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LA POLITICA DELLA PSICANALISI

 

30 aprile 1993

 

Freud inizia il suo saggio “Il disagio della civiltà” aprendo a una questione che è essenziale rispetto a ciò che stiamo dicendo.

Inizia, come sapete, con una conversazione con qualcuno che parlava della religione come di una sorta di sentimento oceanico, cioè il trovarsi presi in un tutto, un tutto che è onnicomprensivo, che tutto racchiude, che tutto comprende. Freud pone subito una questione rispetto a ciò, rispetto a questa nozione di globalità, di tutto. Indicando come questa idea proceda da una sorta di non ammissione, la non ammissione della differenza: la differenza che, dice, si instaura tra l’io e ciò che lo circonda, la differenza che riguarda l’io stesso, la differenza da sé. Invece, questo sentimento oceanico toglie ogni differenza a vantaggio della totalità.

La volta scorsa dicevamo qualcosa intorno a ciò che ciascuno incontra come differenza. Potremo dire che la politica che incontra la psicanalisi è la politica della differenza o, detto altrimenti, politica del tempo

Il tempo: potremmo anche avvalerci dell’etimo, temno, taglio. Il tempo procede dalla differenza, propriamente da ciò che di irriducibile si staglia dalla divisione.

Il sentimento oceanico, o il sentimento religioso o il discorso religioso è il discorso che toglie la differenza. Instaura la cancellazione della differenza a vantaggio della diversità.

Il termine differenza, qui, ha una connotazione particolare perché distinguo tra differenza e diversità. La differenza è un elemento strutturale della parola, è la differenza da sé del significante, la differenza da sé di ciascuna cosa, di ciascuna parola che in nessun modo riesce a stabilirsi come identica.

Un itinerario analitico incontra questo in ciascun istante, come ciascuna volta ciascun elemento intervenga preso nella differenza e, quindi, impossibile a stabilirsi, a porsi come fondamento, come garante o come riferimento. Se ciascun elemento differisce da sé è chiaro che non c’è riferimento, né punto di vista, né qualcosa cui appoggiarsi in modo stabile, sicuro.

La diversità, invece, è il modo di immaginare che la differenza si possa localizzare in un punto, quindi toglierla dalla parola, toglierla dall’atto e situarla da qualche parte, in modo che l’atto, la parola, la parola come atto, sia esente da rimozione. L’atto è identico a sé se è esente da rimozione.

È con la rimozione che Freud avvia questa elaborazione che dice che è impossibile stabilire che qualcosa è identico a sé. Perché nella rimozione qualcosa cade e ciò che ne è di questo elemento è che non è tutto perché c’è una caduta. Qualcosa non si comprende, qualcosa sfugge.

La parola come non tutto. Non tutto che ciascuna volta si struttura come particolare per ciascuno.

Potremo indicare il politico, non l’homo politicus, ma il politico come non tutto.

Il politico è il non tutto, è il particolare, ciò che procede dalla differenza. La divisione, dicevamo la volta scorsa, relativamente alla politica, come l’innumero.

Tutto ciò è lontano dal discorso religioso che immagina, invece, il tutto. Questo sentimento oceanico è molto seguito, molto diffuso, anche se non esattamente con questa dicitura. Ciascuna dottrina della salvezza muove da questo, cioè da un tutto da cui si è partiti e a cui si ritorna, un tutto che tutto ingloba. Inglobato il tutto si toglie la differenza.

Differenza che già Freud indicava come sessuale, da sac, taglio, sezione.

Per intendere la questione politica, così come viene posta da Aristotele,
- potremo dire la politica del quotidiano - occorre riflettere sulla questione religiosa che ciascuna volta è mossa da un’idea di salvezza, l’idea che operando in un certo modo sia possibile ricollegarsi con un bene, con un tutto. Ontologicamente, con l’essere.

Le dottrine che più si sono occupate di questo sono le dottrine gnostiche. Sono appunto le dottrine della salvezza. La mitologia è sempre la stessa: c’è un tutto da cui qualcosa si è staccato e a cui deve tornare. Una mitologia molto diffusa, non soltanto nei miti gnostici dove è espressa in modo più esplicito, ma espressa nel discorso scientifico che immagina di essere il discorso più lontano dalle mitologie, dalle credenze, dalle superstizioni. Il discorso scientifico ha lo stesso impianto di quello religioso, vale a dire che muove dalla stessa posizione, cioè che esista un tutto. Questo tutto può essere la verità, l’ultima legge della fisica, il metodo definitivo, può essere qualunque cosa. In quasi tutte le dottrine scientifiche trovate questo aspetto: è un aspetto religioso, cioè un modo di pensare che si avvale di una struttura che è quella religiosa.

L’elaborazione che si trova a compiere un itinerario analitico verte, in prima istanza, intorno a questo, come primo avvio: l’analisi del discorso religioso. Il discorso religioso è quello che chiude la questione, che dà la risposta, che immagina che ci sia la risposta, che suppone che la risposta sia possibile, che sia raggiungibile da qualche parte attraverso un percorso particolare.

La psicoterapia, come ideologia, è il discorso religioso, che immagina nella salute mentale o fisica il tutto, il punto di arrivo. Ideologia, dicevo, che riguarda direttamente anche la medicina.

Comunque, il discorso scientifico, il discorso religioso, il discorso medico - non la medicina come pratica o come ricerca ma l’ideologia medica - danno come acquisito un modello, un obiettivo, qualcosa che immaginano come un risultato finale. Risultato finale che è l’ultima parola che può dirsi intorno a qualcosa: l’obiettivo ultimo. Ciascuna dottrina, sia religiosa sia scientifica che escatologica, a modo suo, è una dottrina della fine delle cose. È un modo di pensare molto diffuso, difficilmente trovate persone che pensano altrimenti.

L’itinerario analitico, come dicevo prima, è un itinerario che incomincia a porre delle obiezioni a questo modo di pensare. Pone delle obiezioni dicendo che forse non è proprio così. L’idea che esista un fine, un télos ultimo delle cose, non va da sé. Ma è una struttura, una struttura che è psichica e linguistica. È chiaro che un itinerario analitico non ha come fine questo, né ha altri fini, propriamente. Non risponde al criterio di servizio, la psicanalisi non serve, nel senso che non si dispone in una logica del servizio. L’itinerario analitico è assolutamente superfluo, in un’accezione particolare, cioè non è indirizzato a un obiettivo finale, da individuare come il luogo del bene, come luogo dell’essere. Non è un caso che Freud non abbia mai dato delle indicazioni in questo senso, cioè su che cosa deve fare la psicanalisi.

La psicanalisi, in quanto itinerario intellettuale, è un percorso che ciascuno può fare, percorso dove c’è l’occasione di confrontarsi con ciò che si dice, con ciò che avviene parlando, i risvolti, le implicazioni, tutti i corollari che ciascuno può incontrare. È una chance, un’occasione. Un’occasione di poter parlare in un altro modo. In quale modo? Un modo dove la parola non venga immediatamente gestita, ricondotta a qualcos’altro. Una parola che può dirsi senza essere necessariamente censurata o integrata in una morale, in un codice; senza che ci sia necessariamente qualcuno che si premuri di spiegarmi cosa ho voluto dire. Ma, finalmente, confrontarsi con una parola che non ha limiti, che non ha origine localizzata. In questo senso la parola è anarchica, letteralmente senza origine. Ciascuna volta originaria, in ciascun istante.

L’analisi, pertanto, è la condizione per provare a dire in un altro modo, l’occasione di ascoltarsi. Non è semplicissimo ascoltarsi. Ci vuole molta audacia e, simultaneamente, molta umiltà. Audacia nell’esporsi alla parola, al dire: non sottrarsi, dunque, agli effetti della parola, ai suoi risvolti, alle sue implicazioni. Umiltà nel non ricondurre a una morale, nel non volere significare, non supporre che ci sia un codice superiore che consenta di spiegare. Non c’è nulla da spiegare. Le pieghe non si tolgono. Tentare di togliere una piega equivale a produrne mille altre.

Per questo dicevamo che la psicanalisi non ha mai giovato a nessun regime, a nessuna ideologia. Non è stato mai possibile asservirla a nessuna dottrina della salvezza. Salvo farne altro. È avvenuto. Come sapete, con la morte di Freud - ma già prima che morisse - varie persone si diedero da fare per spiegare Freud. Mi riferisco a Otto Fenichel e, in particolare, a Jones. Si sono dati da fare a spiegare Freud, cioè a togliere ciò che di aperto e di interessante c’è nel testo di Freud per ridurlo a un codice interpretativo. Non so come l’abbiano potuto fare, però, di fatto, così è avvenuto. Non c’è traccia in Freud di una spiegazione di comportamenti. Freud si è trovato, certamente, a accostare una questione a qualcosa che incontra, ma non ha mai detto che questa sia la spiegazione, cioè, la traduzione. Non si è mai trattato di traduzione. Mentre, altrove, questa operazione è stata compiuta. Ecco, allora la psicanalisi diventa un codice interpretativo, tant’è che ci sono stati poi vari studi intorno alla psicanalisi come ermeneutica. Dico ermeneutica nel migliore dei casi, perché molte volte non era neppure quello ma, semplicemente, un’altra religione con le stesse caratteristiche e le stesse prerogative. Produrre, cioè, significato.

La religione è la più grande macchina per produrre significato, in quanto spiega tutto, fin dalle origini. Non c’è cosa che non abbia una sua giustificazione.

Queste operazioni hanno avuto successo soprattutto negli Stati Uniti e nei vari paesi anglosassoni. Ottenendo di ridurre il testo di Freud e, in definitiva, la psicanalisi a un modello di traduzione. Non ci voleva certo la psicanalisi per fare questo. Già Teopompo e Teofrasto facevano queste operazioni, tra l’altro molto raffinate e molto articolate. Il libro sui sogni di Artemidoro è sicuramente molto più interessante e anche molto più divertente di moltissimi manuali intorno ai sogni. Ecco, allora, che il messaggio di Freud, il percorso analitico, a un certo punto, sono diventati uno strumento di salvezza, anche molto arrogante in molti casi. Come lo sono tutti coloro che suppongono di conoscere la via della salvezza: sono sempre molto arroganti. Perché loro conoscono la verità e, allora, devono convincere il prossimo che sbaglia, che è sulla cattiva strada, che quindi occorre che si ravveda, che segua la via giusta. Se non la vede, o non ha fede, oppure è deviato da altre cose, oppure, molto più semplicemente e in modo più spiccio, è perché ha dei problemi.

Ma di religioni ce ne sono già moltissime, molto elaborate, articolate, sofisticate. Perché aggiungerne un’altra così rozza e così rudimentale? Pensate al cristianesimo, al suo apparato. Non si può certo competere con questo.

Eppure, le dottrine della salvezza hanno successo, sempre, grandissimo. Cioè, ogni volta la supposizione è che finalmente qualcosa ci sia a indicare qual è la via giusta. Gli umani inseguono questa fantasia da sempre. Ogni tanto c’è qualcuno che dice magari non è così, può essere che non ci sia nessuna salvezza, non perché siamo condannati, ma perché non ci sono il bene e il male, perché questi sono concetti che possono essere messi in discussione. Almeno quello. Invece no, ogni volta c’è la salvezza. Chi immagina di conoscere la via di salvezza è sempre intransigente, intollerante, oltre che arrogante.

La via di salvezza è anche quella che indicava Hitler nel Mein Kampf, perché no? Salvezza dal male e dall’ebreo errante, sempre foriero di sventure. C’è sempre qualcuno che è foriero di sventura, che indica la via della perdizione. Quindi, la via di salvezza sta dall’altra parte.

È questo, certamente, un discorso molto semplice ma, e questo non è più così semplice, si tratta di intendere come le fantasie di salvezza operino nel proprio discorso. Operino nel proprio discorso in modo tale che può supporsi di sapere, di conoscere qual è il bene. E di sapere indirizzare, eventualmente, anche il prossimo. W. Reich immaginava questa energia, energia universale che tutto ingloba e tutto muove.

Insiste spesso quest’idea di una sorta di energia, di un agglomerato di cose, di un insieme di elementi confusi tra loro in cui ogni cosa deve rientrare. È un’idea che, se viene considerata nei suoi aspetti più dettagliati, è abbastanza ingenua nella misura in cui non tiene conto che tutto ciò che va elaborando lo dice e, quindi, è preso in una struttura che è linguistica, una struttura che impone una certa direzione.

Tutto sommato Lacan non aveva torto a avvertire che Freud si è occupato di parole, di come ciascuno le incontra, le elabora, le piega, le svolge. Quali sono gli effetti di queste parole nel discorso?

L’itinerario analitico non si preoccupa minimamente di avanzare dispute teologiche. Se qualcuno crede in qualche cosa, va benissimo. Ciascuna credenza, ciascuna idea può dirsi, elaborarsi, può confrontarsi, dunque, con il discorso. Certamente, non serve il dissuadere o il persuadere qualcuno del contrario.

Freud si occupa di dettagli. Ciascuna volta. Si occupa di ciò che interviene in ciascun caso, del particolare, della sfumatura. Dei grandi sistemi universali, cosmici, metafisici, non se ne occupa. Come a dire che si occupa di religione nella misura in cui qualcuno ne parla, nella misura in cui questo partecipa di un discorso.

Il successo delle dottrine della salvezza procede da un’idea tanto antica quanto bizzarra: che tutto debba avere un senso, un significato. Non è possibile che stiamo qui, su questo pianeta, senza uno scopo. Ecco, allora, si può sempre trovare chi ce lo dice: siamo qui per questo, quindi, occorre che tutti lavorino in questa direzione. Che è poi il messaggio della politica.

La politica, come è strutturata oggi, si pone come discorso gnostico, non cattolico ma gnostico. Cioè, invita ciascuno a lavorare per un bene, per un fine che è comune e che corrisponde al fine ultimo, a un bene ultimo e partecipato. Il cattolicesimo, per esempio, non invita a fare questo.

Se il paradiso è qui e adesso, questo può essere interessante ma può anche avere un risvolto curioso. Perché se è possibile, se c’è la possibilità, allora è anche possibile, operando in un certo modo, avere il paradiso qui e adesso. Questo muove dalla dottrina della salvezza.

Ecco, dicevo, ogni cosa deve avere uno scopo, un suo motivo. Perché mai? Domanda legittima. Qualcuno, intanto, lo deve chiedere. E ci sono delle risposte. Perché mai, dunque? Perché questo rassicura, toglie un’inquietudine, toglie un disagio. Quello stesso disagio della civiltà di cui Freud ravvisa un rimedio nel sentimento oceanico, dicendo che sì, ciascuno trova dei motivi per fare, per dire, ma li incontra facendo. È in ciò che fa, in ciò che dice, che pensa, che trova dei motivi, non altrove.

Le cose che sto dicendo sono antiche di alcune migliaia di anni. Già i sofisti si chiedevano come fosse possibile che qualcuno credesse ancora a queste bizzarrie, che esista un dio da qualche parte. Si chiedevano da dove si potesse prendere un’idea così balzana, l’idea che ci fosse una salvezza finale, o l’eterno ritorno. Ciò non ha impedito, certamente, che questo pensiero potesse proseguire.

Freud ha fornito un contributo per potere confrontarsi con questo pensiero. Non c’è da combattere, nulla è da eliminare, nulla che sia il segno del male. Ciascuna cosa è da ascoltare, da interrogare, è degna di essere interrogata. Questo mostra degli aspetti che sono straordinari.

Ciascun elemento, se interrogato, cessa di essere immobile, di essere morto, di essere mortificato. E comincia a muoversi, comincia a cambiare, a mostrare vari aspetti, aspetti magari inattesi, sconosciuti, imprevisti. Ciascuna cosa, anche quella apparentemente più banale, la più stupida. In effetti, un analisi si occupa proprio di questo, delle cose futili, apparentemente banali e di poco conto. Si occupa della differenza, di ciò che ciascuno incontra come differenza.

Allora, avviare un’elaborazione del discorso religioso in un’analisi - senza che questo ne costituisca il fine perché l’analisi, in realtà, non ha nessun fine - è l’avvio di un itinerario. Si mettono in gioco delle superstizioni, delle credenze, ciò che è ritenuto immobile, identico a sé, mortificato, quindi, banale, inutile. Cos’è che si suppone banale, di nessun conto?

Ciò che si immagina non questionare, non interrogare, non sollevare curiosità. Invece, se interrogato, diventa tutt’altro.

La politica della differenza, dunque, come la divisione: le cose dicendosi si dividono e in questa divisione si staglia una differenza per cui le cose non sono più identiche a sé, non sono più utilizzabili. Le cose non sono utilizzabili ma si dicono.

Il discorso religioso non è la teologia. La teologia è un tentativo straordinario, immenso, colossale, elaboratissimo per potere isolare l’oggetto, l’oggetto che si sottrae continuamente e che è pensato come assoluto. È interessante la lettura dei testi di teologia per avvertire il modo in cui, ciascuna volta, questo oggetto si sottrae, resta inafferrabile, non localizzabile. Dicevamo qualche tempo fa di Nicolò da Cusa che, forse, rappresenta il tentativo più esplicito di afferrare questo oggetto riscontrandolo come irrelato, inafferrabile, ingestibile: l’oggetto come sembiante, come punto vuoto.

Allora, il discorso religioso è il discorso della salvezza, il discorso del bene. Il discorso che dice ciò che bisogna fare per salvarsi o per raggiungere la salute mentale o fisica.

È un’ideologia, quella su cui si impianta tutto il discorso occidentale. Un’illusione, certamente, ma un’illusione che è economizzata. Perché c’è un’illusione che è strutturale, l’illusione per cui ciascuno si trova, ciascuna volta, preso in un gioco, in un gioco linguistico. La supposizione, invece, di controllare il gioco, di poter padroneggiare il gioco, comporta la delusione: il gioco non può controllarsi.

 

In effetti, ciascuna dottrina della salvezza si pone come rimedio all’inquietudine. Ma c’è un’inquietudine che potremo indicare come il disagio, disagio che è strutturale, che non può togliersi in nessun modo. Un disagio che non è il malessere, non è lo stare male. Attiene al rilevare ciascuna volta che ciò che si dice è altro da ciò che si pensa, che non si riesce a comprendere, non si riesce a indirizzare, a dare un senso ultimo alle cose. Quando si instaura la supposizione che qualche cosa possa rispondere a questa domanda, o che debba rispondere, a questo punto c’è il confronto inevitabile con il fallimento. Allora, ecco, le crisi esistenziali: credevo in queste cose e ora non reggono più. Ciò può produrre una ribellione violentissima, come spesso accade, per cui bisogna abbattere tutto ciò che rappresenta l’inganno degli adulti, per esempio. Allora, ecco la delusione, cui segue la depressione, la malinconia. La malinconia immagina che l’oggetto sia un qualche cosa che dia il benessere. Questo qualcosa lo immagina perduto e allora, come ultima ratio per poterlo gestire, afferrare, diventa questo oggetto. Diventa l’oggetto in perdita, vale a dire qualcosa che è un rifiuto. Ecco la malinconia, allora, a rappresentare la perdita, il disfacimento.

 

Perché ci sia una base teorica occorre che ci sia un’elaborazione teorica. Il più delle volte è una supposizione, un’idea. Un’idea che molte volte resta vaga, se qualcuno comincia a chiedere in modo più preciso intorno a questa base, a un certo punto può trovarsi nella condizione di non sapere più esattamente cosa rispondere. Perché non ci ha mai pensato. Ciò che ritiene essenziale può rivelarsi qualcosa a cui non ha mai pensato.

 

Spesso si sono già date giustificazioni, spiegazioni, anche molto articolate, ma si continua a stare malissimo. C’è qualcosa intorno a cui è come se girasse a vuoto. Continua a darsi giustificazioni senza accorgersi di ciò che sta dicendo nel dare giustificazioni. Le cose possono considerarsi altrimenti.

Il disagio, non il malessere, è strutturale. Il disagio procede dalla differenza. C’è qualcosa che interviene sempre in modo differente e, quindi, non può chiudersi. Ma do qui un’accezione del disagio assolutamente “positiva”. Dico disagio perché Freud usava questo termine insieme con altri: disagio per cui qualcosa continua a interrogare.

Quando Freud diceva che ciascuna seduta analitica occorre che termini mantenendo il disagio, indicava che occorre che ciascuna seduta termini rilanciando la questione esponendola ai suoi effetti. Perché c’è già la persona che si preoccupa di chiuderla continuamente. Quindi, occorre lasciare che qualcosa continui a interrogare.

Il disagio, dunque, come un’interrogazione che procede, un’interrogazione che non può chiudersi, arrestarsi, perché non è chiudibile da nessuna dottrina della salvezza. Ciò che Freud chiamava pulsione. Freud ha provato a rilanciare, anziché a chiudere, questa domanda. A avvertire che forse questa domanda è strutturale, che non può togliersi. Da qui la vanità e l’illusione di poter chiudere la questione attraverso una struttura religiosa, qualunque sia, o immaginare di togliere la pulsione. Non è un caso che Freud parli della pulsione come principio di costanza per cui non può togliersi in alcun modo.

Ciascuno, parlando, apre continuamente delle faglie, degli abissi a altre domande. Il malessere è il modo di pensare che il disagio sia toglibile.