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4. ERISTICA

 

È possibile costruire un gioco linguistico? Che cosa ci stiamo chiedendo con questa domanda? Se il linguaggio è un insieme di procedure in atto, allora è possibile variare queste procedure? E con che cosa se non con le stesse procedure che vorremmo variare? Allora qualcosa non può variare. Ciò che non può variare è la procedura che assegna a ciascun elemento un significato. Una procedura è l’assegnazione di un significato a un elemento? Dobbiamo dire allora che il significato di un elemento è la sua utilizzabilità da parte del linguaggio? Quando il linguaggio può utilizzare un elemento e quando non può farlo? Che cosa dobbiamo intendere con "utilizzare un elemento"? Il fatto che sia già nel linguaggio? No, soltanto le procedure sono già nel linguaggio, sono il linguaggio. Dire che le procedure sono il linguaggio comporta che non sia possibile parlare delle procedure senza dovere necessariamente utilizzarle.

Considerare le proposizioni scritte nella Sofistica come un insieme di procedure per la costruzione del linguaggio ð. La costruzione del linguaggio ð si avvale di un assioma e di una procedura. L’assioma consiste nell’affermazione che nulla è fuori dalla parola. La procedura consiste nell’accogliere soltanto le proposizioni che non possono essere negate, e che quindi non possono non essere accolte. Un solo assioma dunque e una sola procedura. Consideriamo se l’assioma e la procedura possono essere applicate a se stesse senza il ricorso di altri elementi fuori da queste. L’affermazione dell’assioma "nulla è fuori dal linguaggio" può essere fuori dal linguaggio? No, perché non necessita di alcun elemento extralinguistico per potere affermarsi e soddisfa il requisito di non essere fuori dalla parola in quanto, affermandosi, è necessariamente nella parola. La procedura che abbiamo adottata, applicata a se stessa non comporta nessuna contraddizione né alcun problema, infatti accogliere soltanto le proposizioni che non possono non essere accolte comporta necessariamente l’accoglimento della proposizione "accogliere soltanto le proposizioni che non possono non essere accolte", esattamente come una regola del gioco che si sta giocando.

Costruire un gioco linguistico è praticarlo, e le proposizioni della Sofistica costituiscono la praticabilità di questo itinerario, indicandone il metodo.

La logica mostra l’impossibilità dell’uscita dal linguaggio e ne considera la struttura.

La retorica indica il modo in cui le cose, non potendo non dirsi, si dicono.

La poetica stabilisce che le cose che si dicono sono una produzione della parola, vengono dalla parola e dalla sua struttura.

La politica considera che ciò che si dice è ciò che si fa, e che pertanto la condotta di ciascuno procede dalle questioni con cui si confronta il suo discorso.

L’etica afferma l’impossibilità di evitare il confronto con il proprio discorso e illustra gli effetti di tale confronto.

La Sofistica è il porsi in atto di tutto questo, il trovarsi nell’impossibilità di fare altrimenti. L’impossibilità di fare altrimenti è esattamente ciò che stabilisce l’esistenza del sofista, cioè di chi ha come referente sempre e soltanto il discorso che lo costituisce mentre si fa. Né non può non fare altrimenti, perché qualunque questione possa incontrare, questa è nulla se non inserita nella combinatoria in cui si trova e per cui esiste. È nulla nel senso che senza tale combinatoria ciascuna proposizione non dice assolutamente nulla, è nulla. Ma che cosa intendiamo dicendo che qualcosa, in assenza della combinatoria linguistica in cui esiste è nulla? Propriamente questo, che ciascun elemento che interviene nel discorso, non comporta altro che una presa d’atto del fatto che qualche cosa si è detta, nulla più di questo, e cioè che, in questo caso, ciascun elemento linguistico non è altro che ciò che dice. Per esempio, ciò che si sta dicendo in queste righe è qualcosa in quanto produce effetti di senso per chi scrive soprattutto, e questo consente di aggiungere altri elementi, ma secondo un criterio particolare. Il criterio dice che ciascun elemento che interviene è accolto, per via di quanto si è stabilito nella logica, soltanto in connessione con altri, e questi con altri ancora e così via, marcando l’impossibilità che un qualsiasi elemento possa stabilirsi come l’ultimo, e pertanto si pone come procedimento infinito, dove ciascun elemento è sempre necessariamente aperto ad altri rinvii.

Il tipo di procedimento che si produce nell’elaborazione che stiamo compiendo, si struttura esattamente come un procedimento eristico.

L’eristica procede qui dunque dalla Sofistica portandola alle estreme conseguenze nel mostrare l’assoluta disponibilità della parola a costruire o a distruggere qualunque credenza, certezza o religione piaccia pensare. In egual modo e con argomentazioni altrettanto forti.

L’eristica non è suadente, s’impone con la forza costrittiva di un’argomentazione che non è possibile eliminare. Risulta inadatta al discorso pubblicitario o religioso, che devono essere persuasivi, ma efficace laddove s’intenda impedire a un qualunque discorso di imporsi come vero, e quindi di essere creduto tale. Praticare l’eristica esclude per definizione la possibilità del discorso religioso, cioè di un qualsiasi discorso fondato sulla credenza di una qualunque cosa. Allora dunque, con eristica intendiamo questo:

a) L’eristica sia l’arte di vincere le dispute, qualunque disputa, in assoluta malafede.

b) Con arte intendiamo una successione di procedure tali il cui esito consista nel produrre affermazioni non negabili in quanto costruite utilizzando soltanto ciò che non può essere negato.

c) Con vincere intendiamo l’illustrare l’impossibilità logica di una qualunque tesi contraria.

d) Con disputa s’intenda una qualunque situazione in cui all’esistenza di una qualunque cosa si opponga una qualunque obiezione che mostri l’impossibilità logica di ciò a cui si obietta.

e) Con impossibilità logica intendiamo l’impossibilità di potere provare una qualunque asserzione e, quindi, il mostrarne l’assoluta arbitrarietà.

f) Con arbitrarietà intendiamo la legittimità logica di potere affermare qualunque cosa o il suo contrario.

g) Con malafede intendiamo la consapevolezza che vincere in una qualunque disputa non garantisce nulla né stabilisce nulla, fuorché la constatazione che qualunque proposizione si enunci, questa non potrà denotare nulla che sia fuori dalla parola.

Si consideri una qualunque affermazione p che sia ritenuta vera, questa affermazione p avrà necessariamente la struttura sintattica di una qualunque proposizione, e cioè un soggetto, un verbo, un predicato, eccetera. Ciò che compie l’azione di attribuire ad un soggetto un predicato è il verbo evidentemente, e allora l’attenzione punterà sul verbo in prima istanza, considerando se al soggetto sia possibile sempre necessariamente attribuire quel verbo, oppure se tale attribuzione risulti già di per sé arbitraria. Se al soggetto pertiene quel verbo, in quella circostanza, allora la pertinenza del verbo indica l’esistenza in atto di un certo gioco in quel certo momento, le cui regole prevedono che a quel soggetto pertenga quel verbo, regola a cui ci si aspetta che ci si attenga. Ma l’attenersi a quel certo gioco è sempre una posizione revocabile e non necessaria. Che non sia necessaria segue al fatto che per potere accogliere quel certo gioco che si sta giocando, è necessario accogliere anche tutte quelle assunzioni, previste dalle regole, che rendono quel gioco possibile, annullare una o più di tali assunzioni renderebbe impossibile continuare quel gioco. Risulta essenziale riflettere sulle assunzioni che si accolgono ciascuna volta in ciascun discorso, cioè su ciò che si dà per acquisito. Ma è anche molto importante tenere conto di quali assunzioni siano necessarie perché il discorso possa farsi, non accogliere tali assunzioni porrebbe in una posizione insostenibile in quanto non condivisibile da nessuno, e pertanto occorre muovere da ciò che ciascuno non può non accogliere. Ciò che ciascuno non può non accogliere è che stia parlando, e che pertanto sia preso in una struttura linguistica. Ciascuno può instaurare questa considerazione argomentando, per esempio, nel modo che segue:

1. Alla domanda se sia possibile uscire dal linguaggio, confutare qualunque risposta affermativa: per uscire dal linguaggio occorre un linguaggio che consenta di compiere tale operazione, e pertanto per potere uscire dal linguaggio occorre il linguaggio.

2. Qualunque cosa si stia dicendo, esprimendo, allora questa è nel linguaggio e non può uscirne. La domanda a questo punto è: cosa comporta questo esattamente? Evidentemente che questo qualcosa non sia un qualcosa fuori dalla parola, e che non possa riferirsi a nulla che sia fuori dalla parola se, come abbiamo appena detto, non può dirsi né darsi nulla fuori dalla parola.

3. Allora una qualsiasi considerazione, affermazione o decisione, non potrà essere riferita se non ad altri elementi linguistici.

4. I punti 1. 2. e 3. comportano necessariamente che ciascuna asserzione tragga la propria esistenza e quindi il proprio senso, da ciò che la fa esistere, e cioè la combinatoria in cui è inserita. La combinatoria è il discorso in cui avviene tale asserzione, pertanto ciascuna asserzione esisterà nel discorso in cui avviene e per il discorso in cui avviene. Nessuna asserzione precede il discorso in cui è inserita, ciascuna asserzione è tale perché è un elemento linguistico, e quindi esiste nella parola, in connessione con altri elementi linguistici. In caso contrario, se non fosse in connessione con altri elementi linguistici sarebbe fuori dalla parola e, quindi, non esisterebbe in alcun modo.

5. Un discorso è una successione di elementi linguistici organizzati in modo tale da potere essere riconosciuti in quanto elementi linguistici, e cioè organizzati da regole che stabiliscono i modi per potere proseguire a parlare. Chiamiamo tutto questo "gioco linguistico".

6. Allora ciascuna asserzione esisterà come tale in quanto sarà inserita in un gioco linguistico. In altri termini, per potere asserire una qualunque cosa, non posso non accogliere che sto parlando, e che cioè sono preso in una struttura organizzata da delle regole.

7. Applicando la 6 a se stessa, otteniamo un’infinitizzazione del processo di produzione di giochi linguistici e quindi di regole di formazione di nuove asserzioni, che saranno possibili dall’applicazione delle regole di formazione di asserzioni. Ciò che chiamiamo "regola" non è altro che un tópos retorico, e cioè esattamente ciò che consente di passare da un antecedente a un conseguente. Soltanto questo.

8. Ma se una qualunque asserzione p esiste in un discorso, allora la sua "verità" sarà prodotta dalle regole del discorso in cui è inserita, né potrebbe esistere altrove, e pertanto sarà possibile affermare p se e soltanto se p sarà una regola del discorso in cui è inserita.

Le proposizioni dalla 1 alla 8 costituiscono le considerazioni più elementari intorno al linguaggio, un primo modo di approcciare la questione attenendosi strettamente a ciò che non può non accogliersi se si parla. Un modo di avviare un percorso eristico, e cioè un modo in cui non risulti più possibile non tenere conto dell’esistenza del linguaggio come condizione dell’esistenza di qualunque cosa, compreso il linguaggio ovviamente, con tutto ciò che questo comporta.

Risulta, da quanto detto, che l’eristica, così come l’abbiamo illustrata, possa porsi come uno dei modi più efficaci di avviare una riflessione intorno al linguaggio, alle sue procedure e alle sue regole, attenendosi sempre e soltanto a queste. Vantaggio non indifferente, se si considera che in questo modo si costruisce un discorso che non può essere negato, e che esclude, per definizione, l’eventualità di essere confutato. Ma non si tratta soltanto di questo, si tratta soprattutto di potere affrontare il proprio discorso con una libertà estrema, cioè la libertà di potere confrontarsi con tutto ciò che il proprio discorso produce, in quanto, e unicamente, come una produzione linguistica, come una produzione retorica. Allora con "eristica" intendiamo l’arte di controargomentare una qualunque proposizione, cioè coglierne le tesi contraddittorie, e quindi la possibilità di potere costruire, muovendo dalle stesse premesse, tesi contrarie. In prima istanza rispetto al proprio discorso, alle proprie tesi.

L’impossibilità di compiere tale operazione è prodotta da ciò che intendiamo come credenza, come discorso religioso che, immaginando la necessità di qualche cosa che debba essere necessaria, esclude la possibilità che sia possibile costruire tesi contrarie a qualsivoglia affermazione poiché in tal caso nulla sarebbe più necessario, e pertanto nulla sarebbe più credibile ponendosi, questo qualcosa, unicamente come gioco linguistico. L’essere in condizioni di potere costruire una tesi contraria a quella che si è imposta nel discorso, in qualunque discorso, comporterà l’impossibilità strutturale di potere credere che ciò che si afferma sia necessario.

Se è possibile credere che una affermazione sia necessaria, allora qualunque affermazione potrà essere necessaria, e sarà esclusa, per definizione, l’eventualità che possa costruirsi, utilizzando gli stessi criteri di prova, una tesi che provi esattamente il contrario.

Facciamo un esempio di argomentazione eristica.

Si consideri la sofferenza. A quali condizioni è possibile soffrire? Occorre che si creda di subire un evento, e che non ci sia nessun desiderio di subirlo. Intanto che cosa dobbiamo intendere con desiderio? Unicamente ciò che non possiamo non dirne, e cioè che è qualcosa che si produce nel discorso e che muove in una certa direzione. Solo questo.

Ora, proviamo a porre la questione in questo modo: tutto ciò che qualcuno produce, intendo i suoi pensieri, il suo discorso, ciò che crede ecc., e che nessuno costringe a fare, chiamiamo questa produzione desiderio. Ma per quanto riguarda il nostro esempio, e cioè la sofferenza, la persona generalmente dice di non volere una cosa del genere, e quindi si dovrebbe supporre che non la desideri, ma se è una sua produzione, e se ciò che produce non può non essere ciò che desidera, tenendo conto che il desiderio non può non essere se non ciò che producendosi nel suo discorso muove in una direzione, allora se non la desiderasse non la proverebbe, visto che, torniamo a ripetere, nessuno la costringe. Una persona non soffre perché qualche cosa la costringe a soffrire, proprio per nulla, di questa sofferenza ne ha l’assoluta, totale e irreversibile responsabilità. Una responsabilità che potremmo chiamare intellettuale, e allora se soffre cosa fa esattamente? Produce una sensazione che chiama sofferenza, e la produce perché questa sensazione è irrinunciabile, ed è irrinunciabile perché il discorso in cui si trova non rinuncia a produrla, ma che cos’è una sensazione a cui non è possibile rinunciare? C’è un termine che descrive tutto questo: si chiama piacere, anche se la sofferenza e il piacere non sono considerati sinonimi, perché generalmente si considera il piacere qualcosa che si prova e che si cerca, mentre la sofferenza è qualcosa che si prova ma che subisce, come il termine stesso ci indica. Se questa sofferenza è una produzione del discorso, allora posso considerare questa emozione, questa sensazione che produce la sofferenza come l’obiettivo della sofferenza. Non è proibito soffrire, ma non è neppure obbligatorio, è facoltativo, chi vuole farlo, può farlo.

Tuttavia, dicevamo prima, qualcosa è sofferenza perché è affiancata da un enunciato che nega di desiderarla, che apparentemente contraddice tutto ciò che stiamo affermando, ma noi restiamo fermi su questa posizione, e cioè sul fatto che sappiamo una cosa soltanto, che la tale persona soffre, e che nessuno la costringe a fare una cosa del genere, solo questo. Ciò che ne traiamo è che questa sofferenza è una sua produzione, e se la produce è per qualcosa, perché la sofferenza si produce da pensieri, da immagini, da discorsi che sono i suoi, ma questa sofferenza, cioè questa sensazione che chiama sofferenza, dice di non volerla. Ma questa è una questione prettamente grammaticale, nel senso che se parlo di sofferenza allora alludo a qualcosa che non voglio, anche se talvolta la cosa non è così precisa, così ben marcata. Se parlo invece di piacere allora alludo a qualche cosa che è affiancata da una proposizione che afferma di volere ciò che si produce. Ma la sensazione può essere la stessa, e allo stesso modo viene perseguita, come qualcosa di irrinunciabile.

Ma allora, se un discorso produce della sofferenza allo scopo di provare la sofferenza, allora se questo stesso discorso accoglie la sofferenza come una sua produzione (e non può non esserlo), la sofferenza non può più essere tale, poiché per definizione la sofferenza deve essere accompagnata da proposizioni che negano di volerla, e pertanto ne negano la responsabilità (nell’accezione indicata prima), perché se quella sensazione (la sofferenza) si pone come qualcosa che il discorso "desidera" allora si chiama piacere, e non più sofferenza, e viene accolta dal discorso in tutt’altri termini. Cioè non si produce più sofferenza, anche se la sensazione rimane, ma si chiama piacere, di cui ciascuno è totalmente responsabile, cioè non può non accogliere che è esattamente ciò che il suo discorso "desidera". Ma ciascuno è, il discorso in cui si trova.

Questo esempio di controargomentazione eristica indica la possibilità di potere costruire controargomentazioni a qualunque cosa si affermi e che quindi si imponga nel discorso. La potenza delle controargomentazioni è tale che qualunque cosa di cui sia possibile controargomentare (cioè provare vera la contraddittoria utilizzando gli stessi criteri di inferenza adottati nella prova), di cui cioè si sia provata essere inevitabilmente vera e falsa allo stesso tempo, non può, in nessun modo, essere accreditata come necessaria, e cioè tale da dovere essere creduta.

Ma perché non può avvenire che possa essere creduto ciò che si sa essere falso? Che cosa lo impedisce? Le regole del gioco linguistico evidentemente, poiché in caso contrario, se credessi vero ciò che so essere falso allora non potrei affermare nulla, non potrei più utilizzare il significante "sapere", che è utilizzabile unicamente se ci si attiene alle regole del gioco linguistico in cui e per cui esiste. Intendiamo dire che per potere affermare che "so" qualche cosa, occorre che il significante "sapere" sia inserito in un gioco linguistico che ne preveda l’utilizzo, qualunque esso sia, e lo stesso per il significante "credere". In questo senso può risultare arduo credere una qualunque affermazione, crederla necessariamente vera se posso provarla falsa e vera semplicemente inserendola in giochi linguistici differenti, e sapendo d’altra parte che non c’è uscita dai giochi linguistici. In tal senso dire che "so" che ciascuna affermazione è vera o falsa a seconda delle regole del gioco in cui è inserita, indica che prendo atto delle regole del gioco linguistico in atto in ciò che dico, dove "sapere" in questo caso è una regola del gioco tale per cui ciò che "so" è esattamente ciò che accolgo nel gioco linguistico.

Infatti, se un gioco linguistico non prevede l’uso di un certo significante, allora quel significante non avrà alcun senso, cioè non sarà utilizzabile dal discorso, e dovrà attendere ulteriori informazioni (cioè acquisire delle altre regole, degli altri tópoï) per potere utilizzare quel significante. Riprendiamo l’esempio fatto in precedenza: se affermassi di soffrire senza che l’interlocutore abbia nessun’altra informazione, l’interlocutore sarà costretto a chiedermi altre informazioni per potere utilizzare l’informazione che gli ho fornita, per sapere cioè che cosa intendo dire. Ciò che mi chiede è esattamente di sapere quali siano le regole del gioco che io sto giocando e che lui ignora, e che gli permetteranno di sapere che cosa voglio dire dicendo che soffro. Nell’ipotesi che io non gli fornisca tali ulteriori informazioni, l’interlocutore non saprà come utilizzare ciò che gli ho detto.

Generalmente si immagina che chi dica di soffrire, o di gioire, sappia quale gioco stia giocando, ma potrebbe non essere esattamente così. Supponiamo infatti che dica di gioire per qualche cosa, questa gioia di cui dice si produce allora per qualcosa, ma questo qualche cosa non produce la gioia di per sé, la produce in quanto connesso con altri elementi (intendiamo con gioia unicamente l’affermare di provarla), senza i quali non si darebbero quelle condizioni per cui può affermare la gioia (qualunque sia il modo in cui l’affermi). Questi elementi senza i quali non potrebbe provare la gioia, sono le condizioni per potere provare la gioia. Le condizioni, o tópoï, sono esattamente ciò che consente di passare da un certo antecedente al conseguente che è la gioia. Ma sono note queste condizioni? Oppure si attribuisce al "qualche cosa" la prerogativa di provocare la gioia, per cui non sarebbero più gli elementi di connessione (i tópoï) a produrla ma la cosa in sé, avulsa da qualunque connessione? Nel primo caso è possibile accogliere le regole (i tópoï) che consentono di affermare la gioia, nel secondo no. In questo secondo caso la gioia è posta come indipendente dal discorso che la produce, e cioè come un elemento extralinguistico.

La questione merita di essere considerata attentamente, poiché si tratta di potere cogliere le regole del gioco che si va facendo oppure no, e cioè subire un evento (qualunque esso sia), oppure intendere a quali condizioni l’evento che si è prodotto è quello che è, e cioè così come è per chi lo sta considerando. Riconsideriamo delle affermazioni poste più sopra:

"Dire che un elemento significa qualcosa è attribuire a questo elemento un senso. Non è possibile dire che cosa un elemento significhi senza che si dia già un significato di quell’elemento, poiché quell’elemento è già nella combinatoria linguistica, e quindi è un elemento linguistico, e quindi in quanto tale già significato. Una procedura linguistica dice che un elemento, qualunque elemento, è un significato, cioè è un elemento linguistico. Ciascun elemento è necessariamente un elemento linguistico o è nulla. Come qualunque cosa. Un significato è ciò per cui ciascun elemento è quello che è. Dire "è quello che è" afferma una procedura linguistica che afferma che ciò che è non può non essere, perché se non lo fosse, l’affermare che qualcosa è, non potrebbe farsi.".

In prima istanza, che "qualcosa accada" è una procedura linguistica, provvista di senso. Questo senso che si produce, questa direzione che prende il discorso, procedendo da tópoï retorici mostra che cosa il discorso stia producendo in atto, e cioè a quali condizioni possa prodursi la gioia in quanto conseguente di un antecedente. In questo caso l’antecedente è la regola del gioco che consente di potere provare la gioia.

Un procedimento eristico considera un discorso come un gioco, come un qualunque gioco del quale occorra conoscere le regole per poterlo giocare.

Intendiamo dire con questo che se un discorso si pone in quanto gioco linguistico, allora domandarsi se è vero oppure no non ha alcun senso, se non all’interno delle sue regole. Di un gioco è possibile soltanto dire se si applicano correttamente le regole di cui è fatto, e non se tali regole sono vere o sono false, questa domanda non ha nessun senso, cioè non è utilizzabile in nessun modo. Che si tratti di un’opinione, di una affermazione scientifica o di una fede, la questione è la stessa: sono giochi linguistici, e ciascuno di questi giochi si atterrà necessariamente alle regole di cui è fatto. Non si dà un gioco che sia più vero di altri, ma ciascuno è vero per le regole di cui è fatto. Rispetto alle regole d un gioco fideistico, è vero che dio esiste; rispetto alle regole del gioco scientifico, è vero che un grave lasciato libero tenderà verso il centro della terra, eccetera. Ciascuna di queste affermazioni è vera in quanto soddisfa le regole del gioco in cui è inserita, esattamente così come è vero che nel gioco del poker tre assi e due re vincono su tre fanti e due nove: è la regola del gioco, e se si vuole giocare quel gioco occorre attenersi a quella regola.

Ciascuna affermazione che si ponga in un qualunque discorso è "vera" in quanto è una regola del gioco che è in atto in quel discorso. Dire allora che una affermazione è vera, indica soltanto che quella affermazione soddisfa le regole del gioco in cui è inserita, senza potere appellarsi ad alcuna altra verità che sia fuori dalla regole di quel gioco, in quanto per potere stabilire la verità di un enunciato (qualsiasi cosa si voglia intendere qui con "verità") questa necessiterà di un criterio, ma qualunque altro criterio di verità comporterà regole differenti, sarà cioè un gioco differente.

Che cosa comporta dire che ciascuna cosa che si affermi nel discorso, questa sia una regola del gioco? Intanto che ciò che si afferma, qualunque cosa sia, non potrà essere creduta essere vera al di fuori del gioco in cui è inserita, come a dire che sarà "vera" se e soltanto se esiste una regola del gioco che stabilisce che tale elemento, inserito in una tale combinatoria sia vero, cioè che debba necessariamente essere accolto per potere giocare quel gioco. Se in un qualunque discorso che si va facendo si afferma p, allora p sarà necessariamente una regola di quel discorso, cioè del gioco che si sta facendo. Allo stesso modo, l’affermazione "se si afferma p, allora p è una regola del gioco", è una regola del gioco che si sta facendo nell’illustrare il gioco precedente.