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7. ANTANACLASI  

                                                              

7.1 L’antanàclasi è una figura retorica definita da Lausberg come: "... la realizzazione dialogica della distinctio, e consiste nel fatto che ognuna delle due parti in dialogo dà allo stesso corpo della parola un significato diverso, determinato dall’interesse della propria parte. Il secondo partecipante al dialogo "rivolta" la parola del primo, cioè usa una parola del primo partecipante al dialogo in un senso che questo non ha voluto intendere". Quintiliano, per mostrare la struttura dell’antanàclasi, riporta questo aneddoto: un giorno Proculeio, ammalato, si lamentò che il figlio aspettava con ansia la sua morte, al che il figlio rispose che non l’aspettava di certo, e allora il padre gli disse: ti prego almeno di aspettarla (cioè di non uccidermi prima). Accade che un significante possa mostrarsi in modi differenti, dicendo qualcosa posso fare moltissime cose, dicendo di non aspettare per esempio posso dire sia che desidero che accada ciò che mi attendo, sia il contrario. Il linguaggio mi consente di fare queste operazioni e anche altre. Dunque il significante "aspetto" ha un significato? Se ci atteniamo alla nozione di significato esposta nella proposizione 6.15, allora dobbiamo dire che necessariamente ha un significato, perché in caso contrario il significante "aspetto" non potrebbe essere usato dal e nel linguaggio, non potendo utilizzarsi sarebbe nulla. Se ha un significato è un segno, cioè è un rinvio, l’elemento a cui un significante rinvia è il suo significato, in quanto l’elemento a cui rinvia è l’elemento che produce dicendosi, né potrebbe essere altrimenti. Ma allora un significante per potere essere utilizzato deve avere necessariamente un rinvio. Ma quale? Posso dire che so che cosa significa "aspetto" senza saperlo, ma semplicemente che questo significante "aspetto" ha un uso che è appropriato alle proposizioni in cui è inserito? Lo uso dunque soltanto perché so che lo si utilizza in certe circostanze?

7.2 Che cosa intendo dire dicendo che so che cosa significa il significante "aspetto". So che lo uso, so grosso modo in quali proposizioni tale uso non è consentito e in quali altre è consentito, ma so che cosa significa? Che cosa mi sto chiedendo chiedendomi questo? Se posso sapere qualcosa? Fuori dall’uso che ne faccio non posso sapere nulla, poiché non posso dire di sapere che cos’è il sapere, per definire il sapere devo darlo già per acquisito perché lo utilizzo per definirlo un sapere, e cioè ciò stesso che devo definire. Sapere l’uso che ne faccio mi richiede di sapere che cos’è il sapere? Non necessariamente, se intendo con "sapere" soltanto una procedura linguistica che dice che ciò che sto dicendo non posso non dirlo, ma questo come lo so? Lo so soltanto perché non posso non dirlo, perché se non lo dicessi non mi atterrei alle procedure linguistiche, se non mi ci attenessi non potrei parlare, ma siccome sto parlando, allora evidentemente le procedure di cui sto parlando si danno in ciò che dico, costruiscono ciò che dico. Dire che so, allora non è altro che accogliere che sto parlando, e dire di sapere è dire che ciò che si sta dicendo si sta dicendo, niente più di questo. Ma anche niente di meno, e cioè che è con questo che devo confrontarmi, e soltanto con questo.

7.3 Detto questo dobbiamo compiere un passo ulteriore. Ciò che ci siamo chiesti nella proposizione precedente è in effetti qual è il significato del significato, ma che cosa ci stiamo chiedendo con questo? Ci troviamo di fronte a questo problema: se affermo l’esistenza del significato allora devo anche affermare che cosa sia, cioè appunto quale sia il suo significato, e sarò preso in una regressio ad infinitum, se invece non ammetto che possa darsi un significato allora non posso parlare, perché per potere fare queste considerazioni ho già dato per implicita l’esistenza del significato, perché ho pure inteso dire qualcosa dicendo ciò che ho detto. In altri termini, non possiamo né affermare che ci sia il significato né affermare che non ci sia. Non possiamo dire che cosa il significato sia né se ci sia. Questo è un problema non indifferente, poiché tutto il sistema su cui si regge il discorso, quello scientifico e quello religioso (ammesso che possa stabilirsi una differenza), dà per acquisita l’esistenza del significato come ciò che consente il riferimento alla cosa, alla verità e quindi alla realtà. Senza tale riferimento la "realtà" non sarebbe assolutamente nulla né potrebbe stabilirsi la possibilità di dire come stanno le cose o compiere qualunque operazione volta in questo senso.

7.4 Ciò che abbiamo detto si attiene soltanto alle procedure linguistiche, e queste ci hanno consentito di affermare quanto siamo andati affermando, senza aggiungere nulla che non fosse necessario affermare, e a questo punto si affaccia una questione di notevole interesse, vale a dire l’eventualità che ciò che stiamo chiamando "significato" sia una procedura linguistica e nulla più di questo. Che cosa stiamo dicendo con questo? Dopo avere considerato che del significato non possiamo dire nulla che possa stabilirlo né dire nulla che possa non stabilirlo, ci siamo trovati di fronte a una domanda importante, e cioè che cosa diciamo quando parliamo o accogliamo un significato, qualunque esso sia.

7.5 Non accogliamo dunque in questa ricerca nulla che non sia necessario accogliere, e pertanto diciamo soltanto ciò che non possiamo non dire, e che cosa non possiamo non dire del significato? Che ne stiamo parlando, in prima istanza, e che pertanto qualunque sia l’accezione che intendiamo o non intendiamo accogliere con "significato" stiamo già utilizzando il qualcosa di cui stiamo parlando, necessariamente, perché se ne parliamo allora le cose che stiamo dicendo stanno già rinviando a ciò che sta seguendo, e pertanto stiamo parlando di qualcosa che ci sta consentendo di parlarne. Se qualunque cosa io possa dire del significato questa sta già operando in ciò che sto dicendo, allora qualunque cosa ne dica questa sarà sempre necessariamente arbitraria, in quanto non potrò definirla poiché non posso accogliere una petizione di principio per definire qualcosa, perché allora, a pari titolo potrei dire qualunque cosa, e sarebbe lo stesso. Allora cercare il significato del significato non ha nessun senso, le procedure del linguaggio attraverso cui compio questa operazione mi vietano di farlo, nel senso che mi rinviano sempre al punto di partenza, e cioè alla stessa domanda da cui sono partito. Ma dicendo che questa operazione non ha nessun senso che cosa diciamo? Forse soltanto che non ci porta da nessuna parte se non al punto da cui siamo partiti? O dobbiamo dire che il significato è una convenzione? E il significato di convenzione qual è? Perché se parliamo di convenzione, o di qualunque altra cosa, allora diamo già per acquisita la nozione di significato, e siamo daccapo. E se il significato fosse soltanto una procedura linguistica? Allora dovremmo porre la domanda circa il significato di "procedura"?

7.6 Ma se con "procedura" intendiamo soltanto ciò che ci consente di fare queste riflessioni la domanda non ha più alcuna portata, non ci dice nulla, perché non possiamo non ammettere che se facciamo queste considerazioni allora le stiamo facendo, e quindi è già in atto ciò che abbiamo inteso chiamare procedura. Ma allora le cose, le parole, non significano nulla? Stando a quanto abbiamo detto questa domanda non possiamo porla, non dice nulla perché non possiamo uscire dalla parola, cioè dalle procedure di cui è fatta. E se dicessimo che il significato è una procedura linguistica e che pertanto non possiamo chiederci qual è il suo significato? Allora diremmo qualcosa che non possiamo non dire, che non possiamo non accogliere. Più propriamente, il significato di x è l’uso che ne fa la proposizione in cui questa x è inserita, e l’uso che ne fa la proposizione è esattamente ciò che intendiamo con "procedura".

7.7 Qualunque vocabolario definisce il significato di un elemento linguistico, ma definendolo non fornisce nessun referente, abbiamo visto che non può fare una cosa del genere, e allora indica una procedura per l’articolazione del linguaggio, per la sua esecuzione, ma per potere avvalermi di un vocabolario devo già conoscere le procedure del linguaggio. Indubbiamente, e questo mi induce a riflettere su questo, che per potere riflettere sul linguaggio, sul significato o su qualunque altra cosa devo già potere usare le procedure e quindi il linguaggio e il significato. E da questo non c’è uscita, nel senso che qualunque altra posizione non è, in alcun modo, sostenibile. Posso chiedermi se posso apprendere il linguaggio? Posso, perché me lo sto domandando, ma che cosa faccio facendo questo se non domandarmi se esista qualcosa fuori dalla parola e dare per acquisita la possibilità di trovarsi fuori dalla parola? Ma posso pensare il "fuori dalla parola" soltanto nella parola, e quindi questa operazione non mi conduce da nessuna parte, se non eventualmente al discorso religioso, qualunque esso sia, che vorrebbe obbligare a pensare che esista un "fuori dalla parola", e non ci interessano qui i motivi di una tale operazione, ciascuno può pensare a ciò che ritiene più opportuno.

7.8 Con questo stiamo dicendo che "parlare" è porre in atto il gioco linguistico, e che chiedersi che cosa significhi è ancora porre in atto il gioco linguistico, e che fuori da questo qualunque altra cosa è altrettanto sostenibile, confutabile, credibile o giustificabile, come si preferisce. Che cos’è infatti il domandarsi se esiste altro fuori da questo se non, di nuovo, porre in atto il gioco linguistico. Dunque non c’è altro?

7.9 La questione è che chiedendomelo non faccio null’altro che porre in atto ciò stesso che mi consente di pormi questa domanda, o che altro? E a quali condizioni potrei pensare ad altro? Se immagino che le cose, le parole debbano avere un significato, che cosa sto facendo con questo se non costruire una religione, e cioè una teoria del significato che ne preveda l’esistenza fuori dalla parola, e che da questo luogo garantisca che ciò che dico è adeguato a ciò che voglio o devo dire, in definitiva a ciò che esiste? Allora possiamo indicare con "religione" una teoria del significato tale per cui ciascun elemento linguistico sia pensato corrispondente a qualcosa che sia situato fuori dalla parola, per cui parlando ciò che si dice possa avere un significato che non sia soltanto quello che le procedure linguistiche impongono, ma un significato che le trascenda e che garantisca che ciascuno non sia responsabile del discorso in cui si trova, ma soltanto dell’adeguamento di tale discorso a quello che occorre che sia. Perché se consideriamo l’eventualità che ciascuno sia responsabile del proprio discorso, allora in questo caso dovrà rendere conto a sé di ciò che sta dicendo, cioè dovrà necessariamente porsi di fronte alle sue affermazioni, che pertanto lo costringeranno a verificarne la possibilità, la verità o qualunque altra cosa. A questo punto, non sorretto da nulla se non da ciò che sta dicendo e dalle sue procedure, potrà sapere esattamente che cosa sta facendo dicendo ciò che sta dicendo, necessariamente perché non avrà null’altro a cui fare riferimento.

7.10 E se la libertà fosse questo? Questione che merita di essere presa in considerazione. Se così fosse allora la libertà sarebbe inevitabilmente l’assenza di discorso religioso o, più propriamente, la sua impossibilità. In altri termini ancora, l’impossibilità di pensare a ciò che si sta dicendo se non nei termini dell’attuazione di procedure linguistiche, e quindi di una produzione retorica, nell’accezione indicata più sopra.

7.11 Con questo siamo giunti a considerare l’itinerario intellettuale, cioè la messa in atto di tutto ciò che siamo andati dicendo in questa ricerca. Ma rimane da compiere una ricerca intorno al discorso religioso, dove non si intende evidentemente discutere di questa o di quella religione, questo non ci interessa, ma della struttura del pensare religioso, cioè del pensare che ritiene se stesso fuori dalle procedure che lo fanno esistere, che si pensa effetto di altro fuori da sé. È in questo che la religione, la magia e il discorso scientifico hanno la stessa struttura, muovono dalla stessa considerazione, quella cioè che suppone di potere pensare e dire qualunque cosa senza tenere conto che la sta producendo parlandone, la sta producendo in quanto non può, fuori dalla parola, né provare né garantire né stabilire nulla, e che non può, allo stesso modo e per lo stesso motivo, giustificare se stesso né tutto ciò che afferma muovendo da questo.