte a una proposizione paradossale questa procede da una formulazione della questione che non tiene conto del fatto che ciò che si sta dicendo è nel linguaggio e non altrove. Se teniamo conto di questo allora possiamo considerare che la deduzione è una procedura linguistica che consente operazioni linguistiche, e non una sorta di entità fuori dalla parola. In altri termini, deducendo compio un’operazione linguistica per cui dire che se deduco allora esiste qualcosa da cui deduco è, ancora una volta, soltanto una procedura linguistica, così come dicevamo che dicendo "dopo" implico un "prima". Se deduco, deduco da qualcosa, ma dire questo è soltanto enunciare una procedura linguistica che non mi autorizza ad affermare nulla più di questo. Allora la parola non è deducibile perché esiste in quanto esiste la deduzione come una delle procedure di cui la parola è fatta e non possiamo dedurre la deduzione, poiché non possiamo dedurre la parola, né il linguaggio. Con che cosa lo potremmo dedurre infatti se non attraverso la stessa deduzione? Consideriamo anche che ciascuna domanda che tenti di giustificare o garantire il linguaggio con qualcosa posta fuori dalla parola, ha la stessa struttura della domanda che chiede come so che questa è la mia mano. Non possiamo porla questa domanda, perché non possiamo uscire dal linguaggio.
5.19 Risulta sempre più chiaro in ciò che andiamo facendo che la parola non può isolarsi dall’atto in cui esiste, e che pertanto qualunque cosa ne diciamo questa sarà sempre un atto di parola. Da qui l’impossibilità di incontrare paradossi, che intervengono sempre e soltanto laddove qualcosa è posto fuori dalla parola, e da lì richiesto di giustificare se stessa, di garantire se stesso. E non può farlo. L’uscire dalla parola è già la contraddizione, e quindi inevitabilmente incontra un paradosso, una proposizione che è vera se e soltanto se nega se stessa, e questa non può essere che la proposizione che afferma di sé di essere fuori dalla parola, che allora è vera se e soltanto se nega se stessa, cioè se afferma di sé di essere nella parola. Risulta anche che considerando la parola come atto di parola ne consideriamo necessariamente l’agire, e cioè che la parola, in quanto atto, agisce. Ed è esattamente questo che intendiamo dicendo che la parola "fa" qualcosa dicendosi. Questo agire lo abbiamo incontrato precedentemente, riflettendo intorno al "fare qualcosa" dicendo, ora si tratta di precisare ancora.
5.20 Abbiamo preso l’avvio in questa sezione dal considerare come agisco parlando. A questo punto abbiamo qualche elemento in più per potere dirne qualcosa. In effetti, se la parola accade è questo stesso accadere che agisce, che fa esistere le cose. Potremmo dire che, accadendo, la parola esiste con e per il suo stesso accadere. E non potrebbe essere altrimenti, perché se così non fosse allora altro la farebbe esistere, e cosa farebbe esistere questo altro, attraverso che cosa potrebbe esistere se non attraverso qualcosa che posso sapere (quindi dire) e quindi se non attraverso la parola? Ma allora, se la parola accade, allora faccio ciò che la parola fa, necessariamente. Se la parola dicendosi fa esistere la paura, io ho paura, se fa esistere la rabbia, io provo rabbia. O potrebbe essere altrimenti?
5.21 Ma riflettiamo ancora su questo "fare esistere". Abbiamo detto che la parola fa esistere dicendo, ma fa esistere che cosa esattamente? E di quale esistenza si tratta? Inincominciamo da quest’ultima questione, e cioè quella che afferma che ciò che incontro, qualunque cosa sia, esiste perché è nella parola, e pertanto è un’esistenza nella e della parola. Allora, se è l’esistenza stessa della parola allora, come abbiamo visto in precedenza, non ho nessun modo per potere distinguere le due cose, ciò che dico e ciò che faccio, tuttavia posso dire che non sono la stessa cosa. Ma che cos’è una stessa cosa, di quale criterio di stessità dovremmo avvalerci? Qualunque criterio mi piaccia pensare questo criterio utilizzerà già la nozione di stessità, ma non potrà saperne nulla. La "stessità" è una procedura linguistica. Allora posso dire che ciò che dico non è la stessa cosa di ciò che faccio, ma non posso saperlo? Parrebbe proprio così. Ma se pronuncio il significante "paura", allora provo anche paura? Certamente no, posso pronunciare tutto quello che voglio, e non accade nulla. Ma cosa mi aspetto che accada? Che la mia parola faccia esistere le cose? Che cosa mi sto chiedendo con questo "esistere". E quali cose? Dire che ho paura non significa affatto che ce l’abbia. Ma allora la paura di cui dico non è la paura che provo, evidentemente. Ma allora esiste qualcosa che dico ma che non è in ciò che dico, contrariamente a tutto ciò che abbiamo affermato fino a questo momento. Oppure stiamo prendendo un abbaglio, abbagliati dall’idea, antica ma pur sempre efficace, che a ciascun significante debba corrispondere una cosa come suo significato prestabilito da un codice, e che in assenza di questo "codice" non potremmo parlare perché non esisterebbe la possibilità di produrre proposizioni che abbiano un senso, per cui anche tutto ciò che andiamo dicendo non potrebbe esistere in alcun modo, perché non potrebbe avere nessun senso nemmeno per me che le dico, e quindi non potrei dirle.
5.22 Tuttavia. Supponiamo che dica x e che la proposizione che dice x sia p. Per dire x devo dire la proposizione p che la dice, ma la proposizione p non è x, non essendo x ed essendo x detta da p, allora ciò che farò sarà dire p. Supponiamo che x sia il significante paura, allora x, essendo inserito in p che è la proposizione che lo afferma, esisterà in p, ma p che cosa fa dicendo x? Potremmo dire che ciò che faccio dicendo p che afferma x è esattamente l’uso di x nella proposizione p. Ma che cosa dice p affermando x, che cosa fa esattamente?
5.23 La questione si va ponendo in questi termini: dicendo che ho paura faccio qualcosa che non è necessariamente ciò che faccio quando ho paura, ciò che distingue le due proposizioni è la proposizione in cui è inserita l’affermazione che dice che ho paura. Il significante "paura" può essere inserito in una qualunque combinatoria linguistica, ma è ciò che fa questa combinatoria che deciderà dell’uso del significante "paura" che, per potere dirsi occorre che sia anche una procedura linguistica. Allora potremmo dire che è tanto una procedura linguistica quanto una produzione linguistica. Rileviamo qui una questione importante, e cioè l’affermazione che un elemento linguistico è entrambe le cose, e cioè una procedura e una produzione, e che non può essere una soltanto delle due poiché, in questo caso, non potrebbe esistere. Non potrebbe per una questione molto semplice, e cioè che una procedura linguistica è tale perché eseguita e, in quanto eseguita (cioè in atto), è una produzione. In altri termini, intendiamo con produzione una procedura linguistica in atto.
5.24 È su questa questione che s’inserisce ciò che si intende come il modo di pensare di ciascuno, ciò che ciascuno si trova a pensare e per cui agisce nel modo in cui agisce. Ed è questo che consente di riflettere sull’eventualità che sia possibile interrompere qualunque forma di credenza, in qualunque modo si mostri e qualunque cosa la sostenga. Consideriamo infatti l’eventualità che qualcuno creda qualcosa. Se crede qualche cosa crede anche che sia vera, e se è vera allora rappresenta come stanno le cose, le mostra così come sono. Dunque può credere qualcosa se e soltanto se suppone che le cose possano essere in un modo, e possono essere in un modo perché sono pensate come isolabili dal linguaggio, se non lo fossero non esisterebbero fuori dalla combinatoria linguistica e pertanto significherebbero soltanto ciò che la combinatoria in cui esistono dice che sono, e null’altro. Allora la condizione per pensare che le cose esistano fuori dalla parola, e quindi siano garanti della stessa parola è attribuire a ciò che si dice la funzione di testimone della mia stessa esistenza, e cioè garantisce, oltre che l’esistenza delle cose anche, e soprattutto, la mia. Ma perché mai dovrei cercare una garanzia della mia esistenza se parlando la affermo? Con "garantire l’esistenza" intendiamo questo, che qualunque cosa dica o faccia questa non dirà soltanto qualcosa, ma testimonierà dell’esistenza di quella cosa, esistenza che sarà assolutamente indipendente da me che la dico, cioè dalle parole che la dicono.
5.25 Questo accade perlopiù, ma potrebbe non accadere? E se anziché credere che ciò che dico rappresenti uno stato di cose esistente da qualche parte lo considerassi invece come una domanda che mi si sta ponendo in ciò che dico, come ciò che mi questiona, cosa accadrebbe? È differente un’affermazione da una domanda, anche se quest’ultima non ha il punto interrogativo. L’affermazione, così come la stiamo considerando, dice soltanto che ciò che si sta dicendo è necessario, non potrebbe non essere, in quanto dice che, dicendo, sta dicendo, e cioè non dice nulla che non stia già facendo. Affermare è questo, oppure affermare è dire qualunque cosa e il suo contrario, simultaneamente. Poiché ciò che posso "fermare", affermando è soltanto che sto dicendo, qualunque altra cosa è assolutamente opinabile, dipende cioè da ciò che credo. Che io stia parlando non dipende da ciò che credo, perché se lo negassi, allora negherei la possibilità stessa di negare e quindi non potrei negare di stare parlando. Ma questo non è possibile, per cui resta la nozione di affermazione che abbiamo indicata.
5.26 Ma torniamo alla questione precedente, quella che chiedeva che cosa accadrebbe se mi ponessi di fronte a ciò che affermo come se si trattasse di una domanda. Siamo giunti alla questione specifica del sofista, perché è esattamente di questo che si tratta, del porsi di fronte a questioni anziché ad affermazioni. Questo non significa affatto né l’immobilità alla maniera degli scettici, né l’atarassia alla maniera degli stoici, più semplicemente in questo caso si darebbe la possibilità di ascoltare ciò che si produce in ciò che si dice, senza essere costretti ad assentirne né a dissentirne. Se dico qualcosa e non acconsento e né dissento da ciò che dico, c’è l’eventualità che sia libero di accogliere ciò che sto facendo parlando anziché escluderlo o ipostatizzarlo come un dato di fatto, rispetto al quale non posso fare nulla, se non appunto acconsentire o dissentire.
5.27 Si va delineando in termini più precisi la questione dell’etica che ci sta interrogando in questa sezione. Da quanto detto possiamo definire l’etica come la condotta che s’impone nel tenere necessariamente conto di ciò che si fa in ciò che si dice, nel non potere sottrarsene, e quindi accogliere ciò che la parola, interrogando, pone. Con "accogliere un’interrogazione" intendiamo accogliere, quindi considerare, articolare le connessioni di cui è fatto ciascun elemento linguistico, che non esiste isolato dalla combinatoria in cui è inserito e dalle procedure di cui è fatto. In questo modo parlare si pone come una ricerca, una ricerca senza fine né finalità, se con finalità si intende una meta ultima a cui si deve giungere. Oppure, possiamo intendere con finalità il proseguire della parola, il suo incessante trasformarsi in altre parole e queste in altre ancora e così via. Constatando in questo che chi parla è queste parole o è nulla, ma non può essere nulla perché non c’è uscita dal linguaggio, e pertanto ciascuno è letteralmente quello che dice. Questo che abbiamo appena detto, è esattamente ciò che intendiamo con "etica".
5.28 Non si tratta evidentemente di un modello, qualunque piaccia pensare, ma di una ginnastica intellettuale, di un esercizio a porre ciò è ritenuto più saldo, più incrollabile e più evidente come una domanda a cui può rispondere soltanto una procedura linguistica, quella stessa che ha consentito di porre la domanda. Ma come può una procedura linguistica rispondere a una domanda? Cosa stiamo dicendo con questo? Semplicemente che qualunque domanda si ponga o si incontri nel discorso questa dirà soltanto che ciò che si dice rinvia, implica, un’altra parola, che interroga e che costringe a confrontarsi con ciò che sta accadendo in ciò che si dice.
5.29 Con questo abbiamo terminata questa sezione che ha soltanto invitato a riflettere sulle condizioni per cui le cose dicendosi si fanno, suggerendo un criterio più "sofisticato" per procedere e, forse, più potente di altri prodotti dal discorso occidentale. Più potente perché si avvale di un criterio che non può essere negato, e non essendo negabile in alcun modo, necessario. È forse la prima volta che viene utilizzato un criterio che risulti necessario senza che questa nozione di necessità debba a sua volta attendere la legittimità da un altro criterio e così via all’infinito. Non c’è più la possibilità, rimanendo all’interno del linguaggio e delle sue procedure così come abbiamo fatto, di essere fermati da paradossi o da regressi all’infinito, poiché questi esistono soltanto laddove si ponga anche un solo elemento fuori dalla parola a garanzia della parola. Ed è inevitabile, perché qualunque affermazione, se intende porsi come necessariamente vera, deve potere provare la propria esistenza fuori dallo stesso criterio di cui si avvale per provare la sua verità. E questo non può avvenire. Le regole del linguaggio lo vietano, impedendo, se si intende provare qualcosa, di uscire dal linguaggio. Ciò che può farsi è adottare un altro criterio di verità attraverso il quale le affermazioni non debbano più necessariamente cercare una garanzia per potersi affermare. Il pensiero contemporaneo per alcuni aspetti, segue questo criterio, limitandosi a enunciare ciò che è possibile o ciò che è probabile, ma è probabile a quali condizioni? E come so che è probabile? E cosa si deve intendere dicendo che qualcosa è probabile? Che posso provarlo oppure no? Se si, allora siamo daccapo, se no, non posso parlare di probabilità ma affermare, più semplicemente, che a me piace così e tanto basta. Posizione legittima, ma poco accolta dal discorso occidentale che cerca in tutte le sue affermazioni di stabilire qualcosa, affermandola. Demolire questo non è cosa da poco, tuttavia il malanno non è forse così come può apparire che sia. Un giorno Wittgenstein si chiese se potesse darsi un giorno in cui ci saremmo potuti sbarazzare del principio di non contraddizione. Dipende da che cosa s’intende con contraddizione evidentemente, tuttavia c’è l’eventualità che il principio di non contraddizione, inteso come l’impossibilità di affermare simultaneamente vera e falsa una proposizione possa porsi come una procedura linguistica, cioè come ciò stesso che consente di parlare, una risorsa per potere proseguire a parlare.