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DA DOVE INIZIA UNA PSICANALISI

 

17/3/1998

 

Proseguiamo queste conversazioni intorno alla psicanalisi. Dunque da dove incomincia una psicanalisi? Incomincia da una domanda che verte generalmente intorno al proprio pensiero e alle sue difficoltà. Dicevamo la volta scorsa che spesso una domanda d’analisi si configura come domanda che è intesa a togliere il disagio, molte volte è una domanda di religiosità, però il fatto che occorra una domanda in una analisi non è indifferente, sapete che non c’è nessuna possibilità di condurre una analisi con una persona che non la vuole fare. Già Freud aveva inteso che è indispensabile che una persona desideri confrontarsi con il suo discorso; se questo non c’è, non succede assolutamente niente. Per questo fuori da un ambito analitico e più propriamente da una seduta psicoanalitica un analista non può, non ha nessun elemento, nessuno strumento e all’occorrenza nessuna intenzione per intervenire. Nessuna intenzione in quanto sa benissimo che qualunque intervento gli passi per la mente di fare non potrà produrre nessun effetto. Questione non marginale che tiene conto anche della difficoltà ravvisata da molti, soprattutto negli ultimi anni nel volere applicare la psicanalisi per esempio al sociale; molti accusavano la psicanalisi di intervenire unicamente sull’individuo e di non avere potere rispetto ai molti, il che non è del tutto errato: in effetti, uno psicoanalista non ha nessuno strumento per intervenire su un discorso che non ha nessuna intenzione di mettersi in gioco, di affrontare le questioni che lo riguardano, e questo per un motivo molto semplice perché l’intervento dell’analista, è per lo più è un intervento mirante ad impedire che il discorso si arresti. Perché l’intervento dell’analista abbia un effetto occorre che la persona che ascolta tale intervento, sia disponibile ad accogliere, di fatto, che l’analista gli impedisce di arrestare il suo discorso. Occorre in altri termini che ci sia da parte dell’analizzante che è colui che, in effetti, analizza generalmente il proprio discorso, ci sia l’intenzione di confrontarsi con tutto ciò che il suo discorso produce e quindi anche necessariamente con le difficoltà che incontra laddove per esempio gli riesce difficile giungere a una conclusione, chiudere una questione. Se non c’è questa volontà, questo desiderio, non succede niente. Ma se un’analisi inizia con una domanda, ciò che ne segue è il più delle volte un’analisi di questa domanda, dal momento che qualunque sia la domanda, in qualunque modo si configuri tale domanda, esprime un desiderio, un’intenzione, un qualche cosa che comunque questiona la persona in quel momento. E dunque, siccome lo psicoanalista occorre che si attenga a ciò che si dice in quel momento, di questo occorre che tenga conto e cioè di ciò che si dice lungo questa domanda. Non è che poi in seguito faccia cose molto differenti; abbiamo già detto che ciò che fa l’analista è soprattutto di impedire che il discorso si arresti. Il discorso si arresta laddove c’è la supposizione, l’idea, la fantasia di avere trovata la risposta o stabilito come stanno le cose: esattamente a questo punto l’analista interviene a spostare la questione; non è che faccia molto più di questo, dal momento che abbiamo visto che non interpreta propriamente, cioè non trasforma ciò che ascolta in un altro discorso che sia più vero, più interessante o più qualunque altra cosa, ne ha da ricondurre ciò che ascolta a una sua particolare dottrina; ascolta un discorso, uno qualunque, quello che ciascuno si trova a fare continuamente. Ascoltando questo discorso incomincia a rilevare che cosa nel discorso che ascolta ha la funzione di assioma, di principio da cui tutto ciò che segue trae la sua forza, la sua legittimità, in altri termini rileva che cosa supporta il discorso che ascolta e quali ne sono le condizioni. Le condizioni di un discorso, un qualunque discorso, non sono altro che le premesse da cui parte; premesse che per definizione sono credute vere oppure reali o necessarie; date quelle premesse una persona giunge a delle conclusioni che ritiene altrettanto vere, necessarie delle premesse da cui è partito. Compito dell’analisi è di reperire le premesse su cui si sostiene il discorso e incominciare a interrogarle. Ciascuno parlando espone le cose generalmente che ritiene vere, e le ritiene vere perché muove il suo discorso da assiomi ritenuti saldi ed incrollabili; operazione questa piuttosto diffusa, soprattutto il considerare che le cose che si dicono non siano altro che l’espressione o la manifestazione di una realtà e quindi il discorso il più delle volte è immaginato come la descrizione di uno stato di fatto. Questa supposizione è una sorta di mitologia cara al discorso occidentale da cui seguono e sono seguite tutta una serie di inconvenienti. Compito dunque dell’analisi e dell’analista in particolare almeno all’inizio è individuare quali sono i supporti, i principi fondamentali su cui il discorso che si va facendo si regge, cioè il discorso che va facendo l’analizzante, cioè colui che si rivolge all’analista per analizzare il suo discorso. Questa operazione che viene svolta sin dall’inizio è fondamentale e si tratterà poi lungo tutta l’analisi di proseguire lungo questa operazione. Immaginate un discorso che voi fate, uno qualunque non ha importanza; questo discorso che vi trovate a fare ha delle condizioni e cioè date per acquisite tutta una serie di elementi che vi appaiono assolutamente certi, normali, naturali, reali; supponete per un momento che tutti questi elementi non rispondano a questo criterio, non essendo più ne naturali, ne reali, ne ovvi, ne scontati, occorre che siano spiegati, occorre cioè che ciascun elemento ritenuto il più ovvio, il più banale, torni ad essere preso in considerazione. È un’operazione che crea un notevole fastidio oltre che un notevole disagio, e questo è uno dei motivi per cui chi inizia un’analisi occorre che lo voglia fare se no non lo fa. Non lo fa perché nulla al mondo lo invoglia a fare una cosa del genere cioè cominciare ad interrogare le cose che da sempre si sono date per acquisite: una cosa acquisita è una cosa che, per definizione, non ha da essere rimessa in gioco: se io so che una cosa è così, il discorso è finito. Supponiamo invece che non lo sappia affatto, allora devo spiegare di cosa si tratta e cioè devo spiegare che cosa è assolutamente ovvio, naturale, normale, e non è facile. Può diventare difficilissimo spiegare una cosa che è assolutamente ovvia al punto da incontrare notevoli difficoltà e c’è l’eventualità di constatare che una certa cosa si ritiene e si è sempre ritenuta ovvia perché lo spiegarla comporta la produzione di una serie notevole di altre domande a cui difficilmente si può o si sa rispondere. In altri termini questa operazione ha questa funzione, di condurre la persona a considerare che ciò che immagina ovvio, normale e naturale, di fatto è qualcosa che continua a interrogare e che non è ne naturale, ne ovvio, ne scontato. Non essendolo, difficilmente potrà costituire il fondamento o l’assioma di una serie di conclusioni, di deduzioni che giungeranno ad una conclusione; difficilmente mi fondo su una cosa che ritengo assolutamente dubbia, insicura, inaffidabile, infondata, per trarre conclusioni assolutamente certe; posso nella migliore delle ipotesi formulare un’ipotesi, una congettura, ma nulla che assomigli a una sorta di credenza, di superstizione, che invece come è noto vivono di certezze. L’altra volta dicevamo della struttura del discorso religioso; in effetti questa operazione che io andavo descrivendo è il primo passo per mettere in discussione il discorso religioso e cioè quel qualunque discorso che si suppone fondato da quell’elemento che è fuori dalla parola e cioè da un elemento assolutamente certo, sicuro, incrollabile e inamovibile. Potremmo dire che una psicanalisi è la dissoluzione del discorso religioso e incomincia con la messa in discussione della struttura discorso religioso, incominciando a considerare su che cosa si regge, cioè quali sono le condizioni perché una certa cosa possa essere creduta. Faccio un esempio: io credo che gli umani siano una specie straordinaria oppure il contrario; bene, a quali condizioni io posso considerare una cosa del genere, quali sono gli elementi che sono necessari perché io possa formulare una simile considerazione. Se io voglio pensare che gli umani siano una specie straordinaria e cara agli dei, posso trovare tutti gli elementi che voglio per provarlo; se invece io immagino che gli umani siano una malagenia, un sorta fenomeno di mancata antisepsi dell’universo, una specie di fungo venuta su per mancata disinfestazione, potrò trovare altrettanti motivi per credere una cosa del genere. Tuttavia, la struttura del linguaggio è fatta in modo tale che una persona generalmente crede o l’una cosa o l’altra, non entrambe simultaneamente, per una questione grammaticale. Una delle due la crede vera perché ha buoni motivi per pensarlo, nel senso che è riuscito a provare o quanto meno a fornire delle proposizioni che gli appaiono come una buona prova e quindi ci crede; tutto ciò che in linea di massima viene affermato e non si riesce a confutare, viene ritenuto vero, quindi creduto. Ora, dunque a quali condizioni è possibile pensare che gli umani siano una stirpe cara agli dei? Innanzi tutto occorre, in questo caso che ci sia una buona possibilità a credere all’esistenza degli dei, e che questi dei abbiano un occhio di riguardo per gli umani, e tutta una serie di altre considerazioni che sono necessarie per formulare questa proposizione, tutte cose apparentemente ovvie che cessano di esserlo al momento in cui la questione si affronta con maggiore rigore. Il fatto che una qualunque proposizione che venga affermata e che della quale non ci sia una confutazione sia creduta vera, è un fenomeno alquanto bizzarro; lo stesso discorso scientifico funziona in questo modo: è vero tutto ciò che non viene provato falso; un’affermazione è vera fino a che non sarà possibile costruire una proposizione vera che la nega. E che ne è di una proposizione che non ha una confutazione ? Essa si installa come una sorta di programma nel discorso e funziona esattamente come un programma, cioè il proprio discorso ne terrà conto e non potrà non farlo . Cioè un’informazione che viene a fare parte integrante del mio discorso e della quale non posso più non tenere conto, e così avviene di qualunque cosa che è creduta vera. Ora, il discorso di ciascuno è costruito a partire da questi elementi fondamentali, ritenuti assolutamente certi, ovvi; questo riguarda anche le persone più avvezze a dubitare di tutto: come nel discorso ossessivo. Anche le persone che apparentemente dubitano di qualunque cosa, sono, se voi le interrogate, sono persone fortemente credenti e dubitano soltanto perché non trovano un qualche cosa che le faccia credere con forza qualcosa che desiderano fare; e prima o poi lo trovano. Ci sono alcune strutture di discorso particolari come il discorso isterico, paranoico, quello schizofrenico meno, ma che passano rapidamente da un disinteresse totale per le cose ad una passione furibonda, come dire dal dubbio più assoluto alla certezza più incrollabile con straordinaria rapidità, perché la struttura è tale da consentire questa operazione e cioè per esempio, il discorso ossessivo non è che sia incredulo di tutto, è soltanto i attesa di un padrone che lo costringa a credere: appena lo trova crederà con fervore e umiltà. Ecco allora l’importanza di reperire nel discorso di ciascuno ciò che ha questa funzione; dicevamo prima che ciascuno è fatto di queste cose in cui crede assolutamente e delle quali può essere più o meno consapevole perché sono talmente ovvie, talmente scontate, talmente naturali che non gli passerebbe nemmeno per la mente di andare a chiedersi se è esattamente così oppure no. A nessuno verrebbe in mente di mettere in dubbio la propria esistenza, ma pochi saprebbero dire che cosa sia esattamente l’esistenza e dunque in quel caso non metterebbe in dubbio, quindi assolutamente certo di un qualche cosa che per lo più ignora. Come appare lungo un’analisi di constatare che le più incrollabili certezze sono fondate su elementi che per lo più si ignorano totalmente. Nel momento in cui ci si accorge di questo fenomeno così bizzarro, c’è un lieve contraccolpo nel accorgersi di essersi appoggiati da sempre su un qualche cosa che tutto sommato si ignora; per questo lungo un’analisi è possibile che avvengano dei momenti di disorientamento. Poi subentra un’altra considerazione perché, prima si pensa che non era in un modo ma era in un altro, e invece poi si constata che non era in nessuno dei due modi, ma che il discorso in cui ci si trova, inesorabilmente, costruisce, man mano che prosegue, delle figure. C’è una figura retorica che rende conto di questa operazione, nota come ipotiposi, una schizzo letteralmente, un tratteggio ed è propriamente quella figura che consente di mostrare , parlando esattamente ciò di cui si parla, lo vivifica, lo rappresenta, lo mostra quasi come fosse reale davanti agli occhi. Il discorso fa questo continuamente, produce delle cose che non è che siano fantasmi, rispetto ad un’altra cosa che sia invece il reale; anche questa considerazione se condotta fino alle estreme conseguenze mostra il fianco a notevoli e potenti obiezioni. È difficile stabilire che cosa sia irreale se prima non si è determinato con assoluta certezza che cosa sia reale, e compiere questa operazione può non essere facilissimo. E allora che cosa stiamo dicendo quando si parla di irreale, per esempio; questa è una bella questione che non ha una risposta generale ne una legge universale, ma occorre che ciascuna volta sia la persona che utilizza questa espressione a dirne qualcosa, per sapere come la sta utilizzando il che equivale a dire e che senso ha per lui, cioè che senso ha nel suo discorso. Ecco allora che mano a mano la questione si sposta: il discorso non è più la manifestazione o l’espressione di un dato di fatto o di uno stato di cose, ma la costruzione di altre proposizioni, ne vere, ne false ovviamente, ma queste proposizioni che vengono costruite, potremmo dirla in modo radicale, sono tutto ciò di cui ciascuno dispone e potremmo aggiungere che non dispone di nient’altro che questo. Cosa che non va senza effetti ovviamente; da sempre il discorso occidentale,(ma no solo) ha compiuto sforzi immani per potere affermare con certezza che non sia così, senza giungere a nulla, tornando ciascuna volta esattamente al punto da cui era partito. Pensate a 2500 anni di pensiero, filosofico, linguistico, scientifico , logico, etc..; tutto questo sforzo notevolissimo, compiuto anche da menti sicuramente non le più sprovvedute, è stato compiuto allo scopo unico di trovare un qualche cosa di fondato finalmente, almeno una cosa, su cui potere costruire con certezza. Ecco, la risposta che è stata data generalmente è ciò che comunemente è intesa come religione. In definitiva, vi sto dicendo che un’analisi incomincia aggiungendo elementi, e in questo ponendosi ad una distanza notevolissima, per esempio, dal buddismo zen al quale molti si erano accostati nei primi anni ’70 secondo la moda dell’epoca, indotti dal fatto che il buddismo zen proponesse l’eliminazione di tutto ciò impediva al pensiero di potere essere limpido. C’è una famosissima storiella zen di quel tale, occidentale, che va da un maestro zen per imparare la dottrina: il maestro acconsente, lo fa accomodare, prende del te e incomincia a versargli del te. Versa, versa fino a quando la tazza non trabocca, e l’occidentale, americano all’occorrenza, vede questo te che trabocca, guarda con aria interrogativa il maestro fino a quando gli chiede: "ma, non vede che sta versando tutto?". Il maestro, saggio, risponde: "ecco, la tua mente è come questa tazza di te, è colma non può ricevere nient’altro, prima occorre vuotarla". Così dice la storiella zen. E in definitiva tutta la dottrina buddista non è altro che questo: liberarsi dal desiderio, perché gli umani desiderano e questo è male, il desiderio è male; tolto il desiderio si giunge, attraverso una serie di passi, al nirvana, che non è altro che l’assenza di desiderio quindi la quiete. Buddha, Siddharta, buona parte di questi personaggi sono sempre stati folgorati da qualche illuminazione, così come Maometto, così come Paolo sulle vie di Damasco; hanno avuto le visioni, i visionari. Ma sbarazzarsi di tutto ciò che si sa, di tutto ciò che si crede, il buddismo zen vuole che questo avvenga attraverso il vuoto mentale, fare il vuoto assoluto e poi incominciare ad inserire elementi. Però, sarebbe sufficiente che qualcuno pensasse che il desiderio non è il male e tutto crolla, d’altra parte perché dovrebbe essere il male, oltre al fatto che rispetto alla nozione stesa di desiderio è possibile discutere moltissimo su che cosa sia esattamente o dobbiamo pensare che sia quello che vuole che sia Siddharta, solo perché ha avuto una visione; non è sufficiente. Ecco, ma più che fare il vuoto o il pieno, a seconda dei casi, forse è possibile interrogare le cose. Cioè, molto più semplicemente, domandarsi, per esempio, adesso vi faccio questo esempio molto banale sul buddismo zen e di Siddharta, a quali condizioni questo signore ha potuto affermare ciò che ha affermato, e cioè quali cose occorreva necessariamente che lui credesse per potere affermare di avere avuto la visione della luce, della verità. E chiaro che l’ingenuità di queste formulazioni non toglie nulla al fatto che abbiano un certo seguito; da un calcolo molto difettoso, pare che i quattro quinti dell’umanità sia religiosa, cioè creda ad una dottrina, qualunque essa sia; tanto più ultimamente in quanto avviene una proliferazione di sette, settine, notevolissime, l’ultima la New age contro la quale il Vaticano sta lanciando i suoi anatemi, per ovvi motivi. Ma, ecco questa proliferazione del pensiero religioso non è molto strana; abbiamo detto molte volte che mano a mano che cresce il tecnicismo e la credenza nel fatto che il tecnicismo possa rispondere al requisito fondamentale della filosofia, del pensiero, ecco che sorge il pensiero religioso perché il discorso scientifico non può rispondere a questa domanda, meno che mai il tecnicismo. Può essere utilizzato in vari modi, ma non ha la facoltà di rispondere alla domanda fondamentale sintetizzata da Heidegger: "perché l’essere anziché nulla ?" Potrebbe apparire una domanda oziosa, però taluni se la sono posta, e non è difficilissimo intendere che questa domanda è mal posta. Ma torniamo di nuovo alla questione precedente e cioè per porsi questa domanda occorrono pure delle condizioni: da dove vengono queste condizioni? Abbiamo detto mille volte che vengono dalla struttura che ci consente di farle, queste considerazioni; non tenere conto di questo banalissimo elemento comporta una piccolissima defaiances, e cioè la catastrofe del pensiero il quale si schianta sull’impossibilità si uscire dalla sua condizione cioè il linguaggio. Ma, come dicevo, una psicanalisi incomincia con il porre l’accento su delle ingenuità di pensiero; l’ingenuità di pensiero non è altro che la supposizione che il pensiero possa determinare, per esempio, le leggi delle cose, o possa stabilire che cosa è vero in una certa accezione, quindi in definitiva quale sia la direzione che necessariamente occorra seguire, questa è una ingenuità. Così come dicevo prima, un’ingenuità è pensare che le proposizioni di Siddharta siano vere; è sufficiente incominciare a porre qualche questione, abbiamo fatto l’esempio prima del desiderio, perché dovrebbe essere un male e poi che cosa è esattamente. È chiaro che questo occorre farlo con qualunque cosa, ed è al quel punto che tutto ciò che appare chiaro, limpido, sicuro, si trasforma in altro, molto più interessante, perché molto più stimolante, molto più mobile che credere una qualunque cosa. Posso credere in una qualunque cosa, sia in Cristo, sia in Siddharta, sia in Topolino, non è molto diverso strutturalmente, però vado poco lontano cioè il discorso si arresta, ciascuna religione si pone come limite al pensiero, cioè "tu devi accettare che l’origine viene da qui, che questo è il bene e questo è il male". Se si accetta una cosa del genere il gioco finisce subito; insomma, la religione non consente di giocare e quindi non rilancia le questioni, impedisce di porci le domande precise, legittime e se ce lo impedisce non si gioca più. Posso credere una certa cosa, immaginando che sia vera, ma che potrebbe essere falsa? Certo, questo avviene nelle quasi totalità dei casi, ma quello che si sta indicando è invece la impossibilità di credere vera una cosa che so essere falsa, non che potrebbe, ma che lo so. Potrei credere che una persona sia maschio e femmina simultaneamente? No. E chiaro che ciò che credo vero, mano a mano che lo interroghi comincia a vacillare; questo è un destino comune a tutte le questioni. Ciò che ho voluto dire questa sera, è soltanto, così molto rapidamente, è che cosa avviene quando incomincia un’analisi, cioè quali sono le questioni su cui ci si sofferma, che cosa si fa esattamente. Si ascolta un discorso, ascoltare che indico qui come qualcosa che è differente dallo stare a sentire; ascoltare e cogliere quali elementi insistono nel discorso e danno per acquisiti altri elementi. L’analisi è il modo per confrontarsi con tutto ciò che si da per scontato, per acquisito, e verificare se è proprio così, se è proprio così naturale, normale, scontato, acquisito, oppure no, oppure mi sono sempre fondato su elementi assolutamente instabili, cioè ho costruito le mie certezze più salde sull’acqua che è sempre semovente. Chi inizia un’analisi? Questa è un’altra questione che va posta, alla quale potremmo rispondere: "chi ha voglia di farlo", molto semplicemente; però possiamo anche aggiungere che generalmente inizia un’analisi chi non è più soddisfatto delle risposte che riceve da sé e dal prossimo; non gli bastano più. Ecco che allora inizia un itinerario in cui di fatto l’interrogazione verte non tanto su questioni personali, ma su qualcosa di molto più determinante e cioè su tutto ciò che si è acquisito come risposta a ciò che per ciascuno costituisce la domanda fondamentale. Quale sia la domanda fondamentale per ciascuno, questo lo si può rilevare dal suo discorso; diciamo quella domanda la cui risposta è costituita dalla sua vita, dal modo in cui vive, dal modo in cui parla, pensa, etc.. è il più delle volte la risposta a una domanda. Una risposta che grossomodo funziona, certo alcune volte ha qualche intoppo, però funziona; potremmo dire: la sua religione, ciò in cui crede, come se avesse stabilito che il desiderio è male(visto l’esempio che abbiamo fatto di Siddharta) e avesse acquisito questo come principio, come dato di fatto: il desiderio è malvagio, senza sapere perché esattamente, senza sapere neanche che cosa sia il desiderio, però per lui il desiderio è il male. Cosa si può fare, lo si può interrogarlo e chiedergli perché crede una cosa del genere, da dove viene, cosa lo supporta e soprattutto a che cosa serve.

Il fatto di decidere di intraprendere un’analisi personale, non può rappresentare un freno, per quello che riguarda i tempi, decisamente lunghi di questo percorso? Anche se ci può essere il desiderio di analizzarsi, di capire certe cose, di capire certi interrogativi, allo stesso tempo, può capitare che ad un certo punto dell’analisi, la persona si senta meglio e decida di affrontare tutto da solo, senza il sostegno dell’analista, accorgendosi, dopo un periodo di tempo, che alcune questioni non sono state del tutto risolte? Si può instaurare una sorta di dipendenza con l’analista? Per quanto riguarda l’eventualità che l’analisi duri a lungo e che una persona si senta meglio e decida di interrompere, questo avviene e l’analista cerca di impedire una cosa del genere perché sa benissimo che questo effetto terapeutico è effimero. È effimero e se non è consolidato da un discorso, da un’elaborazione di tutte le questioni che sono in corso, interrotta l’analisi e cessata l’euforia iniziale, torna tutto come prima. L’effetto terapeutico, in questo caso, è dovuto al fatto di avere qualcuno che sta a sentire, per esempio, a considerare importanti le proprie cose, sentirsi spalleggiati, sentirsi protetti oppure ancora avere effettivamente inteso alcuni aspetti, ma senza avere inteso nulla delle condizioni che li hanno costruiti. Allora, sì certo, l’analisi viene interrotta e poi se si accorge di ciò che è avvenuto, magari riprende, oppure no, e in quel caso avrà perso soltanto tempo e denaro, perché l’analisi ha dei tempi che talvolta non sono brevi. D’altra parte, una persona ci mette trent’anni a costruirsi in un certo modo e poi non è che sia possibile smontarla in poco tempo in quanto è difficile trovarsi a pensare in modo differente, trovarsi a pensare che le cose in cui si crede possano non essere esattamente così come si pensa che siano. Poi, l’interruzione dell’analisi avviene per infiniti motivi, comunque non è mai interessante; il più delle volte accade che la persona che interrompe l’analisi si trovi a rappresentare per moltissimo tempo quell’elemento che ha determinato l’interruzione dell’analisi, come se lì si bloccasse qualcosa che poi non ha più modo di intendersi e quindi si continua a rappresentare: questo è un luogo comune. In genere, una persona che intraprende una psicanalisi, sa che non si tratta di una cosa breve e la durata dell’analisi è imprevedibile, non è possibile stabilire quanto tempo ci metterà una persona a cessare di credere nelle cose in cui crede, per cui avviando l’analisi sicuramente c’è questa sensazione di iniziare un percorso di cui non si sa ne quanto durerà, ne esattamente dove condurrà. È anche questo aspetto della dipendenza dall’analista accade, che non è la dipendenza dall’analista in quanto tale, ma dall’idea che ci sia qualcuno che capisce, e che questo sia necessario per fornire quel supporto necessario a mantenere una certa sicurezza che consente di andare avanti. Questo aspetto, è uno degli aspetti che, lungo un’analisi va affrontato, va affrontato, perché se non fosse dipendenza dall’analista, sarebbe dipendenza da qualunque altra cosa. Il fatto che sia dipendenza dall’analista ha un’occasione in più e cioè quella di poter intendere che cosa no sta’ funzionando, perché dipende da qualcosa anziché da nulla e perché non ci sono le condizioni per accorgersi che non ha necessità di nessuno da cui dipendere. Ha bisogno dell’analista esattamente come altri hanno bisogno di Cristo, di Siddharta, e di qualunque altro; è la stessa struttura, quella del discorso religioso. Si può anche interrompere l’analisi per una supposta dipendenza, quasi per conquistare una sorta di autonomia. Si può interrompere un’analisi per qualunque motivo e il suo contrario, si potrebbero raccontare infinite storie a riguardo dell’interruzione dell’analisi; è curioso che Freud si sia trovato a scrivere le cose migliori proprio rispetto alle analisi cosiddette fallite: l’uomo dei topi, dei lupi etc.., cioè sono quelle che poi lo hanno interrogato maggiormente. Il percorso analitico è un percorso bizzarro, sicuramente non facile, con molte difficoltà; l’essenziale è che mano a mano l’analisi fornisca gli strumenti per potere affrontare le difficoltà che sono sempre maggiori, così come sono sempre maggiori gli strumenti di cui si dispone, al punto in cui qualunque difficoltà non sarà più tale o quanto meno sarà affrontabile con tranquillità, consapevole di possedere gli strumenti per affrontarla nel modo migliore, sempre e in qualunque circostanza. Questo occorre che faccia e può farlo perché sbarazza di tutto ciò che impedisce di compiere queste operazioni quali paure, angosce, fobie, insicurezze, sensi di colpa e tutta una serie di malanni che effettivamente frenano e impediscono di potere utilizzare le proprie risorse che sono senza limiti. È chiaro che se uno si mortifica, ecco che accade che si limiti ad un punto tale l’esistenza da non poter fare nulla ed a credere di non potere fare nulla perché ne ha tutte le dimostrazioni, senza considerare che non è riuscito per una motivazione ben precisa. In effetti, a parte l’analisi e l’analista, c’è una dipendenza irreversibile dalla quale nessuno può sottrarsi, ed è la dipendenza dal linguaggio, in quanto nessuno può uscirne e quindi ne dipende.