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L’AVVENTURA PSICANALITICA

 

L’itinerario analitico, di cui abbiamo detto quest’anno e negli anni precedenti, è l’analisi del discorso che ciascuno va facendo. Analisi del discorso portata fino alle estreme conseguenze, e le estreme conseguenze sono quelle per cui non si dà un solo elemento che per nessun motivo non possa essere messo in gioco e quindi rilanciato e quindi interrogato ancora. L’avventura, sarebbe più proprio parlare delle avventure, cioè delle cose che vengono incontro, come diceva tempo fa Mathieu, e in questo caso delle cose che vengono incontro parlando, pensando, immaginando, tutto ciò che in definitiva accade ciascuna volta in cui ciascuno parla. C’è però un aspetto che volevo considerare in modo particolare, l’aspetto dell’avventura psicanalitica e cioè la traversata del senso di colpa. La nozione di senso di colpa, come sapete, è fondamentale, già Freud si rese conto che se non ci fosse il senso di colpa difficilmente gli umani sarebbero governabili. Il senso di colpa è importantissimo, fa fare delle cose sorprendenti, il senso di colpa è un aspetto di ciò che ho indicato più volte come discorso religioso, com’è noto ciascuna religione si fonda sul senso di colpa facendone una sorta di economia, gestendolo. Il senso di colpa, così come è comunemente inteso, è connesso per lo più con una sensazione di mancanza o di inadeguatezza, mancanza rispetto a qualcosa, rispetto a ciò che si sarebbe dovuti essere, rispetto alla legge o una norma, o qualunque altra cosa. Dunque, una mancanza. Ogni religione si impone come il rimedio a tale mancanza e in questo modo ottiene un certo successo, un successo che almeno da alcune migliaia di anni è abbastanza forte e soprattutto indiscusso, fondato come dicevo sul senso di colpa. Il senso di colpa si può produrre dal nulla, ci sono degli artifici retorici che consentono di fare questa operazione, ma soprattutto il senso di colpa mantiene ciascuno nella condizione di debito e di mancanza e quindi impone la credenza, la superstizione che qualcosa o qualcuno possa togliere tale mancanza, nel caso della religione dio o chi per lui, non ha importanza. Togliere questa mancanza è in definitiva ciò che ciascuna religione da sempre promette, come realizzazione finale, e buona parte della psicologia attuale, che molto deve allo gnosticismo, si avvale di questa superstizione, come per esempio tutte le psicologie che puntano alla realizzazione di sé. Come dire che ciascuno è mancante e deficiente, in accezione letterale del termine, e manca quindi di qualcosa, per cui deve recuperare ciò che gli manca. Ora, come sia venuta in mente una cosa del genere si può anche considerare, è un pensiero molto antico e molto efficace. La psicanalisi è una messa in gioco, se volete dirla così, del senso di colpa, un’avventura che conduce mano a mano a non avere più bisogno del senso di colpa, anche per questo è sempre stata ed è sospetta, mal vista, in quanto conduce a un punto in cui questa persona è meno facilmente gestibile perché, vi dicevo, meno forte è il senso di colpa e meno la persona è gestibile, governabile, manovrabile, più è forte il senso di colpa e più è facilmente controllabile. Mettere in gioco il senso di colpa è una delle operazioni più difficili, perché radicato in una idea molto antica che afferma che gli umani per definizione mancano di qualcosa. Su cosa si sostiene un pensiero così bizzarro? Da dove viene questa idea così balzana? Perché mai si dovrebbe pensare che gli umani manchino di qualcosa? C’è un elemento che può trarsi da alcune considerazioni anche molto antiche e che riguardano il linguaggio propriamente, e cioè l’impossibilità di potere gestire il linguaggio, potere gestire nel senso di farsene una proprietà, di padroneggiarlo. Poi, da questa considerazione, cioè che per esempio non c’è uscita dal linguaggio e che quindi ciascun elemento è preso nella parola, a questo punto è il linguaggio che conduce il gioco anziché qualcuno (come la mitologia ha sempre voluto) fino a considerare che ciascuno non è altro che ciò che dice. Taluni hanno immaginato che in questo modo il linguaggio potesse essere messo al posto di una divinità, in questo caso la religione cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Ma forse non si tratta esattamente di questo quanto piuttosto di considerare che il linguaggio è l’unica struttura che ci consente di fare queste come qualunque altra considerazione, cioè di domandarci se il linguaggio è messo al posto di dio oppure no, e di considerare quindi anche se possa darsi qualcosa che non sia linguaggio. In ogni caso è sempre il linguaggio che ci consente di fare queste operazioni. Considerazione non marginale, tutto sommato. Dunque, non si tratta tanto di rispondere a un quesito del genere, cioè se il linguaggio viene messo al posto di dio, che potrebbe anche porsi come un non senso, ma riflettere piuttosto sul fatto che ciascuna volta in cui accade di parlare, e cioè ininterrottamente, avviene che ciò che si dice proceda da sé e io non controllo il linguaggio, nel senso che mi trovo perlopiù a non sapere con assoluta certezza che cosa stavo per dire, che cosa il discorso che sto facendo produrrà, trovandomi di fronte continuamente al rilevamento della non padronanza su questa struttura che andiamo chiamando linguaggio. Tale non padronanza sul linguaggio può in qualche modo avere insinuato un pensiero come quello che andavamo accennando prima e cioè della mancanza, ciò che Freud ha individuato con il nome di castrazione. Ma sia come sia, ci si trova a non potere non considerare che esiste questo pensiero e cioè che gli umani sono difettosi, per definizione, e quindi necessitanti di ciò che manca loro. Ciascuna religione poi spiega cosa manca esattamente e lo propone e quindi ciascuna religione, come ciascun governo, si trova nella necessità di mantenere, di supportare e consolidare e confortare questo pensiero, se vuole continuare a esistere perché in caso contrario c’è l’eventualità, già Freud l’aveva intravista, che gli umani non siano gestibili perché non si attendono nulla e quindi non gli si può promettere nulla, non attendendosi nulla ciascuna promessa lascia il tempo che trova, qualunque essa sia, promessa dell’aldilà, di un mondo migliore, varie cose che generalmente si promettono per ottenere qualcosa in cambio. Ma, vi dicevo, degli artifici retorici attraverso i quali è possibile consolidare il senso di colpa, e allora vi faccio un esempio preso dalla cronaca più o meno quotidiana. Ciascuno di voi ha avuto notizie di un fenomeno noto come "Mani pulite" avvenuto in questi ultimi anni. Provate a riflettere su come ha funzionato, in termini retorici, non in termini politici, adesso non interessano disquisizioni politiche, ma unicamente retoriche. Dunque, ad un certo punto avviene che una popolazione, italiana in questo caso, immagina che al governo ci sia una manica di ladri, vero o falso che sia adesso non ci interessa, e quindi ritiene le persone che sono al governo non affidabili; auspica che qualche cosa, qualcuno, intervenga a porre rimedio a una situazione intollerabile. Ad un certo punto qualcuno interviene a porre rimedio, toglie di mezzo i cattivi, non ci sono più. I cattivi come è noto hanno una funzione che è fondamentale in ciascuna istituzione, la necessità del nemico è nota da sempre, perché qualunque cosa accada in patria, di fronte a un nemico comune si fa, appunto, fronte comune e cioè si rinsalda l’unità nazionale. Dunque, eliminato il nemico cosa avviene esattamente? Avviene che ciò che prima era attribuito al nemico non è più attribuibile a qualcuno di determinato e questo nemico incomincia a essere diffuso ovunque e ciascuno può incominciare a temere di essere lui il nemico o comunque essere lui in difetto. Avviene che dopo l’esecuzione del cattivo subentri una sorta di depressione e di senso di colpa, il senso di colpa è prodotto dalla considerazione, sempre presente, di avere compiuto comunque un misfatto; dopo un esecuzione capitale ciascuno, anche chi ha caldeggiato questa operazione, ha sempre una fase depressiva, dovuta al senso di colpa, senso di colpa per avere in quel caso ammazzato qualcuno. Ma ciò che importa è che questo senso si colpa fa sì che a quel punto le persone sono disposte a espiare e quindi a fare tutto ciò che si dice loro, senza fiatare. È poco probabile che ciò che è avvenuto in questi ultimi anni sia stato stabilito prima, è inverosimile, può essere che ad un certo punto la cosa sia stata utilizzata, ma in ogni caso è stato un capolavoro di retorica, ciò che ha ottenuto è l’ubbidienza totale, assoluta e volontaria, che è la cosa più importante. Il senso di colpa fa questo, cioè rende le persone docili, mansuete e pronte a eseguire volontariamente e spontaneamente e di buon grado qualunque imposizione. Per questo vi dicevo all’inizio che il senso di colpa è ciò su cui si regge tutto il sistema occidentale e non soltanto, qualunque forma di governo necessita di questo strumento potentissimo che è il senso di colpa.

L’avventura psicanalitica è anche questo: un incontro, letteralmente l’avventura con ciò che accade in assenza del senso di colpa o, potremmo dire più propriamente, una libertà dal senso di colpa. Si tratta qui a questo punto di reperirsi letteralmente in quanto produzione, una produzione del linguaggio e lo stesso senso di colpa ovviamente è considerabile come produzione del linguaggio e quindi coglibile di fatto come un atto linguistico al pari di qualunque altro e quindi al pari di qualunque altro conducibile rapidamente alla dissoluzione. Come si dissolve un elemento linguistico? Interrogandolo, cioè cogliendo ciò che lo supporta, ciò che gli consente di esistere e cioè, in definitiva, quali sono le superstizioni, le credenze su cui e da cui trae la propria forza. In definitiva, è la struttura del discorso religioso, come andiamo dicendo, senza questa struttura non è possibile il senso di colpa, non è neanche pensabile. Un’avventura che pertanto può indurre, e talvolta ha indotto, ad un certo smarrimento, l’idea che talvolta può intervenire è che, in assenza di senso di colpa e quindi di religiosità, tutto sia possibile e non ci siano più limiti né argini: se dio è morto tutto è possibile. Invece no, se dio è morto non succede assolutamente niente, nel senso che ci si incontra con questo e cioè che non tutto è possibile o, più propriamente, affermare che tutto è possibile non significa niente. Tutto è possibile, potremmo anche dirla così, ma molto poco è interessante, perché proseguendo lungo questa ricerca, che di fatto è un itinerario intellettuale, avviene un processo irreversibile. Mano a mano si riflette sulle varie cose che si incontrano e ci si accorge che interrogando ciascuna di queste cose, diciamola così, dà sempre di meno, offre sempre di meno e quindi si riduce ad essere meno importante, meno interessante di quanto si immaginava che fosse, a vantaggio di ciò che invece acquista sempre più grande portata e cioè la produzione del discorso: ciò che ciascuno produce parlando è in definitiva la sua ricchezza, la sua maggiore ricchezza. Su che cosa ciascuno può contare se non sulle sue forze, sui suoi mezzi? Generalmente, se fa affidamento su questi si trova bene, se invece fa affidamento su altro può accadere di trovarsi nella mala parata e questa forza, queste risorse, di cosa sono fatte se non dei suoi pensieri, del suo discorso? E quindi può considerarsi che più il discorso è ricco più il discorso è mobile, più ha risorse e più sarà difficile che si arresti su una qualunque cosa, una difficoltà, una superstizione o una religione, qualunque cosa. Non arrestandosi né attestandosi su nulla ciò che avviene è non soltanto una estrema mobilità ma il trovarsi nella condizione, per esempio, di non dovere difendere un ideale, un credo, né con la propria vita né soprattutto con quella altrui, come avviene generalmente, né si trova nelle condizioni di dovere aggredire per esempio, aggredire per paura, per paura o di essere aggredito oppure aggrediti i propri pensieri, che le cose in cui si crede possano essere messe in discussione o distrutte, in definitiva tutta una serie di operazioni sempre volte a difendersi da qualcosa che minaccia la propria religione. Ciascuna guerra, come dicevamo tempo fa, ha sempre la struttura della guerra di religione, anche se ci sono ottimi motivi economici, ma i motivi economici generalmente appartengono a qualche gruppo, a qualche lobbie direbbero oggi. La più parte delle persone non è mossa da questo ma da ciò in cui crede e cioè dalla propria religione, dalle proprie convinzioni. Da tempo si ascoltano dovunque che i malanni peggiori che ultimamente si riscontrano sarebbero mossi dall’assenza di valori, ma se fosse esattamente il contrario? C’è questa eventualità, cioè che proprio l’esistenza dei valori delle cose in cui si crede costituisca il fondamento di ciascuna guerra, di ciascun atto di violenza. Se non ho nessuna idea, nessun religione, nessun credo da proteggere non mi sento circondato da nemici e quindi non ho da ammazzare nessuno, posso dedicarmi ad altro. Uccidere è sempre stata un’attività cara agli umani, ma è sempre stata mossa da questa idea, così come ciascuna guerra è sempre pensata come l’ultima, l’ultima necessaria perché dopo ci sia finalmente la pace, non c’è guerra che si faccia per farne un’altra. Ovviamente, ciascuna è sempre l’ultima, per definizione, perché occorre eliminare il male, cioè in definitiva le persone che sono mosse da un’altra religione. Freud aveva fra l’altro individuato un aspetto interessante che può intendersi come luogo comune rispetto al senso di colpa e procede, diceva, dall’odio, l’odio nell’accezione più ampia. Per esempio, se io ho una fede religiosa, una qualunque, non ha nessuna importanza, e magari ho qua e là qualche dubbio, che però cerco di ricacciare indietro, e mi trovassi di fronte una persona che è un miscredente allora cosa avviene, diceva Freud? Avviene che attribuisco a quella persona, cioè a quel miscredente, tutti i miei dubbi e le mie perplessità e cerco di colpire in lui tutte le mie perplessità ed eliminando lui suppongo così di eliminare i miei dubbi. E questo può giungere fino all’eliminazione fisica, perché si sa, è il modo migliore perché qualcuno cessi di disturbare... in modo definitivo.

Allora, dicevo una traversata del senso di colpa con tutto ciò che questo comporta e quindi il discorso religioso. Il discorso religioso è ciascun discorso che immagina che esista almeno un elemento fuori dalla parola. Questa è una definizione molto stringata, però possiamo aggiungere qualcosa e cioè che il discorso religioso immagina che qualche cosa ci sia da qualche parte, in qualche modo, per qualunque motivo esso sia, e che è esattamente quello che è; perché sia esattamente quello che è occorre che rimanga immutato, che ci sia in altri termini un punto di riferimento, dove non ha nessuna importanza, se sia reperibile o no, non ha nessuna importanza, importa che si creda che ci sia. Per il discorso scientifico è la stessa questione, tra il discorso scientifico e quello religioso c’è una straordinaria prossimità, la questione del progresso e quindi della verità che deve essere raggiunta, non importa se si raggiunge, non importa neppure se si pensa di poterla raggiungere, l’importante è che si creda che ci sia, tutto il resto è assolutamente marginale. Lo stesso Popper immagina che ci sia da qualche parte, in caso contrario il progresso non avrebbe nessun senso, perché non saprei mai se sto andando nella direzione giusta o quella opposta se non avessi il riferimento. Il discorso religioso è il discorso che è supportato dal punto di riferimento, immagina che esista un punto di riferimento, quello su cui commisurare qualunque cosa. La stessa teoria della relatività, o comunque il relativismo, anche in filosofia, subisce la stessa sorte, perché qualcosa sia relativo occorre che sia relativo a qualcosa, sennò è relativo a che? Ed è curioso che anche Einstein abbia detto in una lettera a Bohr che si rifiuta di pensare che dio giochi ai dadi nell’universo, se così fosse tutta la sua teoria perderebbe, non il suo valore matematico, del calcolo, non è questo che è in gioco, ma la sua portata filosofica, ché ciascuna volta è questo che è in gioco, la portata filosofica, quindi gli effetti sul pensiero, sul modo di pensare: infatti, un calcolo numerico non persuade nessuno, convince ma non persuade, il pensiero sì, può persuadére. Faccio questa distinzione tra convincere e persuadére, mutuandola da Perelman, il quale diceva che qualcosa può convincere ma non persuadére, io posso essere convinto da una dimostrazione ma non persuaso, cioè posso continuare ad essere della mia opinione, pur essendo convinto di ciò che ascolto; così posso essere persuaso senza essere convinto, sono persuaso dalla ragione del cuore, come diceva Perelman, senza nessuna convinzione, una persona si persuade ad una religione, non può convincersi ma può invece persuadersi... Ecco, dunque, il discorso religioso è quello che immagina un punto di riferimento come necessario, che lo trovi non ha nessuna importanza, lo immagina come necessario. Questo punto di riferimento deve esistere fuori dalla parola, fuori dal linguaggio, perché se fosse all’interno del linguaggio sarebbe un riferimento piuttosto semovente, inaffidabile, modificabile e modificantesi ininterrottamente, piuttosto inaffidabile per costruirci sopra una teoria, una religione. L’avventura psicanalitica incomincia a delinearsi come un percorso in cui ci si trova necessariamente a mettere in gioco tutto ciò che di religioso esiste nel proprio discorso, non perché questo sia l’obiettivo ma perché non può fare altro, non può fare altrimenti. Incominciando a riflettere intorno al discorso e ai suoi effetti, alle sue procedure e alle sue costruzioni, letteralmente non può non fare questo, o fa questo o non fa niente, e facendolo si trova inesorabilmente prima o poi al punto in cui dicevo, e cioè al punto in cui ciascun elemento cessa di essere credibile, sostenibile, ma diventa né più né meno che una figura retorica e cioè un modo in cui qualcosa si sta dicendo; ma questo modo è assolutamente arbitrario e di questo permane inesorabilmente e irreversibilmente la consapevolezza. Dico irreversibilmente perché in effetti è un percorso che non ha ritorno, affermazioni dunque arbitrarie e non necessarie, se con necessarie intendiamo ciò che generalmente si intende, cioè ciò che non può non essere, ciò che occorre che sia. Che cosa non può non essere necessariamente se non ciò che mi consente di chiedermelo, se questo non ci fosse tutto ciò che segue si dissolverebbe nel nulla, anzi, parafrasando un amico che lavora a Milano, Sini, potremmo dire che senza il linguaggio non è che gli umani non esisterebbero più, è che non sarebbero mai esistiti, e questa affermazione non è confutabile. Ora, i risvolti in parte li abbiamo sfiorati, ma se riflettete bene su tutto questo trovate che si affaccia immediatamente un modo di porsi nei confronti di qualunque cosa circondi, totalmente differente. Primo, perché ciascuna affermazione si impone necessariamente come una figura retorica, un modo in cui qualcosa si sta dicendo, una produzione del linguaggio, e chiedersi quale senso abbia questa produzione può intendersi sia come non senso sia invece letteralmente come direzione. Qual è il senso di un discorso? La direzione che prende in quel momento ma se si cerca invece un senso remoto, nascosto, un meta senso o, come diceva Peirce, l’interpretante logico finale, allora si sa già che questa operazione è votata al fallimento inesorabilmente. Dunque, a questo punto, non si troverà nessun elemento che costringa all’assenso, che imponga di essere creduto, nessuno, qualunque affermazione io faccia so perfettamente che la faccio perché mi piace farla, perché facendola incontro altri elementi, che mi interrogano, che mi costringono a dire altro, che mi fanno trovare altre cose che vengono incontro, ecco le avventure, una produzione incessante, senza necessità di dovermi domandare molto religiosamente a che scopo tutto questo. Che scopo hanno le cose? Che scopo ha l’esistenza? Che scopo ha questa domanda? Se uno vuole porsi domande occorre che lo faccia in termini radicali. Dicevamo rispetto al discorso malinconico, alla depressione, che una domanda che si pone continuamente è "qual è il senso della vita, delle cose, dell’universo stesso?" e che "nulla ha più senso". Ma, primo, perché dovrebbe averne uno? Secondo, che cosa intende esattamente con senso? Forse, ponendo la questione in questi termini la questione si sposta e spostandosi la stessa depressione cessa di essere sostenibile. Occorre tenere conto di come è fatto il linguaggio, del fatto che grammaticalmente alcune cose non possono essere affermate: se io immagino che il mio malessere sia determinato dall’assenza di senso dell’universo, se comincio a chiedermi perché dovrebbe averne uno e interrogo questa domanda fino alle estreme conseguenze, mi sarà molto difficile continuare a pormi quella domanda in quei termini, se ne porranno altre ma con l’eventualità che queste altre domande impongano una maggiore mobilità. Se io immagino che le cose debbano avere un senso, e non considero minimamente l’eventualità di pensare e di chiedermi perché mai, allora do per acquisito che ci sia un senso che io non trovo oppure che debba esserci e invece non c’è per qualche oscuro disegno divino. E allora, ecco, che sono deficitario di senso, mi manca il senso e se a questo aggiungo un altro pensiero tale per cui soltanto il senso potrebbe darmi la felicità, la gioia eccetera, a questo punto sono nella depressione. Ma questo senso non lo troverò e continuerò a pensare che nell’assenza di senso io sono un derelitto e che non c’è via di uscita, continuerò a pensarlo continuamente per tutta la vita, senza che mai possa passarmi nella mente o sfiorarmi l’idea che potrebbe non essere necessariamente così, che affermare che esiste un senso oppure che non esiste ma dovrebbe esistere è una affermazione assolutamente gratuita, come affermare che deve esistere Cappuccetto Rosso, è esattamente la stessa cosa, solo che l’una mi tormenta e l’altra no, chissà per quale motivo? Porre la questione in termini radicali è non dare per scontata nessuna domanda senza considerare che ciascuna domanda se ne porta appresso una infinità di altre, e considerare anche queste altre. Si possono considerare, è questo che indico come dissoluzione del discorso religioso. Il discorso religioso è invece esattamente il contrario, è qualcosa che impedisce questa operazione, la impedisce se è il caso anche con la forza, non a torto, perché se deve mantenersi occorre che faccia questo, occorre che elimini anche fisicamente, se occorre, l’avversario, e se questo è il suo obiettivo fa bene a fare questo. Potrebbe apparire un’idiozia, può anche darsi che lo sia, ma se una persona pensa in un modo religioso giunge a pensare in questi termini, a pensare al nemico e quindi a pensare che deve eliminarlo, magari inizialmente con la persuasione, poi in seguito, se non riesce la persuasione, ci sono altri sistemi.

Importa, quindi, lungo questa avventura psicanalitica intendere quali sono quegli elementi che dati per acquisiti conducono poi a pensare in un modo che prevede necessariamente l’esistenza del bene, del male e di tutti questi altri nobili pensieri, solo che è possibile anche considerare quali possano essere gli effetti anche di questi altri modi di pensare, e cioè che per scatenare guerre di religione occorre avere dei valori. Perché considerare come le maggiori nefandezze siano state mosse dalle migliori intenzioni, sempre, è curioso. Accade che una domanda di analisi sorga proprio nel momento in cui la religione fallisce, cioè quando non riesce più a fornire quel supporto che di fatto può offrire. E, infatti, la domanda è talvolta quella di un’altra religione, cioè di un credo più efficace, più sicuro, più confacente, più affidabile. Però, come andiamo dicendo, non è esattamente questo che occorre che un’analisi faccia, cioè sostituire una religione con un’altra, visto che ce n’è già una piuttosto efficace…

- Intervento: Sul senso…

No, non è proprio così, non è che più niente ha importanza, non è un itinerario che conduca al nichilismo più sfacciato. Il nichilismo è il versante filosofico della depressione, cioè più nulla ha un senso, più nulla è fondabile e allora "muoia Sansone con tutti i filistei". Già gli scettici avevano preso questa direzione. Ciascuno dà un senso, magari lo incontra, più che darlo, lo incontra: uno pensa di averlo dato ma questo senso che incontra è propriamente qualcosa che il discorso ha prodotto ed è una direzione, una direzione che il discorso prende in quel momento. La questione del senso è notevole....(....) Sì, abbiamo data questa definizione di senso, la più ampia possibile, come avviene spesso, cioè come direzione letteralmente. In effetti, la questione che lei pone è molto complessa e ha interrogato molti, soprattutto fra i logici, i linguisti e i filosofi del linguaggio, che forse più di altri si sono trovati a fare i conti con questa nozione di senso, e si sono chiesti che cosa fosse. Domanda non da poco, perché nella migliore delle ipotesi si ritorna al punto di partenza. Due fra i migliori, tali Ogden e Richards, hanno scritto un saggio Il significato del significato, non sono andati molto lontani, però hanno posto l’accento per un versa sull’insensatezza di questa domanda, come se fosse possibile trovare una definizione di senso tale da escludere la possibilità di altre possibili e altrettanto legittime, per cui avviene forse, come dicevamo la volta scorsa, come fanno i logici che sono costretti, ciascuna volta in cui espongono una teoria, a definire nel modo più rigoroso possibile tutti i termini che occorrono nel loro discorso, perché non possono dare per acquisito che altri forniscano la stessa definizione della stesso significante, e quindi sono ciascuna volta costretti a dire che cosa intendono esattamente ciascuna volta con un termine, proprio per questo intoppo che incontrano rispetto al senso o al significato e cioè l’impossibilità di dare una definizione non dico ultima ma soddisfacente...

- Intervento:…

Sì, io ho inteso qui nichilismo in accezione meno precisa di quella che tu stai proponendo, non intendevo fare una disamina completa di questa corrente filosofica. Intendevo nichilismo nell’impianto più comune e cioè come un pensiero che giunge alla considerazione della non fondabilità del pensiero stesso, traendo da questo una conseguenza che è devastante, non importa in quale direzione, come una sorta della possibilità... D’altra parte Gödel, per esempio, potrebbe essere accusato volendo di nichilismo. Gödel, mostrando la non fondabilità della matematica, ha compiuta una operazione nichilista, anche se a nessuno verrebbe mai in mente di porlo fra i nichilisti, anche perché l’avere eliminata la possibilità di fondare la matematica non lo ha depresso affatto. No, nichilismo come l’impatto che il pensiero incontra, filosofico in questo caso, di fronte all’impossibilità di fondare il pensiero, lo stesso Nietzsche tutto sommato è incappato in questo a modo suo. Però, quando penso al nichilismo in genere penso al nichilismo alla Dostoevskij perché sembra che si presti a ciò a cui alludo. L’assenza di senso, in accezione in cui la ponevo, non so se comporta la felicità, sicuramente una mobilità notevolissima, forse più che felicità direi la non necessità della sofferenza, non diventa più necessaria. Distinguo qui fra sofferenza e dolore, giusto per intenderci: con dolore intendo qualcosa che accade e che non è controllabile, la perdita di una persona cara provoca del dolore, la sofferenza invece come qualcosa che si aggiunge al dolore e se lo coltiva, ne fa una religione, lo mantiene per anni senza abbandonarlo mai e in questo c’è una sorta di eccitamento. L’assenza della necessità del senso, più che assenza di senso, può indurre un’estrema mobilità e quindi alla non necessità della sofferenza, non necessità di essere travolti dagli eventi, travolti dalle cose, di costruire o attendersi catastrofi, per esempio. Come spesso avviene uno immagina che se fa una certa cosa allora succederà qualche catastrofe... che poi per altro, pensando in questo modo, c’è anche l’eventualità che la catastrofe la produca perché, attendendola senza accorgersene, può disporre le cose in modo tale che si verifichi. Nella schizofrenia forse non è tanto l’assenza di senso ciò di cui si tratta, si tratta piuttosto, per il discorso schizofrenico, di una estrema produzione di senso, è come se ciascun elemento fosse fortemente dotato di senso, solo che questo senso scivola immediatamente su un altro elemento, ma ciascuna volta questo senso è pregnante, è fortissimo al punto da costringerlo a considerare solo quella cosa, perché qualunque altra rispetto a quella non ha nessun senso salvo poi immediatamente essere attratti subito da quella dopo che ha la stessa funzione. Questa cascata continua e senza possibilità di arresto è la figura del discorso schizofrenico, come il deserto, cioè l’assenza appunto di riferimenti, oppure l’oceano, la profondità assoluta, senza fine...

- Intervento: Non si potrebbe dire che la sofferenza è un tentativo di spiegare il dolore?

Sì certo. In questo senso dicevo che la sofferenza è l’aspetto religioso del dolore, si fa una religione. Non è che sia possibile non trovarsi presi in un senso del discorso, il discorso produce del senso ininterrottamente, ciò che sto dicendo è l’eventualità di trovarsi a non avere la necessità del senso, che quindi una cosa abbia un certo senso, il senso lo si incontra continuamente prodotto dal discorso, però non è necessario, in quanto è una figura retorica e come tale può essere considerata.